
“L’uomo è un albero mistico”. Sulla poesia suprema e folle di Alfonso Cortés
Poesia
Giorgio Anelli
Di recente, ho rivisto 2046, il film di Wong Kar-wai, uscito nel 2004. In lingua originale, gli attori sembrano cinguettare o grugnire – il tono è tutto.
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Ambientato tra Singapore e Hong Kong, il film racconta – per frammenti, spesso fulminei – la storia di un giornalista, Chow, che per rinverdire il proprio reddito scrive romanzi di fantascienza, popolari. Uno di questi, racconta di un luogo (che è poi un anno), il 2046, in cui è possibile riandare ai ricordi perduti. Che lacerazione: rivivere un ricordo sapendo di essere sempre in ritardo…
Nel romanzo, Chow intreccia elementi tratti dalla sua biografia: nella stanza 2046 di un austero albergo di Hong Kong, era solito incontrare Su, sua assoluta amata. Entrambi – Chow e Su – sono sposati; entrambi traditi dai rispettivi coniugi. Di questa storia, per abbagli e bagliori, si racconta nel precedente film di Wong Kar-wai, In the Mood for Love, del 2000.
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Forse il personaggio più coinvolgente di 2046 è Bai Ling, prostituta di procace bellezza – interpretata da Zhang Ziyi, superba – che cerca la pace nell’amore autentico. Ma chi può davvero volere la donna che dell’amore ha fatto merce, miracolo a ore? Proprio lei, il cui corpo la fa credere tigre, si rivela preda – nel collasso del nulla che sigilla la carne.
Naturalmente, si innamora di Chow, che è innamorato di un’altra, che è innamorata di un altro, di un miraggio.
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Faye Wong, la figlia del padrone di casa di Chow, è sfiancata dall’ennesimo amore impossibile. Ha un certo genio per la scrittura, è giovane, diventa la segretaria di Chow. Infine, fugge con l’amato, in Giappone. I due si sposano. L’unico amore compiuto del film – narrato con precisione per le incompiutezze – si realizza all’estero, dopo una fuga, dopo una rottura.
Per amare qualcuno bisogna uccidere qualcosa.
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Ogni amore è impari, nel senso che nessun amore è in pari. C’è sempre un angolo buio, il punto che non si congiunge, lo spazio del segreto più intimo, irriducibile. Già: vorremmo disintegrarci nell’amato, ma si muore soltanto per l’amore sbagliato. Chi raccoglierà le nostre briciole: i corvi di quartiere?
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Ormeggiare un amore al romanzo non fa che complicarne le ambiguità. Il protagonista di “2046”, il romanzo di fantascienza evocato in 2046, si innamora di un androide dai sentimenti ritardati. Chi non ama quando bisognava amare, lo rimpiangerà per sempre – le sue lacrime diventano un Gange, acqua benedetta per altri, gli sconosciuti.
In un romanzo di Henry James, di rassegnata perfezione, La tigre nella giungla, quando il protagonista si accorge che lei era lei, lei è già morta da anni. La bestia che lo divora, a lungo, alle spalle, è l’assenza – ora, più morto dei morti è lui, incapace di assaggiare la vita.
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Ha dunque senso, soltanto, dissiparsi? Ovvero: disgregare l’amore nel grido, nell’affastellarsi dei corpi, nel fioco fuoco? Ha senso soltanto sotterrare il proprio segreto nell’incavo di un tronco? Nutrire con gli estremi sussurri il segreto, finché non ce ne innamoriamo.
Innamorarsi del segreto – vivere da sepolti vivi.
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Nei giorni in cui ho visto 2046, ho riletto Tinian, la poesia di Friedrich Hölderlin. È una poesia frantumata in frammenti, scritta probabilmente nel 1804, duecento anni prima di 2046. È l’anno in cui il poeta pubblica le sue disarmanti, furibonde versioni da Sofocle e viene assunto, per intercessione di Sinclair, come “bibliotecario di corte”. L’incarico, dura poco: Hölderlin svanisce nella follia, “ora è un pazzo furioso; ma il suo spirito ha raggiunto un’altezza che solo un veggente, un uomo ispirato da Dio, può avere” (così Charlotte von Kalb a Jean Paul).
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Tinian è, anche, testimonianza dello sbalordimento di Hölderlin, della sua maniaca ispirazione. Così l’attacco, nella versione di Luigi Reitani:
È dolce errare
Nella sacra natura selvaggia,
E alle mammelle della lupa, spirito benigno,
Delle acque che
Errano
Lungo la mia terra natale,
, più selvaggia di un tempo,
E ora abitata, bere, simili a trovatelli;
Come il “2046”, Tinian è il luogo dei ricordi originari, degli amori primordiali, del vagabondaggio nella veggenza. È il luogo dove scoprire cosa si ama e cosa si amerà:
E vagare a piacere, senza tempo
Giacché hanno,
Come la corsa dei carri, simile a un falco che luccica, o
La lotta con le fiere, quale voglia materna,
Per riconoscere di che spirito siano figli
Gli Occidentali, i Celesti
A noi destinato questo ornamento;
Il mito antico delle Isole Felici si mescola a profetica furia, alle funamboliche visioni di Isaia, ad esempio (“…scaturiranno acque nel deserto,/ scorreranno torrenti nella steppa…/ I luoghi dove si sdraiavano gli sciacalli/ diventeranno canneti e giuncaie”).
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Tinian è – nella nuda realtà – un’isola delle Marianne Settentrionali, poco distante da Saipan. È un’isola-ninfa, che conta poco più di tremila abitanti. Hölderlin ne legge, probabilmente, in A Voyage Round the World, resoconto di viaggio di Richard Walter, cappellano imbarcatosi sulle navi del commodoro George Anson; il diario di bordo, edito in origine nel 1748, fu prontamente tradotto in tedesco. Incaricato di attaccare i possedimenti spagnoli in America del Sud, dopo un viaggio costellato da indicibili difficoltà, l’ammiraglio Anson approda, con una sola delle sei navi con cui era partito, la “Centurion”, a Tinian, descritta come una specie di Eden. Poi, virerà verso Macao, le Filippine, il Sudafrica, dopo aver assalito un veliero spagnolo gonfio di denari.
Nei secoli, Tinian passa dal dominio spagnolo a quello tedesco, dal 1889, a quello giapponese, dal 1914. Conquistata durante la Seconda guerra dalle truppe statunitensi, da Tinian partiranno i voli che hanno scagliato le bombe su Hiroshima e Nagasaki. L’isola edenica – attualmente sotto controllo americano – diventò alcova di morte. A dire, per effetto contrario, conturbante, della terribile facondia profetica di Hölderlin.
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A Tinian, scrive il poeta,
Fiori vi sono,
Non generati dalla terra, da sé
Spuntano dal suolo smosso
…Senza foglie,
Simili a pensieri,
Un florilegio di pensieri, cioè: assenza di radici. Fiori che fluttuano, che non sfamano. Rientrare in un ricordo non significa forse modificarlo, togliergli i petali? Nessuno condivide un ricordo, perché restiamo anime cadute, divise. Due corpi che si amano sono sbilanciati, entrambi, verso altro.
L’agrimensore dei ricordi distribuisce pena e commozione con equità: alcune volte è necessaria la zappa, altre volte basta lo scalpiccio di un nome, lo scalpitio di un canto.