18 Novembre 2023

“Non ho fantasia. Le mie scuole di narrazione sono le osterie della Bassa”. Dialogo con Antonio Armano

La strada dell’uomo morto è il nome di una strada della campagna lombarda che esiste davvero e si deve al ritrovamento di un cadavere. Si trova al confine tra una via rurale vicino alla città e l’aperta campagna in Oltrepò pavese. La strada dell’uomo morto è anche il titolo di un libro che è ambientato da quelle parti dove si narrano tra l’altro alcuni delitti. Uno dei quali occulto ma onnipresente: l’uccisione del mondo contadino da parte di quello urbano, consumatosi per tutto il secondo dopoguerra ma andato a segno del tutto negli anni ’70, il periodo in cui si svolge la storia del libro. Questo conflitto tra mondo urbano e mondo contadino si può anche rappresentare come conflitto tra età adulta e infanzia, la prima rappresentata dalla città e la seconda dalla campagna. La strada dell’uomo morto è dunque anche la nostra infanzia, che muore sotto il peso della maturità e, al tempo stesso, cova sotto le ceneri, occupando tutto il nostro immaginario.

Dopo aver pubblicato L’amante cinese con Gallucci, Antonio Armano persevera, forse con coraggio e audacia, nel racconto autobiografico, stavolta solcando le pieghe sotterranee degli anni vissuti da bambino nella cascina dei nonni, dentro un mondo che non esiste più e sopravvive solo tra i suoi ricordi remoti. La strada dell’uomo morto, edito da Polidoro – nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate – racconta la pianura  che si vede dalla cascina incresparsi per diventare prima altura poi Appennino. Lì dove si apre una porta sulla campagna, sembra sfumare la fine dell’Ottocento, con i suoi riti agresti quasi primitivi, anche violenti, quando la cascina d’inverno, sepolta sotto la neve, s’incupisce, accanto al vecchio noce dalle sembianze di un gigantesco corallo grigio.

Incontro lo scrittore da quelle parti in sella alla sua bicicletta, una bicicletta che è da corsa. Si dilunga nel raccontarmi che qualche pezzo del telaio proviene dalla bici di un uomo morto. È stata assemblata infatti dopo che la sua bicicletta precedente si era crepata a causa di un investimento e rischiava di aprirsi in due. Cominciamo bene! Del resto, da lettrice dei suoi libri, sono da tempo abituata sia alle sue stranezze che alle sue divagazioni. Penso al libro inchiesta sugli scrittori perseguitati, Maledizioni (Aragno e poi Bur, finalista al premio Viareggio nel 2014). Penso a Il ragazzo nel bunker (Piemme, 2021). In Ucraina Armano si era imbattuto nella storia di 46 ebrei nascosti per 18 mesi in un bunker realizzato da un sionista Aron Shapiro, soprannominato Al Capone perché leggendario costruttore di nascondigli, un fatto singolarissimo e sconosciuto che ha raccontato in un corposo romanzo storico. Parlo di romanzo per via dello stile e della struttura ma la storia, come per L’amante cinese e La strada dell’uomo morto, è realmente accaduta. Armano sostiene di non essere in grado di inventare nulla, essendo cresciuto in campagna vicino alla terra.

La campagna dell’Oltrepò che racconta non è immersa in un’atmosfera idillica e nostalgica ma al contrario ambigua, misteriosa, segreta. Alla Pupi Avati. Piena di storie paurose che gli raccontava la nonna, all’ombra di vicende macabre e storiche come quella dello zio partigiano ucciso.

Ma da dove nasce l’idea di questo libro?

“Tutto nasce da un racconto che ho scritto anni fa, esattamente nel 2003, per Il Riformista, su cui ricostruivo delitti storici. Il direttore di allora, Antonio Polito, mi aveva chiesto di anticipare il pezzo di qualche giorno, che scrivessi pure quello che volevo. Ho riesumato così la storia di un amico, un compagno di classe di mio fratello alle elementari. Si chiamava Riccardo Nesci. Con lui e mio fratello facevo delle fughe sulla strada sterrata che si trovava poco oltre la cascina dei nonni. Finiva l’asfalto della via cittadina, ormai tra i campi, e iniziava La strada dell’uomo morto, appunto”.

Si chiamava davvero così?

“Si chiamava proprio così, per via di un cadavere trovato nell’Ottocento e mai identificato. Ma il delitto di cui ho scritto non era quello. Era la storia di Riccardo, che ha iniziato a farsi di eroina molto presto. Erano gli anni ’70. Mentre i genitori si trovavano nella loro casa di vacanze sull’Appenino, in val Trebbia, lui ha chiesto dei soldi al nonno per comprarsi una dose. Il nonno era una guardia carceraria in pensione, ha rispolverato la vecchia pistola e gli ha sparato. E così ho rievocato quelle fughe da bambini su quella strada, che finivano quando, a sera, ci venivano a cercare. Con noi c’era anche un cane lupo. Quando ho scritto quel primo nucleo del libro, vivevo provvisoriamente in una cascina abbandonata vicino a Rocca Susella e mi sono messo a scrivere altri episodi di quella parte dell’infanzia in campagna”.

La campagna che Armano racconta non è quella di oggi, degli agriturismi, dove si edulcora la vita che un tempo era anche dura. Dove i contadini affogavano i gattini appena nati nel catino Moplen, dove un maialino moriva soffocato incastrato nel recinto della stalla, una notte d’inverno, mentre nessuno sentiva le sue grida per liberarlo, e si mangiava tenerissimo lombo rosa per giorni e giorni ricordando ogni volta la povera bestia e la sua fine nella dolcezza della carne. Una scuola di vita e di morte, in altre parole. Dove ti ritrovavi, nel cuore della notte di Natale, un pazzo sconosciuto che, scappato dal manicomio oltre il torrente Staffora, entrando in casa dei nonni apriva il tuo regalo.

“Mi sono sempre chiesto come sarebbe stata la mia vita se avessi trascorso l’infanzia soltanto in città e non in campagna”, riflette Armano. “Del resto dell’infanzia che ho passato in città non ricordo invece niente. Dell’altra mia infanzia ricordo tutto. Le leggende nere che raccontava mia nonna, i gelsi che d’inverno spuntavano neri e nudi dalla terra nera innevata come artigli semisepolti, la storia del fratello partigiano, morto in seguito alla ferita da arma da fuoco e spacciato per vittima di un incidente con il forcone del fienile. Ma questo è un episodio avvenuto quando mia nonna abitava in un mulino ad acqua e non ancora nella cascina dove sono cresciuto invece io. E poi le espressioni in dialetto come gratis non abbaiano neanche i cani; quando ero giovane saltavo i fossi per il lungo e così via”.

Qual è il confine tra la letteratura e la vita?

“Per me non esiste nessun confine. Le mie origini in fondo sono umili, mio nonno era un ciabattino e un allevatore di maiali. Si chiamava Bovari di cognome. Un nome che Flaubert ha scelto per il protagonista del suo romanzo, il medico di campagna Charles Bovary, proprio perché aveva una forte impronta contadina. Non ho fantasia. Le mie scuole di narrazione sono le osterie della Bassa, dove si raccontano vicende torbide ma reali, accadute davvero e bisogna sapere tenere la scena. Nessuno si sognerebbe di inventare niente. Al massimo esagerare un po’. Il vino aiuta. Rigorosamente rosso, altro che Prosecco, tanto che il colore viola si chiama trasudeciùc, vomito di ubriaco. In tutte le cose che scrivo, dai reportage alla narrativa, il mio taglio, il mio sguardo è sempre autobiografico e concreto. Per avere materiale devo esplorare mondi, imbattermi in storie, oppure viverle. Queste cose, soprattutto la seconda, sono a volte divertenti a volte dolorose, spesso tutt’e due le cose messe insieme con una prevalenza di uno o dell’altro elemento. Nel libro che ho pubblicato a marzo, L’amante cinese, racconto di come ho tentato di riconquistare la pittrice inglese, che mi aveva lasciato brutalmente, spacciandomi per un cinese sul sito di incontri dove si era iscritta. È stato mentre vivevo con lei nella cascina semidiroccata dell’Oltrepò che ho iniziato a scrivere La strada dell’uomo morto. Poi è arrivato il freddo e siamo dovuti fuggire”.

*In copertina: Ivars Gravlejs, Early Works

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