Nello scandalo: Nosferatu e Kaspar Hauser. Intorno a due film di Herzog
Cinema
Massimo Triolo
Viva eppure morta, presente e assente contemporaneamente, a rischio ma salva, vincente e sconfitta allo stesso tempo. La maschera di Alberto Sordi ha prodotto precarietà su due piani distinti: da un lato è stato il simbolo di un cinema, quello italiano degli anni Sessanta, fondato in buona parte sul concetto di provvisorietà – un florilegio di intrecci irrisolti e di situazioni di disordine strutturale, di viaggi privi di obiettivi e di rapporti fugaci, di crisi mentali e di travolgimenti economici – e dall’altro ha tradotto una simile incertezza su dei corpi messi di frequente in discussione in termini fisici prima ancora che morali. Uno stato di crisi del corpo in grado di richiamare l’ambiguità di certi personaggi del cinema anni Dieci sia sul versante della serialità francese che su quello della comica sennettiana. Una maschera in bilico.
“Anche quando Fantomas è se stesso in realtà non è mai tale; in lui la maschera è tutto ciò che più somiglia a un’essenza, la sostanza della sua profonda inesistenza”.
Monica Dall’Asta, “Trame spezzate”
Vivo e morto
Sordi è presente e assente quando in Mafioso di Alberto Lattuada viaggia verso New York rinchiuso in una cassa a prova di volo intercontinentale: la famiglia lo crede fuori casa per una battuta di caccia, lui invece sta ricevendo istruzioni nella grande mela, pronto a sparare su commissione e a coricarsi di nuovo nell’imballaggio di legno per tornare in Sicilia, da dove era partito poche ore prima. La trovata di Age e Scarpelli in sede di sceneggiatura era stata tanto curiosa quanto apparentemente poco credibile: poteva un sicario andare e tornare da New York in aereo all’interno di una cassa che lo avrebbe reso irrintracciabile? “Impossibile”, avevano detto Sordi e Lattuada. “Facciamo due versioni”, aveva proposto De Laurentiis, una con la cassa e una senza. Le proiezioni di test avevano dato ragione ai due sceneggiatori, la cui trovata avrebbe fatto del personaggio interpretato da Sordi un uomo doppiamente esistente e doppiamente assente, sia nel gioco degli alibi – è in Sicilia ma è a New York – che in quello del nascondimento – è sull’aereo ma non c’è.
Un corpo allora non solo presente e mancante, ma anche simbolicamente vivo e morto, cioè pronto all’azione ma tumulato allo stesso tempo. Un corpo dormiente à la Nosferatu, dunque, simbolo per eccellenza, non a caso, della precarietà del fisico, della condizione alternata di vita/notte e di morte/giorno. Due anni dopo l’uscita del film una spia israeliana si sarebbe curiosamente sottoposta allo stesso trattamento: venne scoperta a Fiumicino dentro a una cassa tale e quale a quella di finzione, generando un cortocircuito tra farsa e tragedia perfettamente aderente alla maschera-Sordi:
“Un giornalista domandò a Lattuada com’era possibile quella coincidenza […] lealmente, Alberto rispose al giornalista che avrebbe dovuto rivolgersi a noi per una risposta pertinente […] Conclusione: anche le spie ci copiano?”
Age e Scarpelli
A rischio e salvo
È un corpo precario che gioca con la presenza e con l’assenza anche quando interpreta l’Oreste Jacovacci de La grande guerra. La fucilazione finale lo annulla, ma su un piano meta-cinematografico non fa che inaugurarne la ricorsività degli anni successivi. La grande guerra vince infatti il Leone d’oro a Venezia nel ’59 e il suo successo – grazie anche a quel finale amaro, inizialmente scartato – apre la lunga stagione della commedia all’italiana, dunque quella della riproposizione seriale della sua maschera, qui abbattuta e poi rinata in un intero filone.
Ecco che poco tempo dopo, quando Dino Risi gira Una vita difficile, essa torna a mettersi a rischio: qui Sordi interpreta un partigiano che in cerca di un riparo viene scoperto da un tedesco e minacciato di morte. Come ricorda Mario Tedeschini Lalli nel suo Nazisti a Cinecittà, l’attore che interpreta il soldato è Borante Domizlaff, ex Maggiore delle SS e uomo dello Sicherheitsdienst, nonché responsabile della rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Erano anni di grande richiesta di attori che sapessero ricoprire con credibilità il ruolo del nazista, e Borante Domizlaff, come avrebbe poi confermato Priebke negli anni ’90, “sembrava un perfetto tedesco”. L’integrità fisica della maschera-Sordi è dunque messa a rischio da una letterale incarnazione di morte, simbolo di pericolo fisico anche e soprattutto fuori dalla finzione, fermata prima dell’esecuzione soltanto dall’intervento di un terzo personaggio. Si tratta quindi di un corpo che non solo agisce nel contesto della guerra, palcoscenico di fisicità precaria per definizione, ma che all’interno di essa gioca con l’avversario più metaforico, in una rete di richiami extra-cinematografici in grado di collocare la maschera in una cornice che è sia rischiosa che salvata.
Bullo e vittima
C’è chi gli ha dato del “nichilista di destra” (Elio Petri) e chi lo ha definito “la parte nascosta dell’italiano medio” (Ettore Scola); chi ne ha fatto un refrain distruttivo (Nanni Moretti) e chi un egoista in odor di misoginia (“E che, sono matto? Adesso mi porto un’estranea in casa mia, ma vedi un po’”, pare dicesse a chi gli chiedeva del matrimonio). Certe definizioni perentorie hanno alimentato la parte più vittimistica della maschera, consentendole di guadagnare margine di manovra per flirtare con la caducità del corpo altrui oltre che con quella del proprio:
“Del resto l’avarizia e il fatto che sia ancora scapolo sono gli argomenti per cui si parla più spesso di me. Mancanza di fantasia”.
Sordi è in altre parole condannato a giocare e a essere richiamato, a divertirsi e poi a subirne le conseguenze. Il contesto è quello del Festival di Taormina del 1973, presentato dalla coppia Sordi-Bongiorno: mentre il primo ostenta sorrisi, l’altro, intontito, scompare lentamente dalla scena, bersagliato dalle frecciatine dell’attore in tema di vecchiaia, stabilità del fisico e lucidità mentale. Sordi non può ancora sapere che questo gioco alla demolizione del corpo gli costerà una condanna puntuale tanto quanto il guasto dell’auto ne I vitelloni:
“Questo è il sesto David mio, Mike. I premi ringiovaniscono. Te premi non ne hai presi mai, Mike, vero? Eppure dall’ultima volta che t’ho visto i capelli, invece di diminuirti, te so’ aumentati. Vedi com’è la gente. Dicono: ‘Ammazza che parruccone ‘sto Mike’, e non sanno che invece è un parrucchino”.
In quegli anni Oreste Del Buono tiene una rubrica di critica cinematografica e di costume sulle colonne de L’europeo, è incappato in quella serata in tv ed è rimasto irritato dallo stile canzonatorio di certe battute. La settimana successiva arriva infatti la sentenza, un contrappasso tipico del meccanismo della comica, per essersi di nuovo intrattenuto troppo a lungo – e questa volta adoperando il corpo di altri – con quella precarietà fisica con cui è condannato a flirtare:
“Questo è lo stile Sordi. Insultare a parole, ostentando cordialità mortificante con i gesti. È uno stile arrogante e vigliacco, da padrone. Il sogno privato del commendator Sordi è da sempre quello di parere un commendatore”.
Oreste Del Buono, “Il comune spettatore”
Siamo allora da qualche parte tra Arlecchino e Stenterello, in una zona di tensione/attrazione verso il potere ma anche di gusto per lo sberleffo e di tragicomica in stile André Deed, passando per l’arroganza del Io so’ io e voi non siete un cazzo con cui il Marchese del Grillo si sarebbe congedato dai bari e dalle guardie. Forse il modo migliore di uscire dalle scene per una maschera in bilico perfino tra il pianto della vittima e il cinismo del carnefice.