Percorso il viale nel parco, la limousine nera coi vetri fumé e le bandiere americane si fermò davanti alla villa. La padrona di casa fu avvertita del loro arrivo da uno dei domestici. «Vedrete che sorpresa» disse agli ospiti, molti dei quali già coi calici in mano, mettendosi a correre avanti e indietro. «Cara» disse alla Cardinale, «non immagini chi sta arrivando.» «E chi sarà mai.» «Vedrai, vedrai.» Un istante dopo si aprì il portone.
Voci che parlavano in inglese nel vestibolo. I tre uomini, in abito scuro, elegantissimi, entrarono nel salone accompagnati dal domestico coreano. Vedendoli, tutti rimasero a bocca aperta. Erano così famosi che non riconoscerli sarebbe stato impossibile.
Gina, in un lungo abito di seta a fiori, andò verso di loro per fare gli onori di casa. Parlava inglese abbastanza bene. Il primo ad abbracciarla e a baciarla sulle guance fu Aldrin. Poi Armstrong, e per ultimo Collins.
«Dove avete lasciato le mogli?» domandò Gina. «In albergo» rispose con un sorrisetto Aldrin. «Che scusa avete inventato?» Aldrin continuò a sorridere, ma non disse nulla. Gli altri due finsero di non aver sentito.
Quella mattina l’ambasciatore americano l’aveva chiamata al telefono per dirle che i tre eroi lunari erano appena sbarcati a Roma, una delle tante tappe del tour mondiale per festeggiare il successo della missione Apollo 11. Gina li aveva conosciuti a Città del Messico e, saputo che due settimane dopo sarebbero stati a Roma, aveva promesso di invitarli a cena nella sua villa. Per l’occasione aveva organizzato una serata informale, ristretta a una trentina di invitati. Tra gli ospiti c’era anche Claudia Cardinale, reduce dalle riprese di C’era una volta il West e La tenda rossa.
Gina guardò dentro gli occhi di ghiaccio di Neil, ma non vi trovò nulla. Quegli occhi la mettevano a disagio. «Venite, vi presento agli ospiti.» Li guidò al centro della sala, dove vennero attorniati da una piccola folla festante. «Per favore, niente svenimenti» disse Gina. «Claudia, ti presento Neil, Buzz e Michael, di ritorno dalla Luna.» La frase suscitò qualche risolino. Nelle mani dei nuovi arrivati si materializzarono delle coppe di champagne.
In un angolo della sala, un pianista cominciò a suonare brani jazz, in loro onore. «Vi piace lo swing?» chiese Gina. «Ma certamente» rispose Aldrin, che se la mangiava con gli occhi. Un paio di camerieri passò con vassoi pieni di tartine e salatini. Aldrin ci diede subito dentro. Molto meno gli altri due. Dei tre, Collins era il più taciturno. Neil parlava solo se aveva qualcosa da dire, mentre Aldrin parlava soprattutto quando non aveva niente da dire. «Alla vostra!» disse Gina invitando gli ospiti ad alzare i calici.
Attraverso il finestrone si vedeva uno spicchio di luna. «Ehi, noi lassù ci siamo stati» fece Aldrin, come se fosse stupito di trovarsela proprio lì davanti, e la sua voce per un istante divenne quella di un ragazzino. Tutti guardarono Collins, l’unico del terzetto a non esserci stato, sulla Luna, costretto a orbitare sul modulo di comando, in attesa del ritorno dei compagni. Molti si domandavano se la cosa non lo avesse scombussolato. Ma nessuno osava chiedere.
Con tutti quegli occhi addosso, Collins sentì il bisogno di dire qualcosa: «Mentre ero lassù, tutto solo, non smettevo di fissare la Terra: aveva un che di fragile. Quando ci siamo avvicinati alla Luna si vedeva la luce del Sole che scendeva a cascata intorno al suo bordo: era più scuro del buio, più brillante della luce. Il contorno della Luna era uno spettacolo magnifico.» Erano belle parole. Ma nient’altro che parole.
Alcuni si avvicinarono e iniziarono a tempestare i tre di domande. «Qualcuno nega che siate mai andati sulla Luna» disse l’avvocato D., vecchio amico della padrona di casa. Non era il migliore dei benvenuti. Gina gli lanciò un’occhiataccia. Il solito rompicoglioni, pensò. Posandogli una mano sul braccio, Armstrong raffreddò all’istante la temperatura di Aldrin, che qualche giorno prima aveva mollato un cazzotto a un tizio che gli aveva rivolto una domanda analoga, e senza scomporsi disse: «La gente ama le teorie complottistiche. Ma, se lei lascia qualcosa di suo da qualche parte, prima o poi qualcuno la troverà. E poi i russi, che spiano ogni nostro movimento, ci avrebbero sbugiardati, non crede?».
«Cosa avete lasciato lassù?» domandò l’avvocato. «Parecchia l’attrezzatura. La macchina fotografica, per esempio» fece Aldrin. «Mentre il nostro amico qua» e posò una mano sulla spalla di Collins «continuava a girare in tondo, noi siamo rimasti sul suolo lunare per quasi tre ore.» «A far che?» domandò qualcuno. «Ma come!» esclamò Aldrin. «Uno mette piede per la prima volta sulla Luna e lei gli domanda a far che?» La risposta era ineccepibile, eppure tutti continuavano a fissarlo. «Be’, prima di tutto a raccogliere campioni di roccia, di polvere lunare» si decise a spiegare. «E poi a posizionare alcune attrezzature, tra cui uno specchio retroriflettore per misurare l’esatta distanza della Terra dalla Luna: quello specchio è ancora là. Prima di andarcene abbiamo fissato a uno dei piedi del Lem una targa con le nostre firme e quella del presidente Nixon.» «La firma di Richard Nixon?» domandò l’avvocato, sempre più impertinente. «Il solito megalomane!» disse un altro, per fortuna sottovoce e per di più in italiano, così che nessuno dei tre astronauti fu in grado di comprendere. «Ma certo!» esclamò Aldrin. «È il nostro presidente. Non siete patriottici, voi italiani?» «Naturalmente!» riposero in diversi.
«E poi sulla targa campeggia questa scritta…» Socchiuse gli occhi per aiutarsi: «“Qui… uomini del pianeta Terra per primi hanno posato il piede sulla Luna. Luglio 1969…” Ah, dimenticavo: “Siamo venuti in pace per tutta l’umanità”». Scattò un applauso. Aldrin parve tirare un sospiro di sollievo. «Poi abbiamo piantato la bandiera americana» aggiunse. «Per far sembrare che sventolasse, siamo ricorsi a un piccolo trucco.»
«Abbiamo faticato a conficcarla nel terreno» lo soccorse Armstrong «perché la regolite…» «La regolite?» domandò una donna bionda di mezza età, con un vistoso trucco e una cotonatura stellare. «Sì, la sabbia lunare» precisò Armstrong. «Una sabbia, come vi dicevo, molto più compatta di quella terrestre.»
«Voi sostenete di aver lasciato lassù le prove del vostro passaggio. Ma se nessuno dopo di voi ci dovesse andare, che valore avrebbero quelle prove?» lo incalzò l’avvocato. «E finiscila, una buona volta, Alvise!» lo redarguì la padrona di casa, che cominciava ad avvertire un principio di emicrania. Si era pentita di averlo invitato. «Ha voglia di scherzare» fece Aldrin, parecchio su di giri. «Un milione di persone lavora per la Nasa e non siamo andati sulla Luna? E come potremmo darla a bere a così tanta gente?» Molti risero, ma non tutti.
«Parlateci piuttosto del momento della partenza, delle ore che hanno preceduto il decollo: tutti qua muoiono dalla voglia di sapere» disse Gina, smaniosa di archiviare quelle insinuazioni. Nella sala si levò un boato. «D’accordo» sorrise Armstrong, pacato come sempre. «Anche se sono cose risapute, siamo qui anche per questo. La mattina del 16 luglio siamo stati svegliati alle ore 4.30. La sera avevamo consumato una cena abbondante, bistecca e patate.» «Dicono che il presidente Nixon avrebbe voluto cenare con voi ma non glielo hanno permesso, è vero?» domandò l’agente di Gina. «Certo» rispose Armstrong. «I medici non lo hanno consentito, per evitare contaminazioni. Nei dieci giorni precedenti eravamo stati tenuti in isolamento, in ambiente sterile.»
«E poi?» domandò la Cardinale, come risvegliandosi da uno stato letargico.
Gianluca Barbera
*Per gentile concessione si riproduce parte del capitolo “Allunaggio” dal romanzo di Gianluca Barbera, “Il viaggio dei viaggi” (Solferino, 2020)
**In copertina: 13 aprile 1969, Buzz Aldrin, Michael Collins e Neil Armstrong posano su un modello della Luna