
Albert Camus vs. Ernst Jünger: l’uomo in rivolta & il ribelle
Politica culturale
Enrico Macioci è un narratore puro. Non solo: i suoi personaggi sono talmente reali da poterli toccare. E le storie ben strutturate. I dialoghi brillanti. Non si ammanta di proclami e non vanta legami di sangue con autori blasonati. Nessuna spocchia. Una modestia consapevole. Una capacità di ragionare poggiata su una rara onestà. Il suo modello è sempre stato King e per certi versi gli somiglia. Basta leggere poche pagine del suo ultimo romanzo, Lettere d’amore allo yeti (2017), per rendersene conto. Ma nessuno spirito imitativo. La voce è sua e di nessun altro. Si tratta piuttosto di affinità elettive con il re dell’horror. Una ricchezza, dunque, nel nostro asfittico panorama nazionale. A me pare che L’ultimo piolo (contenuto nella raccolta A volte ritornano) sia il racconto di King che più ricorda la scrittura e le atmosfere di Macioci. Tra l’altro, uno tra i più belli dell’autore americano. Ma anche It, romanzo infinito. Eppure gli autori che lo hanno formato sono stati altri, come scoprirete. Non aggiungo altro. Il resto lo ascolterete dalla sua viva voce. O dai suoi libri. Meglio se da entrambi.
Enrico, parliamo di te e di King. Conoscendoti, mi sembra il punto più naturale da dove cominciare. Quando è nato il vostro amore e quanto è stato totalizzante? È stato lui a farti diventare scrittore?
Lessi King la prima volta nel marzo del 1991, a sedici anni, in maniera del tutto casuale. Mia madre era socia di Euroclub, quel mese non ordinò libri ed Euroclub le spedì Misery. Un pomeriggio di pioggia, incuriosito dalla copertina truce, lo presi in mano, mi stesi sul letto e lo aprii; quando lo richiusi era ora di cena. Fu un colpo di fulmine, una delle singolarità che ti cambiano letteralmente la vita. L’impatto si ripercosse nelle viscere più che nel cervello, fu più emotivo che razionale – siamo noi, dopo, a razionalizzare la magia dell’innamoramento, a cercare di spiegarcene i motivi. Tuttavia non devo a Stephen King la mia vena, che si manifestò da bambino tramite una manciata di poesie e, in seguito, una marea di racconti. I libri che alimentarono la fiamma narrativa furono quelli di Verne, Stevenson, Salgari, Burnett, Dumas, Poe. E poi non facevo che rileggere quell’insondabile capolavoro di Pinocchio, e più lo rileggevo più mi piaceva, e più mi piaceva più ero felice che un semplice blocco di carta riuscisse ad agire su di me con tale forza.
Anche se non è stato King a farti innamorare della scrittura, a lui devi molto. Ho già accennato a quanto abbia influito sulla tua scrittura, ma vorrei che fossi tu a parlarmene.
Dai 14 ai 27 anni smisi sia di leggere sia di scrivere, a causa di un rifiuto violento e profondo, che covavo già da tempo. Ho detto che scoprii King a 16 anni. Dunque per oltre dieci anni, dai 16 ai 27, se si eccettuano le antologie scolastiche, qualche romanzo assegnato coi compiti estivi e poi i manuali di giurisprudenza, ho letto solo King. È un fatto abbastanza sconcertante e quasi gigantesco, per uno che poi è divenuto scrittore. Credo d’essermi azzoppato da solo, ma naturalmente non saprò mai chi sarei adesso se durante quel lungo periodo – il periodo della formazione – avessi continuato a leggere e a scrivere. Ciò che so è che King ha forgiato il mio immaginario (il quale già di suo tendeva verso il mistero e il soprannaturale) e che mi ha suggerito un certo modo di costruire le scene, svolgere i dialoghi, tenere il ritmo. Penso soprattutto al ritmo, alla maniera di inserire un pensiero in una scena o una scena in un pensiero. King però, al netto delle differenze di talento, è in sostanza un narratore puro. Lui lascia parlare i personaggi e le azioni, lascia scorrere la storia come la pellicola di un film. Io sono un poeta fallito che prova a raccontare.
E tra gli autori italiani viventi?
Nessun autore italiano vivente mi ha influenzato (e nessuno morto, aggiungo). Ci sono però due figure che costituiscono per me dei punti di riferimento, non tanto per il modo di scrivere bensì per la visione del mondo e dell’uomo che manifestano nella loro opera. Sono Antonio Moresco e il poeta e filosofo Marco Guzzi. Poi ci sono parecchi colleghi, più anziani o coetanei, che stimo. Fra quelli più anziani di me cito Giulio Mozzi, un maestro della forma breve. Fra i coetanei dovrei citarne vari, ma mi astengo per paura di dimenticarne qualcuno.
Che tipo di scrittore sei diventato e cosa diventerai?
Sono diventato un narratore, io che ero partito come poeta. In realtà cominciai a scrivere i primi racconti circa un anno dopo le prime poesie, ma nella mia prosa la poesia finisce sempre per infilarsi. È come l’aria, da qualche pertugio filtra. E col termine poesia non mi riferisco a un elemento positivo, anzi. I residui poetici spesso m’impediscono di attingere all’immediatezza che voglio raggiungere narrando, opacizzano le mie storie, le velano di superfluo. Mi sento una specie di anfibio, letterariamente parlando, e la faccenda mi innervosisce. È difficile del resto sbarazzarti di una cosa incistata così a fondo, e forse nemmeno conviene. Se non puoi operare, ti adatti a sopravvivere. Ciascuno di noi deve sostenere la propria lotta dinanzi alla pagina; e ciascuno di noi, anche il più abile e tenace, soccomberà. Non scrivo poesie da molti anni, eppure la poesia viene a galla nella mia prosa, tipo le bollicine dentro un bicchiere di Coca Cola. Allora ciò che faccio è cercare di trasformare questa escrescenza, questa invadenza, in ricchezza; ma non sempre ci riesco.
Quanto conta l’incipit in un libro e quanto il finale? Quanto la lingua e quanto la storia?
L’incipit è decisivo. Se funziona bene equivale a un incantesimo. Un lettore rapito da un bell’incipit difficilmente abbandonerà il libro, anche se dovesse in seguito deluderlo. Penso a L’informazione, di Martin Amis. Un romanzo di livello, certo, ma per lunghi tratti noioso; tuttavia non ho mai pensato di mollarlo a causa del suo incipit strabiliante – una pagina e mezza che sfiora l’eternità. Il finale invece conta meno. Se il libro è buono, solo un finale davvero catastrofico può rovinarlo. Per quanto mi riguarda, non ricordo molti finali degni di lode. Fa eccezione l’ultima magnifica frase de Il grande Gatsby. Chiude non solo il romanzo ma un intero mondo. È come una grata che scende sulla luce verde del faro di East Egg. Possiamo ancora vederla pulsare, di là dalle sbarre, ma non possiamo più raggiungerla. Sul vecchio problema della lingua e della storia… Io penso che la storia venga prima, e che la lingua debba adattarsi alla storia, la quale all’inizio può essere anche solo un’immagine, una suggestione, un dubbio, un’ombra. Dei libri basati sulla lingua – se è lecito distinguere in maniera così netta, e sappiamo che non lo è ma qui ci tocca abbreviare – me ne faccio poco. Un tempo mi affascinavano, adesso mi sembrano una posa; nel migliore dei casi geniale, ma pur sempre una posa. D’altronde se una storia funziona non può, sottolineo, non può essere scritta male; sarà invece scritta nell’unica maniera giusta.
Se non sbaglio hai cominciato da un libro verità sul terremoto dell’Aquila (Terremoto, 2010). Puoi parlarcene?
Si tratta di una raccolta di dieci racconti. Li scrissi di getto nel giugno del 2009, due mesi dopo il sisma che ha raso al suolo la mia città. Ricordo che man mano che scrivevo mi sentivo meglio. Venivo da otto settimane di rimbambimento. Non facevo che guardare e riguardare alla tv ciò che era accaduto, tentando di incamerare il concetto che sì, era accaduto proprio a me, e che sì, quella era proprio la mia città. Scrivere Terremoto fu terapeutico, e al tempo stesso mi causò parecchi sensi di colpa. Ma gli scrittori bene o male convivono col senso di colpa, giusto? In fondo sanno di essere delle sanguisughe. Passano buona parte della loro vita a succhiare la realtà e a risputarla sulla pagina.
Poi La dissoluzione familiare (2012), opera monstre, e un romanzo di formazione molto bello (Breve storia del talento, 2015) con al centro il gioco del calcio. Quanto conta il calcio nella tua vita?
Giocavo bene, ma ho iniziato a capirlo tardi. Fu il padre di una mia amica, ex calciatore di serie C, a intuire che c’era del buono nei miei piedi. M’incoraggiò e vidi che la palla non cadeva, che andava pressappoco dove volevo io, che mi ascoltava. Suppongo tuttavia che il mio talento non fosse così spiccato. Anzi, ne sono certo. Gioco ancora, non ho mai smesso. Mi rilassa. Mi libera da me stesso. E mi diverte. Non esiste un goal uguale a un altro, né mai esisterà. Il calcio è incredibilmente semplice e incredibilmente creativo, proprio come i romanzieri che amo di più.
E poi è venuto Lettere d’amore allo yeti. Libro bello e inquietante, che s’inabissa nel soprannaturale e i cui modelli, oltre a King, sembrano essere Pinocchio e L’isola del tesoro. Puoi parlarcene, cominciando da come è nata l’idea?
L’idea nacque osservando mio figlio, che allora aveva tre anni e mezzo, parlare con uno sconosciuto dalla statura imponente. Li separava una rete alta un metro e mezzo, mio figlio teneva le minuscole dita agganciate alla rete e il minuscolo naso premuto contro la rete e trillava minuscole confidenze allo sconosciuto, e io realizzai in un attimo l’eterea fragilità della vita. Il resto venne di conseguenza, ma il romanzo è nato lì.
Progetti futuri? Stai scrivendo qualcosa?
Sto lavorando a parecchie cose diverse. Ho dedicato tutto il 2017 alla stesura di un romanzo piuttosto lungo e complesso, che ora si trova in stand by. Quest’anno ho ripreso in mano un tomone che scrissi addirittura nel 2011/2012. Non che non fosse finito, ma sentivo di doverci lavorare ancora, e ho tenuto in serbo la faccenda in un angolo della memoria. Leggere Lonesome Dove di Larry McMurtry, l’autunno scorso, oltre che emozionarmi ed entusiasmarmi, mi ha fatto comprendere in che modo ripigliare il vecchio mostro. Il guaio è che il mostro non accenna a dichiararsi vinto, né a smettere di crescere. Allora, per concedermi una tregua, da un po’ l’ho lasciato di nuovo a maturare, e ho ripescato un racconto lungo (o romanzo breve) buttato giù fra il marzo e l’agosto del 2016 (scrivo davvero troppo). Credo e spero di aggiustarlo definitivamente entro l’estate. Si tratta di una storia secca e feroce, molto meno impegnativa a livello di mole e di gestione rispetto alle due di cui sopra. Adesso sembra che mi piaccia, ma so che arriverà un momento in cui non mi piacerà più. Succede sempre così, ma sospetto di essere in ottima compagnia. Infine mi solletica l’idea di un saggio che unisca i miei due autori prediletti – uno poeta, uno romanziere. In questa intervista vengono citati entrambi, ma poiché non sono nemmeno sicuro che l’idea si traduca prima o dopo in azione, preferisco mantenere il riserbo e non aggiungere altro.
Domanda classica: preferisci leggere o scrivere?
Quando leggi e scrivi per anni e anni con una certa costanza, l’una cosa si nutre dell’altra. Per me leggere significa fare benzina, e scrivere consumarla. Mentre però posso trascorrere dei periodi – non troppo lunghi – senza scrivere, non posso mai rimanere senza leggere. Non basta; oltre al libro o ai libri che sto leggendo, devo avere una discreta scorta pronta all’uso. Inoltre, scrivere è sempre faticoso, mentre leggere lo è assai meno.
Oltre alla lettura e alla scrittura, quali altre passioni hai?
Il calcio e lo sport in genere; e la montagna. Invece mi accorgo di trascurare l’amicizia, che in altri periodi è stata pressoché tutto, per me. L’amicizia è la più pura, la più immacolata, la più limpida delle passioni.
E la famiglia?
Ho una moglie e due figli che amo. Nietzsche diceva: aut liberi aut libri, ma io non sono Nietzsche… E poi è falso, almeno per quanto mi riguarda, che la famiglia ti ostacola nella scrittura. Riducendo il tempo che hai a disposizione ti costringe a sfruttarlo meglio, a concentrarti di più. Inoltre ti spalanca una gamma di emozioni e sentimenti nuovi, problematici da immaginare in astratto. E infine, il mio primo figlio è nato nel settembre 2009, e ho pubblicato il mio primo libro nel marzo del 2010.
Come ti guadagni da vivere, posto che difficilmente ci si mantiene scrivendo romanzi?
Ho la fortuna di essere il figlio unico di una famiglia abbastanza benestante, e di avere una moglie con un impiego fisso. Ho fatto parecchie supplenze di italiano e storia negli istituti tecnici, ma non potendo contare su un gran punteggio debbo spostarmi di continuo al nord da Salerno (dove vivo), per cui da un po’ di tempo dirado le trasferte. Arrotondo grazie a corsi, articoli, piccole iniziative culturali, ripetizioni. Coltivo un paio di progetti, ma per scaramanzia preferisco non parlarne.
Che tipo di persona sei? Pirata, onesto, irriverente, rispettoso, serio, scanzonato, pragmatico, con la testa tra le nuvole, idealista, disilluso?
Direi con la testa fra le nuvole, onesto, idealista. E individualista.
E Dio? Che rapporto hai col trascendente?
Dio è una ricerca continua. Non posso definirlo, non posso nemmeno afferrarne un concetto, perché Dio non consiste in una risposta bensì in una domanda. L’uomo è quello strano animale che irrompe nel creato e domanda: perché? Il fatto che possediamo la coscienza – uno spaventoso buco senza fondo dentro un miserabile, mortale, patetico corpicino – rappresenta uno scandalo così sbalorditivo… Credo di credere, con molta approssimazione, che Dio abbia a che fare con la coscienza, che Dio potrebbe essere la coscienza della coscienza, una sorta di ur-coscienza, e cioè un sapere che fuoriesce dal cortocircuito del Logos, che non s’impiglia nella rete della Caduta.
E con la letteratura? Capisci meglio il mondo o la letteratura? O sono un unicum?
Capisco molto meglio la letteratura, benché non sia certo un Auerbach. Il mondo è infinitamente più arduo da capire. È impossibile capire il mondo. Se uno pensa sul serio al mondo, o peggio ancora all’universo, o agli universi, diventa pazzo. Se uno si mette a fissare con intensità e concentrazione un cielo stellato per venti minuti di fila… be’, eccolo bello e pronto per la camicia di forza. Un fiore è molto più difficile da capire dell’Amleto. L’Amleto si riallaccia a ciò che dicevo prima. L’uomo è quell’essere cui non basta esserci, e allora s’imbarca nelle imprese più strane pur di comprendere perché c’è. L’Amleto può prestarsi a mille diverse interpretazioni, una rosa non accetta nessuna interpretazione. Una rosa è, punto e basta.
Che cosa è per te letteratura e cosa non lo è?
Dopo Rimbaud, e dopo il suo silenzio, mi verrebbe da dire che niente sia più letteratura… Ma se vogliamo provare a rispondere, e soprattutto se non vogliamo cominciare uno sproloquio che durerebbe perlomeno un centinaio di pagine, potremmo affermare che la letteratura è una materia variegata frutto di un’attività intellettiva, e che sostanzialmente è buona o cattiva (Wilde docet). Esiste un sacco di cattiva letteratura, parecchia letteratura buona, poca grande letteratura e ancor meno grandissima letteratura. Ma questa piramide di meriti e demeriti si ripropone in qualunque altro ambito, dalla musica all’arte culinaria allo sport.
I tuoi cinque libri capitali e i tuoi cinque film…
Difficilissimo, anzi impossibile! Ti dico cinque libri, ma domani uno di loro potrebbe essere sostituito da un altro, o due di loro, o perfino tre… Adesso, i primi cinque che mi vengono in mente sono It, Una stagione all’inferno, I demoni, Moby Dick e Lonesome Dove (ex aequo con La Storia). I film invece: Il mio nome è nessuno, Le ali della libertà, Mystic River, Will Hunting, genio ribelle e Un tranquillo week end di paura. Ho gusti cinematografici piuttosto dozzinali. Ci sono un sacco di film leggeri che rivedo all’infinito. Harry ti presento Sally lo so a memoria. E adoro Predator e tutto il filone fanta/horror. Un film troppo impegnativo tendo a scansarlo, perché nel cinema cerco altro. Mentre guardo un film non voglio pensare troppo, infatti i film di Kubrick, Bergman o Lynch, tanto per capirci, mi fanno addormentare dopo circa trentasei secondi.
Il mio nome è nessuno. Anch’io sono un appassionato di quel film. Un bilancio sulla tua attività di scrittore? Cose da salvare e cose da cancellare…
Salvo solo la mia unica raccolta di poesie, L’abete nel cerchio, uscita con Saya editore nell’ottobre scorso. Vi ho radunato settanta delle centinaia e centinaia di liriche che scrissi oramai tanto tempo fa. Lì dentro c’è molto di me, ma increspato dagli anni come un vento lieve increspa la superficie dell’acqua. Il resto evito di rileggerlo, pur continuando a ringraziare tutti coloro che hanno creduto in me e che mi hanno permesso di pubblicare.
Sei uno scrittore sicuro dei propri mezzi o è il contrario?
Sono abbastanza sicuro dei miei mezzi da osare quest’avventura oscena che è scrivere libri e pretendere di pubblicarli; e sono abbastanza consapevole dei miei limiti da desiderare di sprofondare all’inferno.
Quando scrivi un romanzo che cosa ti prefiggi? Quali risultati, quali obiettivi, rispetto all’arte e al pubblico? Che cosa significa per te scrivere un romanzo?
Su dieci buone idee che mi vengono, di media solo una si tramuta in romanzo. Per cominciare a sobbarcarmi l’immensa fatica di scrivere un romanzo mi occorre uno slancio di fede. È come gettarsi in mare senza vedere l’altra sponda; occorre sperare che ci sia, e che si sia in grado di raggiungerla; e occorre accettare il rischio di andare giù… Rispetto al pubblico non mi prefiggo risultati, anche perché lo ritengo inutile. Ho sempre pensato di scrivere roba parecchio accessibile e parecchio godibile, invece finora sono rimasto un autore di nicchia. Ma sarebbe bellissimo che mi leggessero tante persone! Sarebbe incredibilmente gratificante, immagino; ed è forse la cosa che desidero di più, scrivendo. Rispetto all’arte mi prefiggo quel genere di obiettivi folli – realizzare un Grande Romanzo!, affermare Verità Nuove! – che si rivelano utili per mettersi all’opera. Il fatto che tali obiettivi vengano sistematicamente disattesi fa parte del gioco (crudele): così la prossima volta avrai un motivo per tentare e fallire di nuovo, no?
La cosa che ti ha fatto più soffrire nella vita e quella che ti ha dato maggiore gioia?
Quando morì mio nonno materno – avevo 12 anni – provai un dolore immenso, perché gli volevo bene e perché scoprii che la morte esiste davvero, che arriva, ti ghermisce e ti porta via. Non credevo potesse accadere, e forse una parte di me continua a non crederci. La gioia più grande non la colloco in un momento ma in una fascia, ancorché distinta: le estati fino ai dieci, undici anni. Non ho mai più provato, dopo di allora, quel senso di libertà, spensieratezza, precisione, acutezza, agilità, freschezza, spontaneità, gratuità, gratitudine e immortalità.
La montagna per te è importante mentre non ami il mare. Perché? Ti è piaciuto Otto montagne di Cognetti?
Amo la montagna – e meno il mare – perché sono nato e cresciuto in una città di montagna, L’Aquila, e perché i miei genitori mi portavano sempre in vacanza alle Dolomiti. La montagna è anzitutto uno stato mentale: salire verso una cima equivale a meditare col corpo (in realtà ogni forma di meditazione avviene tramite il corpo, ma salendo in cima una montagna lo si avverte con la rotonda esattezza di un ingranaggio). Man mano che procedi, che fatichi, che ti innalzi, la tua mente si purifica e raggiunge l’essenziale. Niente cazzate lassù: la montagna è l’osso della vita. Le otto montagne mi è piaciuto. Credo abbia influito il mio interesse verso un certo tipo di ambientazione, ma secondo me Cognetti ha fatto un bel lavoro di misura, che poi è il suo pezzo forte: ha detto tutto senza dire mai troppo.
Un’ultima domanda canonica. Come vorresti essere ricordato, come uomo e come scrittore?
Non so se voglio essere ricordato come scrittore, perché quando vieni ricordato vieni fatalmente incasellato, e io odio essere incasellato. Mi piacerebbe però che i miei libri resistessero al passare del tempo. È probabile che non accadrà, ma io ce la metto tutta. Come uomo, mi piacerebbe che di me si parlasse poco, e solo da parte dei pochi che davvero mi hanno conosciuto, mi conoscono e mi conosceranno.
Abbiamo finito. È stato un piacere parlare con Macioci. Uno scrittore con il senso della misura e una consapevolezza di pregi e limiti quasi unica nel mondo editoriale. Senza fronzoli e con le idee chiare e una scrittura cristallina, dotata di ritmo. Ma anche accessoriata sul piano psicologico. Un erede di King? Ai lettori la sentenza. Dopotutto perché non cullarci ogni tanto nell’idea che la letteratura non abbia confini? Alcuni tra i migliori western non sono stati forse realizzati da registi italiani? Sono gli stessi americani a riconoscerlo. E di certo Macioci tra gli autori italiani è quello che più si avvicina al grande scrittore del Maine. King sarebbe d’accordo con me, ne sono certo. Vero, Stephen?
Gianluca Barbera