“Le diverse morti di mio padre”: un racconto di Luca Doninelli
Letterature
Luca Doninelli
10 agosto 1519. 500 anni fa. Una data importante non soltanto per la Storia, ma per gli effluvi dei nostri sogni infantili. Ferdinando Magellano parte da Siviglia con l’idea di fare il giro del mondo, a bordo della “Trinidad”, alla guida di cinque navi. Una impresa che sconvolge il regno dell’immaginario, mito fatto uomo, legno, ambizione, ispirazioni. Chi, da bimbo, con il dito indice a declinare destini, non ha percorso la rotta oceanica ipotizzata da Magellano, semplicemente, non ha vissuto, non conosce l’ipnosi della leggenda. Gianluca Barbera a “Magellano” (Castelvecchi, 2018) ha dedicato un romanzo di successo, tradotto in Brasile e in Portogallo. Proprio oggi, 10 agosto, il “Diárío de Notícias”, il quotidiano portoghese più autorevole, con sede a Lisbona, intervista il nostro in un inserto speciale dedicato all’impresa di Magellano. Uno scrittore italiano che parla dell’eroe portoghese. Qui, con consueto brio, mescolando la storia alla narrazione, Barbera ci racconta “La tragica fine di Magellano”, accaduta a Mactan, nelle Filippine, era l’aprile del 1521. L’ultimo romanzo di Barbera, invece, è dedicato alle avventure di “Marco Polo” (Castelvecchi, 2019).
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La tragica fine di Magellano
Venerdì 26 aprile 1521 Zula, signore dell’isola di Mactan, mandò suo figlio con due capre per offrirle a Magellano. Fece dire che non aveva potuto mantenere la promessa per intero perché l’altro re dell’isola, Silapulapu, non voleva obbedire al sovrano di Spagna. Chiedeva pertanto che il nostro comandante mandasse un battello pieno di uomini per aiutarlo a combattere il re ribelle.
Era l’occasione che Magellano attendeva.
«Ma certo» rispose a re Zula. «Sarò io stesso a guidare la spedizione» aggiunse poi, rivolto a noi.
Sentendo quelle parole, fui pervaso da un’oscura sensazione, come di un male in arrivo.
Il mastro d’armi si fece avanti affermando che spettava a lui comandare le truppe. Era fin troppo palese la preoccupazione nei suoi occhi.
Magellano scoppiò a ridere.
“Non se ne parla nemmeno. E poi basterà sparare qualche colpo di bombarda per metterli in fuga!”.
Vidi sul volto del mastro d’armi un’espressione dubbiosa, quasi di raccapriccio.
«Voglio dimostrare a questa gente» aggiunse un attimo dopo Magellano posandogli una mano sulla spalla «che uno solo di noi è capace di mettere in fuga cento di loro. Dopo saremo ritenuti invincibili, e tutti si sottometteranno con un solo cenno del capo. Se impiegassi tutti gli uomini disponibili, o mi facessi aiutare da re Humaubon, perderemmo la faccia».
Fatti i necessari preparativi, a mezzanotte Magellano era alla testa di sessanta uomini armati di corsaletti e celate. Dietro di lui venivano trenta balangai con a bordo re Humaubon, signore di Cebu e suo alleato, alcuni principi e un migliaio di guerrieri.
Magellano aveva preteso però che si tenessero in disparte, nel ruolo di spettatori.
Humaubon si era mostrato scontento di quella decisione, tuttavia, avendo visto coi propri occhi di cosa erano capaci gli spagnoli, non aveva osato opporsi. Come poteva dimenticare lo spettacolo offerto da dieci dei suoi che con coltelli e lance avevano assalito un solo spagnolo armato di corazza senza riuscire a vincerlo e nemmeno a scalfirlo?
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Tre ore prima che facesse giorno arrivammo a Mactan. Magellano mandò avanti Barbosa, suo cognato, per un’ultima offerta di pace.
«Se Silapulapu accetterà di obbedire al re di Spagna e riconoscere re Humaubon quale suo signore, e di pagare il tributo, si assicurerà la nostra amicizia. Altrimenti sarà la guerra… Se rifiutate» concluse Barbosa in qualità di portavoce «il capitano generale fa sapere che assaggerete le lance e le balestre spagnole».
Silapulapu, ritto al centro della sua capanna, le quattro mogli e i ventidue figli seduti alle sue spalle, rispose piccato: «Le nostre lance, benché di canne, sono aguzze quanto le vostre» e fece per mandare via il messaggero di pace. Poi però lo richiamò: «Dite al vostro signore un’ultima cosa: che attenda il giorno per attaccare, perché sto aspettando rinforzi».
Disse così per farlo cadere in un tranello inducendolo ad affrettare i tempi: aveva infatti scavato grossi fossi tra la riva e le case per farvi precipitare i nemici mentre ancora era buio.
Magellano era così convinto che avrebbe avuto partita vinta che diversamente dal solito non aveva fatto somministrare i sacramenti ai soldati. E pure lui se ne era astenuto.
«Che avete da guardarmi in quel modo!» ci aveva redarguito un attimo prima di salire sui battelli, leggendo il turbamento nei nostri occhi. «Dio è con noi, non lo vedete? Vi sarete resi conto di quante conversioni abbiamo ottenuto in pochi giorni senza spargere una goccia di sangue!».
Ma aveva sbagliato i suoi calcoli.
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Quando si accorse che le scialuppe non potevano accostarsi a riva a sufficienza per scaricare bombarde, moschetti e balestre, nemmeno allora si preoccupò. E invece avrebbe dovuto. Con quelle armi sarebbe stato facile mettere in fuga i guerrieri che ci attendevano sulle rive scuotendo gli scudi e lanciando grida atroci.
Spuntate le prime luci del giorno, saltammo giù dalle scialuppe trovandoci immediatamente con l’acqua alla cintola, impediti nei movimenti dalle corazze, Magellano alla nostra testa. Io mi tenevo alle sue spalle, a protezione. Accanto a me, il fido Pigafetta. Undici di noi restarono a presidio dei battelli.
L’acqua fin sopra le cosce ci rese subito difficile avanzare. Il tratto che ci separava dalla spiaggia dove i nemici erano in attesa era lungo oltre dieci tiri di balestra: percorrerlo in quelle condizioni ci tolse energie.
Quando arrivammo in prossimità della riva, vedemmo che i nemici si erano divisi in tre squadroni, in tutto più di millecinquecento guerrieri, come seppi poi.
Ecco all’improvviso alzarsi un unico grido altissimo, assordante, e una massa imponente di sagome lanciarsi verso di noi con furia selvaggia. Il cuore per un attimo mi mancò. Guardai Magellano, che mi ricambiò con un’occhiata tragica e piena di esitazione. Per la prima volta lo vedevo smarrito. Bastò a farmi andare via le forze residue.
Gli Indii ci assalirono da ogni parte, venendoci addosso in numero di cinque per ciascuno, due ai fianchi e uno in testa, e tuttavia tenendosi a rispettosa distanza per il timore che avevano delle nostre armi.
Il comandante ci divise in due gruppi e ordinò di fare fuoco. Tirammo coi moschetti e le balestre per oltre mezz’ora, ma senza costrutto, poiché la distanza era grande e i selvaggi si muovevano di qua e di là sottraendosi ai colpi o parandoli coi loro scudi di canne intrecciate.
Il capitano generale, vedendo che i nostri colpi andavano a vuoto, non smetteva di gridare: «Non tirate! Risparmiate le forze!».
Ma i soldati spaventati continuavano a menare colpi a vanvera.
Allora i selvaggi presero coraggio e si fecero più sotto, scaricandoci addosso una gragnola di frecce e lance di canna, oltre a pietre scagliate da fionde e grosse zolle staccate da terra.
Magellano ordinò ad alcuni di dirigersi verso le capanne per appiccare il fuoco e vedere se fosse possibile scoraggiarli. Ma questo li rese ancora più furiosi. Due dei nostri furono abbattuti e poco dopo lo stesso nostro comandante fu raggiunto alla coscia destra da una freccia avvelenata.
Vista la mala parata Magellano ordinò: «Ritiriamoci, ma in buon ordine e senza mostrare paura, o ci verranno addosso in massa».
All’inizio fu così, ma a poco a poco, incalzati dai selvaggi, ai più mancò il sangue freddo. Molti se la diedero a gambe, correndo a più non posso, per quanto l’armatura lo consentisse, verso le scialuppe. Il comandante trascinava la gamba lentamente, sempre più in ambasce. Solo in sette o otto gli restammo al fianco, pronti al sacrificio.
Ma egli non voleva saperne di ritirarsi, se non dopo che tutti noi fossimo stati in salvo. Per questo continuava a voltarsi gridando al nostro indirizzo: «Su, andate!».
*
Dalle barche i nostri compagni osservavano impotenti lo svolgersi degli eventi. Le bombarde erano troppo lontane per servire a qualcosa.
Nel frattempo la tempesta di frecce, pali appuntiti, sassi e zolle non cessava. Quelli scagliavano le lance e poi le ripigliavano per rilanciarle ancora sei o sette volte. E tiravano soprattutto alle gambe, perché erano nude.
Avendo compreso chi fosse a comandarci, era su di lui che concentravano i loro sforzi, assalendolo da più parti e sempre più numerosi. Eppure Magellano teneva duro respingendo gli assalitori anche quando questi erano in numero superiore alle dita di una mano.
Poi un paio di selvaggi gli fu addosso; riuscirono a cavargli l’elmo dalla testa in modo da renderlo più vulnerabile e colpirlo con furia.
Da un’ora e più combattevamo tenendo testa a quella massa quando una lancia colse il comandante di striscio a una gota. Magellano piombò su quello che l’aveva colpito trafiggendolo con la picca, ma così a fondo che non poté più estrarla dal corpo. Allora tentò di sguainare la spada, impedito in ciò dal veleno di una freccia che gli aveva quasi paralizzato il braccio.
Quando videro che non poteva muoverlo tutti gli furono addosso.
Ricordo che, rivolgendomi un ultimo sguardo, alzò la mano come per farmi un cenno e vidi le sue labbra pronunciare alcune parole che non potei intendere: forse addio o aiuto. Non potrò mai saperlo.
Quando mi accorsi che non c’era via di salvezza, mi volsi e mi misi a correre verso i battelli.
Anche se era l’unica cosa che restava da fare, comunque sia lo abbandonai.
Mentre correvo trovai la forza di voltarmi un’ultima volta: fu allora che vidi Magellano incalzato da ogni parte e d’un tratto una specie di scimitarra calargli addosso e colpirlo di netto alla gamba sinistra; lo vidi cadere in avanti con il volto nell’acqua. E subito gli furono addosso con lance di ferro e di canna e con decine di spadoni finché l’acqua si tinse di rosso.
Smisi di guardare e mi allontanai più in fretta che potevo; percorsi l’ultimo tratto quasi senza rendermene conto. Ancora oggi non ricordo di essere giunto ai battelli.
Come appresi in seguito, vedendomi in quello stato Pigafetta mi era corso incontro, mi aveva trascinato per un braccio e issato a bordo.
*
Anche dopo essere stato ferito, il capitano generale non aveva smesso di preoccuparsi per noi. Senza di lui nessuno sarebbe tornato da quella spedizione, io credo. Ma ben pochi erano disposti a riconoscerlo, e i più lo accusarono – accusarono un morto! – di non aver saputo condurre le cose.
Sia come sia, Magellano era caduto, e con lui altri sette dei nostri e quattro Indii venuti a darci soccorso. Molti erano feriti. Dei nemici ne restavano a terra non più di quindici. Ma il peggio era che la disfatta era avvenuta sotto gli occhi di re Humaubon il quale, lo vidi bene, piangeva come se avesse perduto un fratello.
Ce ne tornammo alle navi con una pena nel cuore che non si può raccontare.
Dopo aver pranzato re Humaubon mandò, col nostro consenso, alcuni dei suoi da Silapulapu per chiedere la restituzione dei corpi, specialmente quello Magellano. Ma quello rispose che mai si sarebbe privato di un simile trofeo, nemmeno per tutta la ricchezza del mondo.
«Per tutte le isole qua attorno, nel raggio di molte leghe, si è sparsa la voce della mia vittoria, e il mio nome ora risuona alto e splendente tra le mie genti e tra quelle vicine. Il corpo del vostro comandante, signore del tuono, è un trofeo prezioso. Io l’ho ucciso come fosse un uccello, lui che si credeva un dio, e ora il suo corpo mi appartiene e ne disporrò a piacimento. Andatevene e non tornate mai più».
Questo disse Silapulapu, circondato dai più fidati dei suoi guerrieri.
Gli ambasciatori s’inchinarono e tornarono da noi a mani vuote.
Si fanno molte supposizioni, ma cosa sia realmente toccato in sorte al corpo di Magellano nessuno ha mai potuto scoprirlo.
Gianluca Barbera