28 Settembre 2019

“Capii che non ce la raccontavano tutta, così, a 23 anni, arrivai a Damasco. Avrei potuto convertirmi, ma sarebbe stato un finale troppo borghese…”: dialogo con Sebastiano Caputo

Ci vediamo a Catania, per un groviglio di casualità, “sembra Damasco”, fa lui, e tutto sembra così deteriorato, così fragile, anche la cattedrale di Sant’Agata, la tratta dei turisti; il tempo è immobile come un giaguaro, ci attende, e l’Etna è da qualche parte, invisibile e albino, una sciarada ordita da un folle cabbalista. “L’ho scritto tutto sui taccuini, laggiù”, mi fa, dandomi il libro, indicando qualcosa di indimenticabile e di ulcerato, laggiù, nella memoria, mentre affondiamo nella città, verso le pescherie. Giovane – classe 1992 –, alto, elegante, concreto. Sebastiano Caputo sorride spesso e non ha nulla da dimostrare. ‘Pariolino’ – senza vergogna né vanto –, fondatore e direttore de “L’intellettuale dissidente”, a 23 anni è stato folgorato dal Medio Oriente. Ha scritto diversi reportage per il Giornale, ha firmato un libro, Alle porte di Damasco. Viaggio nella Siria che resiste (Gog, 2017), è presidente della Fondazione Sos Cristiani d’Oriente, ogni tanto va in tivù. Guarda, ascolta, non ha vezzi da reporter esaltato, non t’inietta nell’abisso come una specie di Lawrence d’Arabia dei quartieri nostri. Ha imparato la cautela, l’arte della pazienza, a sarchiare, dagli sguardi, il vero. Non è andato in Medio Oriente sulla rolls royce di una grande testata nazionale, ma per i fatti suoi, richiamato dal rischio. Leggo il suo ultimo libro in aereo. S’intitola Mezzaluna sciita (Gog, 2018), reca una affettuosa prefazione di Alberto Negri, lo leggo al contrario. Caputo arso dalla malinconia, che cita il grande viaggiatore Richard F. Burton. Mi colpisce il racconto del pellegrinaggio in direzione di Karbala (“All’alba, verso le 5 del mattino, iniziò il nostro pellegrinaggio. Vestivo come loro. Una camicia nera e una sciarpa verde. Fatemeh, Ramisa ed io ci bagnammo nella fiumana di persone, per tre giorni interi camminando 10-12 ore con delle pause per mangiare, bere, riposare e dormire nei vari rifugi, sempre pronti ad accoglierci con rispetto e ospitalità”). Attraverso il senso del sacro soffuso dagli altri, in Iraq, Sebastiano scopre la propria identità cristiana, cattolica. Poi, certo, il libro, appuntato a mano, su quaderni che hanno solcato il disastro e la speranza, tra Siria, Libano, Iran e Iraq, ha i momenti del pericolo supremo (“Un errore da principiante… L’aggressore si girò verso l’amico, annuendo con il capo, gli occhi spiritati. ‘Questi sappiamo da dove vengono e per chi lavorano’”), l’assiduo dell’affidarsi a chi potrebbe esserti amico o assassino. Soprattutto, è un libro necessario, che al reportage schietto, scalfito, aggiunge pagine di studio (sintetizzo: da pagina 101 a 134, una panoramica particolarmente chiara sullo “Sciismo Duodecimano” e su quello che accade in Iran). Il diamante dell’ego non ha sgretolato l’intransigenza di Caputo, mi pare. Racconta, con ferma compassione – come se ci fossero dita dietro ogni fatto e il caso si tingesse di liturgia. Ci salutiamo come uomini certi della vita – non è poco. Poi, più tardi, lo chiamo. (d.b.)

Intanto, perché il Medio Oriente? Visioni alla T.E. Lawrence, casualità, gusto per l’esotico e per l’avventura, cosa?

Prima di rispondere a questa domanda devo dirti qualcosa su di me, altrimenti è difficile capire cosa spinge un giovane occidentale ad avventurarsi ai confini del mondo. Sono stracittadino, borghese, figlio della modernità. Sono nato nel 1992 a Roma, non una vera e propria metropoli ma un grande villaggio sì; cresciuto ai Parioli, quartiere un tempo berlusconiano e che oggi vota in massa Partito Democratico. A scuola sono andato allo Chateaubriand, un liceo francese frequentato da figli di diplomatici, parlamentari, attori, giornalisti, nonostante io sia figlio di un architetto completamente slegato da quell’ambiente. Tutto questo non l’ho scelto io chiaramente, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, anzi, per me sono stati anni straordinari, e ancora oggi con quel mondo ho legami di profonda e sincera amicizia. In compenso non ho mai voluto una vita normale, statica, impiegatizia, ero costantemente alla ricerca di adrenalina, e alla fine penso sia stata quella stessa ricerca di adrenalina che mi ha portato a viaggiare come giornalista e reporter. Il Vicino e Medio Oriente è stata una scelta conseguente. È lì che tutto inizia e tutto finisce.

Per gentile concessione pubblichiamo alcune fotografie di Sebastiano Caputo dai viaggi in Medio Oriente

Ascoltavo Franco Battiato, amavo i film di guerra, sognavo di essere fotografato con una sigaretta in bocca vestito con abiti tradizionali o indossando i classici pantaloni con le tasche laterali, di dormire in una trincea accanto ad un soldato…  poi, quando iniziai a scrivere i miei primi articoli di politica internazionale, erano appena cominciate le cosiddette “primavere arabe” e fin dal primo giorno mi ero reso conto che non ce la raccontavano tutta. Bisognava andare sul campo per capire cosa stava succedendo veramente, e quali sarebbero state le conseguenze geopolitiche di quei sollevamenti popolari. Così, alla prima occasione, a 23 anni, mi ritrovai per la prima volta a Damasco, nel pieno del conflitto. Da lì è iniziata una traversata che mi ha portato diverse volte in Siria, Libano, Giordania, Egitto, Iraq, Iran, Pakistan, Afghanistan, Turchia.

Parto dalla fine. Scrivi: “Da cattolico vengo per costruire un dialogo con voi senza il filtro dei massmedia, perché occorre camminare nella stessa direzione”. Chi sono i ‘voi’ e perché ‘occorre camminare nella stessa direzione’?

Nel Vicino e Medio Oriente esistono ancora valori pre-moderni – la cultura del dono, il mutuo soccorso, la famiglia allargata – che si intersecano con un modo sacro e allo stesso tempo libertario di concepire la vita, così simile all’Italia dei film di Mario Monicelli, Federico Fellini, Dino Risi, e che ancora oggi si incontra negli angoli non contaminati del nostro Strapaese. Questi tre anni e mezzo sono stati un viaggio nel nostro passato e presente remoto, alla scoperta di popoli orientali in cui il Cristianesimo o l’Islam restano elementi sociali dominanti, ma dove la religione viene considerata uno “spazio” e non un “tempo”. Lì c’è tutta la grandezza del Vicino e Medio Oriente, demonizzata invece da una parte della stampa occidentale, e da lì deve partire questo cammino comune in uno spazio globale condiviso che non deve farsi corrompere dal tempo e da quella modernità che vuole occupare tutti i campi dell’esistenza, dalle idee ai consumi.

 Il tuo libro è anche un elogio dello Sciismo: perché, cosa ti attira (e cosa dovrebbe interessarci) di quella frangia dell’Islam?

Sono tre le ragioni principali che ho cercato di sviluppare nel corso del libro e che mi hanno avvicinato, come giornalista ma ancor prima come uomo, a questa fede religiosa, ed è anche il filo conduttore che rilega le mie esperienze al fianco delle comunità sciite in Siria, Libano, Iraq e Iran. In primo luogo gli sciiti sono avversi allo sradicamento (dunque all’emigrazione massiva) poiché hanno un rapporto particolare e un attaccamento viscerale alla loro terra d’origine. È una religione di lotta, resistenza, sacrificio, sofferenza, e tutto questo li ha portati negli ultimi decenni ad essere i più duri avversari sul piano teologico e militare delle declinazioni fondamentaliste (salafismo, wahabismo, e via discorrendo) dell’Islam, e di conseguenza i nostri migliori alleati nella lotta al terrorismo. In secondo luogo l’Islam sciita non persegue un “pansciismo”, ovvero un discorso unitario, bensì riconcilia il credo religioso con le identità nazionali. Si è libanesi, iraniani, iracheni, siriani, prima ancora che sciiti, esiste nella loro dottrina una vera mistica dell’anti-globalismo. In terzo e ultimo luogo lo sciismo è una religione millenarista, apocalittica, esoterica, è una religione dell’attesa nel ritorno del Dodicesimo Imam, l’Imam nascosto. Per loro l’evangelizzazione non è mai stata una priorità, ragion per cui, a differenza delle monarchie del Golfo, le potenze sciite non finanziano moschee fuori dai loro confini nazionali, né invitano le loro comunità a rivendicare diritti comunitari nei Paesi in cui vivono.

Dio. Ti dici cattolico. Pratichi? In quanto cattolico, ti ritieni rappresentato da questo Papa? Che rapporti ha il Vaticano con l’Islam sciita?

Ero cristiano di cultura, poi mi sono perso per strada, e paradossalmente scoprendo i riti, le tradizioni, la fede degli sciiti sono tornato ad un Cattolicesimo (da praticante ma non dogmatico). Di questo percorso ne parlo nel capitolo conclusivo del libro quando racconto il pellegrinaggio dell’Arbaeen, nel Sud dell’Iraq, tra Najaf e Karbala. Nel volto di Ali, vedevo quello di Gesù Cristo, nella leggenda dell’Imam Hussein intravedevo la croce sul Golgòta, nel culto di sua sorella Zeinab si percepiva l’amore di Maria. Avrei potuto convertirmi, ma sarebbe stato un finale perfettamente borghese e occidentale, invece sono tornato alle mie origini spirituali. Non per reazione o rifiuto, bensì come prosecuzione del Sacro con altre forme rituali. Per quanto concerne l’attuale Papa, è estremamente complesso pronunciarsi. Credo che a differenza dei suoi predecessori più che una visione teologica abbia una visione del mondo, e la reputo positiva, a differenza di alcuni colleghi che la squalificano come “terzomondista”. Direi più che altro ci sia un problema di comunicazione e di immagine nel suo Pontificato, un inseguimento ossessivo dell’agenda giornalistica e soprattutto una costante ricerca giovanilista dell’apparenza. Personalmente ho guardato con ammirazione la serie di Paolo Sorrentino intitolata “The Young Pope”. Il più giovane dei Papi si dimostra in realtà il più vecchio di tutti, il più rigido tra i conservatori, costruisce un’estetica dell’oscuro, una mistica della parusia, un colto dell’ombra, come una vera rockstar che non deve consolare i fedeli ma di trascinarli in paradiso anche nel silenzio.

Nel tuo libro metti in rilievo una certa cecità occidentale nel capire il Medio Oriente. Qual è stato l’errore più grave a tuo dire?

Negli ultimi decenni il Vicino e Medio Oriente ha vissuto sotto la cupola della pax americana di conseguenza nessuno ha mai voluto capirlo realmente. Gli americani hanno sempre creato un nemico esterno per rafforzare il campo occidentale, prima l’Unione Sovietica, poi l’Islam in generale, oggi i cinesi e i musulmani sciiti, in particolare l’Iran. Più che una cecità esiste una vera e propria volontà di demonizzare a priori dei popoli, dei leader o delle nazioni, e molti, per americanismo di maniera si sono sempre allineati senza nemmeno chiedersi se effettivamente quali erano le ragioni profonde. Ma attenzione, l’orientalismo di reazione, in realtà è un’altra forma di occidentalismo che tende a idealizzare un mondo e ad interpretarlo con le nostre categorie semantiche, filosofiche e sociologiche, non a caso spesso i liberal-democratici statunitensi sono stati molto più feroci dei repubblicani, infatti si sono inventati l’espressione “guerre umanitarie”.

Un ragazzo come eri tu allora vuole andare in Siria, e da lì viaggiare per capire. Che consigli gli dai?

A spingermi la prima volta fu l’adrenalina, e con lei l’ingenuità di un giovane irresponsabile. Per partire non bisogna farsi troppe domande, non parlarne troppo in giro, per evitare pressioni. E poi non esistono soltanto le prime linee, ci sono anche le retrovie. Questo è anche uno dei motivi che mi ha spinto ad accettare la proposta di diventare presidente della Fondazione SOS Cristiani d’Oriente, filiale italiana SOS Chrétiens d’Orient, un’associazione umanitaria francese che porta avanti progetti di cooperazione e sviluppo in Egitto, Libano, Siria, Iraq e Giordania, mandando volontari sul campo. Era un modo per trasmettere la mia esperienza personale sul campo nel Vicino e Medio Oriente, in tutta sicurezza, in una cornice più istituzionale, ai miei coetanei che in questi anni mi hanno sempre chiesto da dove cominciare.

Qual è stato l’incontro indelebile, quello più formativo?

Vorrei raccontare la storia di un signore di cui non dico il nome, originario e residente di Aleppo, il quale mi aveva fatto da Cicerone in quella città indemoniata durante il mio soggiorno di pochi giorni nell’aprile del 2016. Era un contesto di vera e propria guerriglia urbana, il nemico era il tuo vicino di casa, si combatteva da un quartiere all’altro senza esclusione di colpi. Aleppo era una vera e propria prigione a cielo aperto in cui mancava l’aria. In città si usciva poco a causa dei cecchini e quando lo si faceva si camminava il più veloce possibile. In giro c’era un silenzio tombale. Nelle case ci si vedeva con gli altri ma senza fare troppo rumore. Nei bar deserti si prendeva posto lontani dalle vetrate, terrorizzati dalle schegge impazzite dei colpi di mortaio. Bastarono pochi giorni per capire dove fossi finito, incredulo del coraggio di chi aveva scelto di restare pur avendo la possibilità economica di andarsene una volta per tutte. Uno di questi era l’uomo citato sopra. Ogni mattina mi veniva a prendere in albergo con gli occhi pieni di gioia, mi aveva colpito il fatto che uscisse di casa sempre elegantissimo, a differenza mia che terrorizzato dai bombardamenti, stanco, ero caduto praticamente in depressione e mi disinteressavo dell’aspetto fisico. Lui mi aspettava in macchina, con la giacca blu e la cravatta, sbarbato, pettinato, come se stesse ad un appuntamento importante. In realtà era un modo per esorcizzare l’orrore e il dolore, ma soprattutto per convincere sé stesso e la sua famiglia che la guerra non poteva fermare la vita e che all’appuntamento solenne con la morte si sarebbe presentato dignitosamente e ben vestito.

Chiudi il libro con un fiotto malinconico. Come se in Medio Oriente avessi trovato ciò che qui non c’è più: è così?

Sì, è proprio così. C’è una profonda malinconia ma credo che sia frutto della mia immaturità. Inizialmente era difficile tornare a casa, mi sentivo un estraneo, invece poi col tempo, ho iniziato ad apprezzare ciò che mi circondava, a relativizzare, a guardare il mondo con disincanto. In fondo come ho detto prima, sono uno stracittadino che si fa incantare dalle luci, un borghese che vive da borghese, un figlio della modernità che padroneggia tutti i suoi strumenti, vizi e virtù. Magari non ci salverà l’Islam come scrisse Michel Houellebecq in Sottomissione, di sicuro però lo faranno “le vecchie zie” di Leo Longanesi.

Riparti? Dove vorresti andare, di cosa vorresti scrivere?

L’ultimo viaggio importante è di qualche mese fa, ad un certo punto ho sentito il bisogno di fermarmi dopo quasi quattro anni di viaggi senza interruzioni che mi hanno consumato fisicamente e psicologicamente. Immaginatevi passare il tempo a fare file interminabili nelle ambasciate, alle dogane, negli uffici per conquistare un visto in Paesi dove non esiste turismo, o ottenere i permessi per accedere a zone a rischio, viaggiare da un posto all’altro, in macchina, per giornate intere, aspettare telefonate per ore, avere paura, stare lontani da casa, dagli affetti, dalle amicizie, per settimane, in luoghi pericolosi, a volte, senza telecomunicazioni. Tutto questo ti consuma, avevo la nausea e ho dovuto prendermi una pausa. Più volte in questi mesi ho rimesso in discussione questo lavoro, mi rendo conto però che si tratta di una vocazione che non riesco a controllare e infatti, ora, sento di nuovo il bisogno di ripartire. Tornerò a breve in Siria per terminare un lavoro molto importante ma non posso ancora parlarne, nel 2020 svelerò di che si tratta. Inshallah. In Siria ho dato tutto me stesso, l’ho girata in lungo e in largo, ci ho passato circa sei mesi complessivamente negli ultimi quattro anni, e questo sarà il mio ultimo lavoro giornalistico lì, anche perché la guerra volge al termine e quello che dovevo raccontare l’ho raccontato. Il mio obiettivo è andare in Yemen, un Paese blindato, dove è in corso una guerra che fa eco solo quando vengono colpiti gli impianti petroliferi sauditi e ritorna nella tomba del giornalismo occidentale quando a morire sono i civili per mano delle bombe sganciate dai sauditi. O ancora sogno di andare nel Pashtunistan, tra lAfghanistan e il Pakistan, a cavallo del Passo Khyber. Una terra abitata da secoli dal popolo pashtun, di etnia indoeuropea, ingiustamente associato nell’immaginario collettivo al terrorismo internazionale, e politicamente diviso nel 1893 dalla Linea Durand con lo scopo di impedire la formazione di uno Stato etnicamente coeso che potesse creare problemi all’imperialismo inglese in Asia. Ecco lì voglio viaggiare prossimamente, laddove i giornali ti dicono di non andare perché “inutile” o “pericoloso”.

Gruppo MAGOG