06 Novembre 2018

Prepararsi alla venuta della notte: leggere “I racconti di Kolyma” in compagnia di Aharon Appelfeld

La mia foto preferita è la numero XIII del passion cycle di Sam Taylor-Wood (in copertina una sua fotografia). Lo sfondo sfumato  potrebbe star ritraendo l’interno di un tempio di Bangkok, i protagonisti messi a fuoco sono un lui e  una lei dalle pelli bianche ma ormai arrossate da suzioni e sfregamenti. Niente volti, se ne vedono solo un cespo di capelli rossicci e l’ombra scura dell’altra capigliatura; l’abbraccio dei tronchi dei corpi che si schiacciano formando quasi una linea verticale al centro rende indistinguibile dove finisce il seno morbido di lei e l’addome duro di lui: come fai a dire chi è dei due che desidera di più  l’altro? Chi è che ha più fame dell’altro? Non c’è una corporatura dominante tra quella maschile e quella femminile, per quanto forti siano i caratteri sessuali. Chi dei due è colui che ricava l’unico senso possibile della sua esistenza soltanto a partire dall’esistenza di chi ha di fronte? Come si trasformerà la linea retta dei loro corpi? Saranno le braccia di lui a spaccare in due lei stringendola a tenaglia dietro la schiena? Saranno le braccia di lei a fargli pressione dietro al collo fino a decapitarlo? La loro storia d’amore e passione è così prossima a quella d’odio e morte che si stringe tra il carnefice e la vittima… Tra carnefice e vittima si fa tristemente in fretta a dire chi morirà per primo, ma: chi trionferà? Chi è il perno?

salamovScrive Benjamin Tammuz in Il minotauro, romanzo in cui un carnefice e la sua vittima s’innamorano  senza mai essersi anche solo visti o sfiorati: “Hanno lottato, hanno lasciato morire e hanno ucciso, e adesso la vittima e il vincitore hanno nostalgia l’uno dell’altro, e non c’è modo di tornare indietro, poiché uno di loro è stato ucciso. In realtà, sono stati uccisi entrambi”. Sarà dunque dovuto al mio debole per le storie d’amore così intense e incontrollate e immature e ideologizzate da raggiungere l’epitome dell’odio distruttore se dopo essere stato per milletrecento pagine fitte fitte con Šalamov ne ho trascorse nell’immediato circa altre centocinquanta con Aharon Appelfeld, per quello e per mantenere una promessa espressa tra me e me leggendo Operazione  Shylock di Philiph Roth. “Prima mantengo la promessa fatta a Šalamov di leggerlo, stretta mentre leggevo non mi ricordo nemmeno chi, poi leggerò Appelfeld, per merito di Roth, per come l’ha reso un personaggio del suo romanzo: qualcosa in Appelfeld deve esserci, un merito tutto suo, se Roth è riuscito a ricavarne un personaggio, una sua antitesi, simile”. Ho scelto di leggere un romanzo di Appelfeld che non fosse di quelli citati da Roth in Operazione Shylock, dunque: Badenheim 1939. Il romanzo della deportazione è stato il mio mezzo di fuga dalla Kolyma salamoviana.

Quante volte ci sta Badenheim 1939  ne I racconti di Kolyma? Mettendo fianco a fianco i due grandi  e bianchi volumi della Einaudi dell’opera di Šalamov, uno sull’altro, e il volumetto verde fango della  Guanda che ha pubblicato Appelfeld è come osservare un ghiacciaio torreggiare su una collina  venuta su intombando rifiuti su rifiuti, ma questo aumenta il disorientamento, segna l’inconcludenza delle sole proporzioni, siccome l’entità di male umano condensato è abissale in entrambe le opere. Convertissi nel formato enaudiano de I racconti di Kolyma il corpo tipografico guandiano di Badenheim 1939 il romanzo di Appelfeld non raggiungerebbe la cinquantina di pagine; Appelfeld ha scritto comunque sia un romanzo e nessuno dei racconti di Šalamov, neppure il più lungo, raggiungerebbe intanto la dimensione di Badenheim 1939. Mi piace il fronteggiarsi di questi due libri, per quanto sia soltanto frutto della mia casuale scelta di lettore l’averli messi in connessione; è difficile stabilire l’ordine di grandezza secondo cui misurarli. Lo dico subito, l’opera  di Šalamov per me è gigantesca, è un mondo, ma il piccolo romanzo di Appelfeld si difende  benissimo, non si fa intimidire, anche lui sa raccontare un mondo, o meglio: la fine di un mondo che vorresti che non finisse, non così. Šalamov da parte sua ha raccontato la durata di un mondo che vorresti non ci fosse mai stato, che speri in ogni istante finisca, maledizione: che qualcuno faccia qualcosa e lo cancelli per sempre.

Dopo essere stato trasportato per gulag sovietici per un mese intero mi sono andato a mettere in fila con gli ebrei di una villeggiante cittadina austriaca in procinto della deportazione in un lager nazista, stropicciando tra le mani la stampa della foto di Taylor-Wood che mi fa da bussola, da calamita. Ho assistito alla eliminazione scientifica e sbracata dell’uomo nel sistema  concentrazionario russo e non contento sono poi andato a vedere come si stava durante gli ultimi  bagliori della civiltà occidentale, mentre le luci si spegnevano, sostituite dalla penombra continua  delle vite ridotte al lumicino, quando non direttamente consegnate ai fumi dei forni e delle  fucilazioni. I racconti di Kolyma sono continuamente sottoposti alla lancinante luce bianca dei ghiacci e del rigore. Badenheim 1939 è un romanzo dove la vista si fa sempre più bassa, senza precisione, all’insegna della disattenzione. “L’umidità amara, nascosta, si assorbì nell’intrico di rampicanti”. Nella Kolyma non si può essere disattenti: distrarsi equivale a morire. Tutto sommato anche a Badenheim succede la stessa cosa, ma a Badenheim c’erano ancora troppe occasioni di svago: la pasticceria, il tabacco, il festival; la luce è andata via mentre si aspettavano i fuochi d’artificio. Kolyma rappresenta il troppo tardi. Badenheim rappresenta l’errore di aver creduto che fosse ancora troppo presto, che avanzasse tempo.

aharonLeggendo Badenheim 1939, per quei grotteschi paradossi della letteratura che distorcono le linee guida della storia così com’è andata, hai la sensazione che la destinazione dei treni coi quali gli abitanti ebrei vengono deportati non sia la Polonia, ma che sia la Kolyma. L’incipit dell’opera di  Šalamov è “Come viene aperta una strada nella neve vergine?” Risposta: con un treno che arriva  dritto dritto da Badenheim 1939. Una verità: Appelfeld mi ha aiutato a uscire dalla Kolyma, portandomi da tutt’altra parte, ma solo in apparenza, e quasi alle sue spalle. E mi aiuta a dirne qualcosa: Šalamov ha scritto milletrecento pagine, e dei suoi racconti non so dire altro se non che  vanno letti tutti, per le loro milletrecento pagine coraggiosamente belle nel descrivere l’orrore come  si descrive il volto della persona amata: senza infingimenti, sapendo dire tutte le minuzie attorno all’iride. L’indicibilità del suo racconto è vinta soltanto nella durata della sua scrittura.

Perché resto nei paraggi di queste narrazioni? Assecondo una morbosa pulsione e la giustifico rifacendomi al diritto al vagabondaggio di un lettore senza strategia, senza un pregiudizio da avvalorare andandosi a scegliere solo quei testi che glielo confortano? Oppure coltivo un interesse  che confino nel silenzio anche verso me stesso: che io provi una indicibile invidia verso i carnefici?  Ah, essere il caposquadra che picchia e umilia e affama e ammazza i prigionieri politici dei lager di  Stalin, è questo? O ne provo una ancora più indicibile verso le vittime: oh, le care vittime, sempre amabili tenuto conto di quello che hanno dovuto passare! Essere amato come è amabile il probo Šalamov!, il Šalamov sopravvissuto laddove in altri milioni sono morti, mantenendosi retto e morale, non sottomettendosi mai al soccorso del male. Essere amato come il formidabile Appelfeld, così distante dai personaggi del suo romanzo, tanto arguto e vivo e combattivo Appelfeld nella sua biografia e nelle pagine che gli riserva Philip Roth quanto non lo sono affatto i personaggi e abitanti di Badenheim, che si sono lasciati fare di tutto, fiduciosi, attendisti, decadenti e benestanti, europei all’apice di una antonomasia.

Appelfeld non è stato fiaccamente fiducioso, neppure Šalamov, ecco cosa ha permesso loro di sopravvivere: la mancanza di fiducia. Bugia, è stato il caso. Per un Šalamov e un Appelfeld che sono sopravvissuti, chissà però quanti altri Šalamov e un Appelfeld non sono sopravvissuti, pur avendone le stesse qualità, la stessa salvifica mancanza di fiducia nell’esperimento della specie umana, forse, oppure è proprio impossibile: di ciascuno ce n’è uno solo, i controfattuali sono svaghi per pervertiti. Un solo Šalamov, un solo Appelfeld. La storia umana non è un romanzo, può fare liberamente a meno di qualsiasi ragionamento che tenga.

Šalamov e Appelfeld nei loro romanzi non fanno il canto della vittima; non parteggiano, sanno quanto ormai sia inutile, ridicolmente tardi, per parteggiare: basta il racconto per dire il posto occupato dalle persone che hanno scelto o che non hanno potuto sceglierlo. Raccontano l’uomo messo di fronte alle situazioni che ne prevedono l’annichilazione. La letteratura, quando lo è, è un prepararsi alla venuta della notte, e un insegnare come procurarsi il fuoco anche laddove tutti i Prometeo sono stati incatenati, impalati alle vette delle montagne, e sono stati fatti sparire tutti gli acciarini, assieme a lacci e cinture, perché nessuno provi a evadere dalla notte lanciandosi altrove aggrappato alla corda di un suicidio.

Penso, obliquamente, a tutto questo la sera quando prendo le scale della metro e mi chiedo se sarà  la volta in cui accadrà a me di beccarmi il calcio dietro la schiena che mi farà schiantare in basso,  come fu per quella ragazza nera a Berlino in un video di giovani bravacci così fieri e che non  consideravano che da lì a poco sarebbero stati individuati e arrestati. Non mi riesce di vedere le youtubate di gran scalpore pure piene di altri bravacci che picchiano al volto a caso uomini anziani per mandarli a terra e gioirne a favore di registrazione ma quel video della ragazza scaraventata lo guardai a ripetizione, rappresentava il superamento di una soglia della banale gratuità del male. Mi secca abbastanza che guardandolo mi sia sentito chi prende la pedata mortale, mai chi la dà; scegliersi la parte della vittima potenziale è da coglioni ma non mi basta la fantasia per calarmi nel violento per noia e poi, a immedesimazione finita, odiarmi soltanto per finta.

Il piano è che la scelta non sia obbligata tra vittimismo e carneficismo, bisogna cambiare il nastro, riscrivere la pagina come non è ancora stata scritta perché le parole modifichino persino il corso di quello che è già stato e fare in modo che la ragazza di Berlino schivi d’istinto l’attacco alla schiena, così che l’aggressore si sbilanci, cada male, ci si giochi una rotula e finisca in un letto d’ospedale con la gamba in trazione. Lei potrebbe passare in visita, all’inizio per il gusto di dargli beffa poi fermandosi accanto al suo letto per leggere un libro di Šalamov, uno di Tammuz, uno di Appelfed, uno di Roth, imponendogliene ogni tanto a voce alta qualche paragrafo, torturandolo così, e di tortura in tortura chissà che non finiscano come in quella foto della Sam Taylor-Wood che a me piace tanto. Insomma, se deve esserci la morale, che ci sia anche la favola.

Antonio Coda

Gruppo MAGOG