26 Settembre 2024

“Si è liberi soltanto scrivendo versi”. Le poesie di Natsume Sōseki 

Nelle fotografie lo si vede per lo più in foggia occidentale. In quell’uomo in giacca & cravatta, con i baffi abilmente impomatati, stenteremmo a riconoscere un giapponese: eppure, senza dubbio, Natsume Sōseki rappresenta, con la sua opera, la quintessenza del Giappone moderno. Inviato a studiare a Londra dal Ministero dell’istruzione, con una modesta borsa di studio, Sōseki vi passerà – dice lui – gli anni più brutti della sua vita. Erano i primi del Novecento, si sentiva un poveraccio (“un cane”, dirà) tra elegantissimi lupi – tra Cambridge ed Edo la distanza era millenaria. A differenza di altri scrittori giapponesi, incantati dalla letteratura francese e dalle sue sadiche mollezze, Sōseki preferiva Shakespeare, Milton, Laurence Sterne. Un suo tardo erede, Kenzaburō Ōe, dirà di aver scritto i suoi romanzi – Gli anni della nostalgia su tutti – sotto l’aura di Dante e di William Butler Yeats.

Tornato in Giappone, Sōseki occuperà la cattedra di letteratura inglese presso l’Università Imperiale di Tokyo; ruolo ricoperto prima di lui da Lafcadio Hearn. Non gli piaceva insegnare: l’indole individualista lo rendeva, agli occhi dei più, introverso, a tratti sferzante. Il successo del libro più noto – Io sono un gatto – gli permetterà quasi subito di mollare l’accademia e di darsi alla scrittura.

Di fatto, Natsume Sōseki ha fondato il romanzo giapponese moderno. Di lui, spregiudicato inventore di forme, si è nutriate la triade Tanizaki-Kawabata-Mishima: ciascuno razziando dove gli serviva. Il genio di Sōseki sta, anche, nella capacità estrosa con cui fonde Oriente e Occidente. Il suo libro più bello – uno dei più belli in assoluto della letteratura moderna – Guanciale d’erba (“Kusamakura”, 1906), narra di un pittore che vaga per boschi e picchi, contemplando la natura, dialogando con uomini e bestie, alla ricerca del segreto delle cose. La quiete, pare udire, non si raggiunge senza retaggio di crudeltà. Questo inno al vagabondaggio, all’insussistenza, all’assoluto sé, all’eresia anarchica della meditazione solitaria, fonde Thoreau a Basho, Goethe a Dogen, Wordsworth alle abissali conclusioni del buddismo zen.

Ultimo figlio di un samurai in disarmo, cresciuto da una nutrice, ispirato dalla povertà, animato da una compassione che valicava l’ossessione, Sōseki è l’emblema dell’artista assiso nei rigori della solitudine – il pioniere della ‘contraddizione’ direbbero critici in cattedra. Tuttavia, la sua fortuna in Italia è stata tardiva: vuoi per la profondità dell’opera, vuoi perché altri autori avevano pressoché occupato l’intera gamma dell’interesse editoriale italico. Il cupo erotismo di Tanizaki piaceva a Moravia; l’opera magmatica di Mishima radunò milizie di fan; Kawabata, dopo il Nobel per la letteratura del 1968, finì per diventare l’emblema stesso del Giappone. Sōseki – morto nel dicembre del 1916, a 49 anni – era uno scrittore d’altri tempi, d’altro stile. Soltanto nei primi anni Ottanta, grazie a Editoriale nuova, escono Anima (1982, traduzione di Nicoletta Spadavecchia, prefazione di Gian Carlo Calza) e Guanciale d’erba (1983, traduzione di Lydia Origlia); entrambi i libri sono ripresi, qualche anno dopo, da L’Ottava, la casa editrice di Franco Battiato, che li esalta, di fatto, tra i testi di Gurdjieff e i trattati sufi, a romanzi sapienziali. Oggi, Sōseki è il vanto di molti editori – Neri Pozza, Beat, SE, Marsilio –: da un po’, Lindau propone le sue opere, l’ultima in ordine di tempo è la raccolta Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera.

Ciò che si tende a dimenticare è che Sōseki è stato, anzi tutto, un raffinatissimo poeta – a tal punto che i maggiori romanzi possono con ragione essere definiti ‘poemi in prosa’. Il suo maestro, Masaoka Shiki, è stato uno dei massimi autori di haiku di ogni tempo; lo stesso Sōseki è autore di circa 2500 haiku (un centinaio dei quali sono stati pubblicati da La Vita Felice, a cura di Lorenzo Marinucci, come Prima dell’alba, 2019). Negli Stati Uniti, Matthew Mewhinney, professore presso la Florida State University, coordina il “Sōseki Poetry Project”, sostenendo che il grande romanziere è stato “uno dei più importanti poeti del Giappone moderno”. Scopo del progetto è fornire, con testo a fronte, la traduzione di diverse poesie di Sōseki; da lì abbiamo tradotto uno stretto numero di kanshi, versi scritti secondo il codice lirico cinesie (di diversa lunghezza e stazza poetica, Sōseki ne ha composti in totale 208).

L’esito è suggestivo: Sōseki rimodella i cliché paesaggistici della tradizione – le poesie di Saigyo, di Ikkyu e dei sommi poeti cinesi di epoca T’ang, da Li Po a Wang Wei – intridendoli delle sue oscure malinconie, tra le plaghe delle proprie piaghe. I temi, appunto, sono quelli dei suoi libri: la natura onnipotente, le nervature malinconiche, la solitudine, marziale. Più feroce che nei romanzi, Sōseki costruisce, in versi, un’etica implacabile: fustiga le proprie ambizioni, preferisce i monti ai libri (materia vana), ascolta la voce dei sogni, desidera – come il primo Yeats – un’umile capanna a mo’ di dimora. Scrive, in fondo, in ostilità a chi usa la scrittura come carriera; scrive – come soltanto i grandi poeti – per abolire la scrittura, imitando le tracce del cervo, dandosi alla belva, in un lascito di nebbie.

***

Presso la Torre del Cigno

Alla Torre del Cigno, sfido l’alba, visito una cella Zen.
Rintocchi solitari, a intermittenza.
Un brusco colpo, nessuna eco;
un corvo fluttua intorno alla grata, spaventato.

Il tempio perfora il cielo: nulla in vista.
La sala è decrepita, i pini l’hanno invasa.
Rovine del passato di cui siamo preda:
perché una ragnatela copre il vecchio Buddha?

*

Al mio amico poeta Okuda, che ritorna a casa

A lungo fischia il treno, il fumo sfila per chilometri:
soltanto il fumo resta da quando sei partito
e io sprofondo in un cupo dolore. Ci siamo conosciuti
per caso, ma i venti giorni trascorsi insieme
sono indimenticabili. La nostra separazione
lascia piaghe in me: ho scaldato del buon vino
e non so perché mi ostini a scrivere su fogli rossi.
Penso a chi viaggia sul fiume Tonegawa:
dorme mentre ascolta la pioggia e i suoi sogni
si raffreddano sulla finestra della cabina.

*

Dolore per la separazione

Separarmi mi addolora, non ha colori l’addio,
i sogni sono dune deserte. Sui verdi altipiani
in lontananza, i salici sembrano fumo:
quanti anni sono passati da quando ci lasciammo?
Splende incerta la luna sul ponte rosso.

*

Improvvisi

Si dirada la pioggia, si sbriciolano le nubi:
il tramonto abbaglia la baia.
Chi ha detto che il fiume è in secca?
Il riflesso della montagna ha profondità maestose.

Sulla riva, le alghe acquatiche fioriscono, bianche
e abbondanti. L’ombra della montagna scivola
sul fiume. È lauto il bottino del pescatore:
rema, sulla barca, come in un dipinto.

*

Senza desideri terreni, tutto è quiete:
sono libero di vagare tra acque verdi e nubi.
Non esiste alfabeto nella terra degli immortali:
non vedo libri ma soltanto montagne.

*

Noleggio una barca, risalgo il fiume Tonegawa e sogno la Ragazza Airone

La barca si ferma dopo diversi approdi
autunno copre le rive d’erba profumata.
Non riesco a dissipare il dolore
che mi provoca la separazione:
tra bianchi fiori sogno la Ragazza Airone.

*

Ricordando gli amici di Tokyo

Il mio spirito vola per mille leghe sopra il fiume Sumida:
una cappella dipinta sul fiume, un’aura di salici.
Il vino infiamma il dolore della separazione: torno sobrio.
La poesia ospita l’addio e impiego molto tempo a darle forma.
La lampada illumina i miei sogni, le falene si accalcano;
la luna è vergine, è autunno, tra poco pioverà.
I miei talentuosi amici risiedono nella capitale
e scrivono versi che spezzano il cuore su carte eleganti.

*

Se il mondo mi evita è a causa del mio brutto carattere:
è impossibile favorire la buona fama se si è folli.
Critico i contemporanei e volto le spalle al mio tempo;
sfoglio gli antichi libri per maledire i loro autori.
Il mio genio è un vecchio mulo, lento e stupido;
la mia sapienza una crisalide vuota, dalle fragili ante.
Ho l’ossessione per i paesaggi istoriati di nebbia:
mi emoziona la vista della valle e del fiume
vorrei avere per dimora una capanna dal tetto di paglia.

*

Braccia annodate alla spada, il brontolio di un drago:
leggo libri e disprezzo gli esegeti di Confucio.
In questo momento so che la trascendenza è vanità.
Nei miei sogni, la voce di una donna meravigliosa.

*

Su una strada di montagna, l’acero parla

Il muschio sulle pietre rende rischiosa l’ascesa: piove
attraversa il fiume, costeggia il bosco e torna a casa.
Ovunque, grida di cervi, ma nessuna bestia è in vista.
Nuvole bianche e foglie rosse: a questo si riduce la montagna.

*

Fine agosto, 1890

Fiumi e monti accettano la mondanità dell’uomo?
Vivi nell’arena dell’onore, vivi di futili ambizioni.
Me ne dolgo: sei malato, l’ardore ti dilania
discorri con le muse con sconsiderata scaltrezza.

*

Verso il monte Hakone

Infine, lascio la mia città
alloggio sulle rive del Lago Rosso.
Il vino può davvero fugare i guai?
Si è liberi soltanto scrivendo versi.
Al vecchio avamposto l’autunno
è arrivato prima; sulla strada, un cavallo
marcia, lento. Di notte, il sogno del viandante
cade umido sui rami del salice.

*

Si sfilaccia la nebbia, il cielo è puro,
i segni dell’autunno svaniscono.
La polvere non intacca il mio cappotto.
I miei amici di Tokyo chiedono di me:
non tornerò a casa prima di aver visto
la mia quota di colline e di fiumi.

Natsume Sōseki 

Gruppo MAGOG