Contro la recensione, “territorial pissing” intellettuale, affare da insetti burocratici
Politica culturale
Fabrizia Sabbatini
Ovunque, qualcosa di ostile – l’assalto di cui ignori direttiva e direzione. Quella faccia – l’ho vista su Rai 5, l’altro giorno, una giornata avara di novembre – da Minotauro, un cranio mostruoso e il verbo che feconda la contraddizione. “Ma per Testori, ormai lo sappiamo, nessun approdo – nessuna quiete – è davvero possibile; e dove chiunque si sentirebbe arrivato e dunque, almeno per un poco, si fermerebbe, lui continua”, scriveva Giovanni Raboni a sigillo delle Opere testoriane edite da Bompiani. Si ha l’idea che Testori sia olio: materia con cui ungerti, facoltà che s’infiamma. Devi averne paura – e questa è la letteratura, nel grado sommo – perché è quotidiano il contatto con il mostro, l’arcangelo accucciato sulla maceria, il celeste che accarezza mentre morde. Testori è ciò che ulcera anche nel gesto retorico più vasto – “Incandescente e impalpabile, fattasi quasi rovina di se stessa, la luce dilagava da ogni punto del cielo” – più turpe – “Ho ’vertito che voleva ’cuparmi il mezzo delle gambe; strapparmi su il velo della mia giovinezza che era intatta e intattissima; spaccarmi la conformazione protettiva et la custodia de cristallo ot urna della vergina che ero” – più amorevole – “Mi chiedi di ricambiare con l’amore/ ogni più dura ed insensata offesa”. Per fortuna. Nell’attuale vertigo del noto, dove gli scrittori – che dovrebbero essere mastini dell’individuo, fratture ambulanti, lacuna e viscera – fanno comunella nella pausa pranzo dell’editoria, Testori, ancora, non concede requie, non ha altra missione che svaginare le ammissioni e le viltà, leggerlo è contorsione, contorcimento. Così, preso dal solito raptus, contatto Luca Doninelli, che di Testori è stato amico e allievo, che di Testori ha scritto – a parte le Conversazioni con Testori, 1993, è di poco tempo fa Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro – ma che, soprattutto, non è uso a lustrare i marmi né a erigere mausolei per il caro istinto – è uno che pugna, che si fiocina, che fucila i fondamentalisti del fumo, quelli che vendono onorificenze di palta e medaglie nel tempio.
Editorialmente, son tutti buoni a rieditare ‘Il fabbricone’, ‘Il ponte della Ghisolfa’, ‘Il dio di Roserio’: ma dove è finito il Testori da romanzo ‘terminale’ quello della ‘Cattedrale’, della tonante e terribile ‘Passio Laetitiae et Felicitatis’? Voglio dire, secondo me c’è ancora un Testori che, girala come vuoi, non solo non è bene accetto, non è neppure accettato e tantomeno letto. Dimmi tu.
Fosse solo questo, niente di nuovo sotto il sole. Chi legge più «Il principe Otto» o «Il fanciullo rapito»? Li ha scritti Robert Louis Stevenson. Il capolavoro di Hemingway, «Morte nel pomeriggio», è stato completamente dimenticato. L’elenco potrebbe essere infinito. Tutti gli scrittori (parlo degli scrittori veri) sono in parte celebrati e in parte censurati. Il problema è «cosa» risulta indigesto e «perché». Finché le ragioni sono soltanto commerciali – questo vende di più, quello vende di meno – verrebbe da dire che, be’, tutto il mondo è paese, e morta lì. Il problema è quando la cosa inaccettabile, sotto sotto, è proprio la Letteratura, il suo senso, e si preferiscono, all’interno del catalogo, i titoli con i quali la difesa dal Grande Nemico (ossia la Letteratura) risulta più facile. La nostra certezza di essere quello che siamo, di pensare davvero i pensieri che in realtà non pensiamo, di poterci affidare a una condotta di vita, fingendo di ignorare non solo il precipizio (questo lo dice anche Baricco) ma che nel precipizio, nello smarrimento/sventramento, la parola «verità» può cominciare, fregandosene del progetto che abbiamo su noi stessi, ad acquistare un senso. Questo è inaccettabile fin dalla notte dei tempi, con la differenza che grazie alla tecnica il Nemico è stato eliminato, come è stato eliminato Dio.
Se penso a Testori lo accosto a Pasolini. Ma Testori – a cui manca il cinema, dove fu eccellente PPP – è di più in tutto: più romanziere, più visionario d’arte, più giornalista, più teatrante, più poeta. D’altra parte, Testori fa ‘canone’ a sé, per cui è eretico alla letteratura italiana canonizzata dalle scuole di scrittura. È così? A te quale Testori convince e avvince, di più?
Il Testori più prossimo alla propria nascita. Quello del teatro dal 1970, che è un torso sanguinante che grida per una nascita negata (non mi riferisco a Factum Est ma a tutta la sua opera a partire dagli Scarrozzanti). Il Testori precedente si deve sempre appoggiare a qualcosa, spesso pirandelleggia (come ne La monaca di Monza), non ha una drammaturgia in proprio. Poi tutto esplode nella sua nuova lingua, anche se il punto di partenza non è la lingua, ma oserei dire la bocca, la saliva.
Detto questo, è vero che tutto Testori è teatrale, tanto che uno degli spettacoli testoriani più straordinari fu quello di Valter Malosti che mise in scena un celebre testo critico di Giovanni, il suo saggio su Martino Spanzotti. Nella critica d’arte trovo il Testori più grande, sempre furente ma libero dalla necessità di esibire questa furia troppo direttamente: al suo posto urlano i quadri. Nei pittori come Caravaggio, Bacon ma anche Tiziano e Velazquez, trovava una grammatica affine alla sua ma più libera di quella scritta, capace di innumerevoli dialetti spesso all’interno di un medesimo quadro. Nella sua critica d’arte si coglie la prossimità con il maestro, Roberto Longhi, e quindi in qualche modo con la sua nascita, come dicevo: il maestro è mediatore (e spesso corruttore, ma oserei dire che va bene anche questo: non ci sono cattivi maestri, ma solo maestri o non-maestri) tra la nostra natura sociale e culturale e l’utero da cui proveniamo: quello di nostra madre o, forse, quello di Dio. Ma utero comunque, e dolore, e sangue.
Ricordo, parlando dei ‘Trionfi’, la polemica di Testori, nel 1982, contro gli “imperanti re della poesia inNobelata” (si scagliava contro Montale) e i “sobillanti intrighi dei sessantatreisti” a cui quella lirica non piaceva perché “registrava troppo il cuore, e i suoi disperati movimenti”. Testori, volutamente, si fa fuori da tutto e da tutti, agisce tra angelologia e tenebra, mi pare. Ma poi, la sua è davvero – e in che modo – una scrittura “di cuore”? Ma lui, a che ‘tradizione’ dice di apparentarsi?
I sessantatreisti hanno detto un sacco di cazzate e fatto perdere un sacco di tempo a tante persone serie. Questa faccenda del «cuore» è una delle più grosse. Il marxismo grezzo, usato come clava, senza vero pensiero, senza curiosità personale. Sembrano comunicati delle BR. Chiacchiere in vista di rendite politiche. C’era tanta violenza allora, come c’è adesso, solo che adesso la violenza è fuori dalla Letteratura, che sembra essersi costituita come una specie di isola-che-non-c’è, dove tutti vanno d’accordo, si recensiscono gli uni gli altri, si lodano, obiettano ma con garbo, firmano appelli. Allora invece fioccavano i diktat. Mi sembrano due destini tristi. Testori si è voluto fuori da tutto, è vero, ma non lo idealizzerei troppo: voleva e disvoleva, si isolava e cercava la platea. Era un vero anarchico, questo sì, come lo sono io, anche più di lui. La sua tradizione però esiste. Direi che la sua parte «italica» lo apparenta a personaggi poco urbani, gente di campagna, sempre poco riducibile a un profilo storico perché fuori da tutti i profili: come D’Annunzio o Pasolini (che sono molto simili, anche se D’Annunzio fu più grande). C’è poi il suo grande amore per Manzoni, per Tasso. Viene naturalmente infilato nella «linea lombarda» che però, osservata con la lente d’ingrandimento, sembra dissolversi come neve al sole. Mi è più facile vedere una «linea veneta» (Comisso, Piovene, Parise, Berto).
Ricordo, invece, la mia esperienza testoriana. Scopro il volume delle Opere pubblicato da Bompiani, leggo in due giorni quasi tutto, dai Trionfi agli Scarozzanti etc. Una esperienza brutale e di biologia letteraria vulcanica. Poi, più tardi, a tratti, la repulsione. Testori è scrittore che seduce e che rifiuta, che attrae e repelle. Non è questo, in fondo, il compito, quasi banale, dello scrittore, ergersi come punto di non ritorno, come argine al noto, come emblema dello sguardo profetico e feroce? Oggi, però, pare premiata una letteratura da volemose bene.
Non aggiungerei una sola parola. Ma una letteratura da volemose bene è una letteratura?
Cosa non hai capito di Testori, cosa ti è impossibile comprendere, ti ustiona con enigma?
Se sapessi dire cosa non ho capito, sarebbe segno che l’ho capito. Conoscere Testori di persona è stato per me l’inizio di un terremoto che non può finire. Testori non «faceva» Testori, era così e basta, ed essendo così era sempre un po’ diverso da come ce lo si aspettava. Potevi avere in testa un’idea di Testori e pensare: a questa domanda risponderà così e cosà. Invece non succedeva mai, perché essere veramente qualcuno è un moto, uno slittamento. Nel momento in cui dico: io sono questo, ecco: non sono più nulla. Io pensavo di essere qualcosa, e non capivo che essere qualcosa non vuol dire costruirsi una bibliografia, un’opera omnia, un «discorso» coerente riconoscibile dagli storici della letteratura, che parleranno poi di periodi acerbi, di maturità, di opere tarde, sempre appiccicati al modello delle «magnifiche sorti e progressive». Tanti scrittori, purtroppo, la pensano così. Quello che Testori ha reso incomprensibile sono io stesso, che porto il controllo del testo fino al punto in cui mi sfuggirà di mano, infischiandosene del mio controllo: e quando mi sfuggirà di mano io – forse – esisterò, ma non prima. L’enigma che mi ustiona sono io. E qando tutto fila liscio risento la sua voce: Luca, che cazzo stai facendo?
…non è che canonizzandolo, poi, mutando la carne di Testori in torsolo di marmo, ne uccidiamo l’opera?
Non si lascerà canonizzare. Sarà tentato di farlo, ma poi cercherà di combinare – anche post-mortem – una sciocchezza. Scapperà via. La banda suonerà per niente, le coccarde finiranno calpestate. È sempre stato così. Amava le lodi, ma poi doveva fare qualcosa che rovinava la sua reputazione. Gli è successo con tutti. Adesso sono in tanti a lodarlo, ma non servirà a niente. E io non farò niente per sdoganarlo, perché – lingua a parte, ma sarebbe un discorso lungo – siamo molto simili: anch’io, nel fondo di me, voglio soprattutto rovinarmi.