Paolo Giordano o del romanzo come bomba atomica
Libri
Linda Terziroli
Ho preso Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone (Ponte alle Grazie) rapita dal suo incipit: “Sono figlia di Lucia, bruna Mamma biologica, suicida nelle acque del Tevere quando io avevo otto mesi”. Brutale, fatale, illeggibile. Come fai a mettere sulla prima pagina quello che ti è successo? Mi domanda il mio amico, accanto a me, in libreria, quando mi vede, tra le mani, questo libro. Ma tu lo faresti? Non lo so.
Che cosa siamo disposti a fare per curare le nostre ferite? Ci vuole coraggio, gli rispondo. Ci vuole una certa temerarietà, non solo per buttarsi nel Tevere, ma anche per dire che a quella mamma si è sopravvissuti. Scriverlo, perché gli altri possano leggerlo e curarsi, a loro volta. Raccontare l’amore appassionato (e tormentato) per la madre adottiva. Una contadina di nome Lucia, di Campobasso, fugge con il suo amante a Milano e dà alla luce una figlia, Maria Grazia. Afferma che la bimba è figlia di suo marito. Ma lui la disconosce e denuncia la moglie per abbandono del tetto coniugale e concubinaggio.
I due amanti, tempo dopo, abbandonano la bimba su un prato di Villa Borghese a Roma e si gettano nel Tevere. La madre aveva scritto una lettera alla polizia: “Trovandomi in condizione disperate non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla comprensione di tutti, e io con il mio amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto, o indovinato o sbagliato”. Ma questo non è il romanzo, è un ritaglio di giornale offerto a pagina 84. Ci sono due articoli in tutto, un trafiletto del 10 luglio 1965, di «Paese Sera»: un’immagine della scrittrice bambina, che muove i suoi primi passi, sorretta dalle braccia di una donna sorridente, la madre adottiva. E l’altro, «Grand Hotel», data: 17 luglio 1965.
Leggo le prime righe, che riprendono il tragico titolo: “Ora non ha più nessuno, Maria Grazia, di otto mesi, che qui vediamo in braccio ad una vigilatrice dell’Istituto per l’Infanzia cui è stata affidata”. La foto, in bianco e nero, ritrae gli occhioni grandi e belli di una bambina che guarda in alto, verso il suo destino, in braccio a una donna austera, gli occhiali scuri e lo sguardo severo, la bocca serrata. Cosa cercavano di dire crudamente questi due articoli di giornale? Non ha più nessuno. Chi ha qualcuno, poi?
Il titolo del libro della Calandrone ci ricorda l’Epitaffio di Sicilo: “Finché vivi splendi”. In fondo, per tutta la nostra vita, scontiamo un’iscrizione funebre, la nostra Spoon River, trafitti da una totale solitudine. Maria Grazia Calandrone, dopo essere stata una bambina abbandonata e prima che scrittrice, ha trovato rifugio e nido in poesia: è poetessa. Si vede dalla sua prosa poetica, aerea e terrena. Narrativa e descrittiva, profondamente incisiva. Insomma, non ne usciamo salvi. Confortati, forse ogni tanto, sì.
Della madre suicida non è rimasto che l’incipit appunto, la frase scoccata all’inizio del volume. Diverso questo libro, assai diverso da Fai bei sogni (Longanesi) di Massimo Gramellini in cui affiorava, a metà libro, il trafiletto che trafigge: la madre che si toglie la vita. La madre che abbandona, la madre che salva. La Madre con la emme maiuscola, come Calandrone chiama la sua adottiva, lungo il corso del suo libro. Le madri che sono tornate al centro del mondo nel corso di questa pandemia, con il loro eroico silenzio, le loro frustrazioni, la loro totale incomprensione da parte della società. “Le ombre si accumulano in maniera massiva sotto i letti dei bambini non amati”. Perché “Ognuno gira nudo e solo sulla ruota siderale degli esposti”.
L’amore per la madre adottiva diventa amaro, poiché non corrisposto. L’idea di una madre che non è la mia nasce presto: la rivelazione, alla bimbetta, all’età di quattro anni. La madre che esce “malamente ferita dalla sua stessa rivelazione”, una mancanza. “Aveva inoculato nel proprio corpo un sentore di plastica, di soldo che non suona, di bambola di gomma. Mamma finta”. La verità storica è un “parto a parole”. Come un tessuto che veste, un sudario, le parole si sporcano come la vita. Che cosa sono le parole? “Le parole sono la parte più concreta della materia. La materia è uno scherzo ben riuscito.
Le parole non sono mai completamente pulite. Le parole non dimenticano la materia dalla quale evaporano, ma non ne hanno alcuna nostalgia”. Il dolore della mancanza, dell’abbandono, del disamore non è lenito dal tempo, dal passare dei giorni. “Provo un dolore spesso e senza rimedio. Il dolore del Tempo, perduto per sempre. Chi non lo conosce? In esso confluisce un’intelligenza inattesa, l’evidenza di quello che siamo, in questa camerata, casuale come il mondo: universi contigui, ciascuno col suo monolito di dolore e gioia, sconosciuto a se stesso”.
L’amore per Madre è così profondo e così struggente, come il naufrago che si aggrappa all’ultimo ciuffo d’erba della sua isola sperduta. “C’è una malinconia grande, nei suoi begli occhi neri, quando ricorda l’isola. Mamma, a che pensi? Mamma guarda fisso davanti, come se non vedesse. Mamma, dove sei? A volte Mamma vede solo quello che ha perduto. Allora, io l’abbraccio e le dico Mammina. Vuol dire Non lasciarmi qui sola”.
È destino dei genitori abbandonare i figli, così Maria Grazia si ritrova al capezzale di sua Madre. La madre non vede più la verità, come Edipo, cieca, accecata. “Madre che in ambulanza è solamente corpo che stringe il cuore, inoffensiva come un passeretto”. Al confine tra la vita e la morte, di sua Madre, compaiono, alla fine del romanzo, i parenti che la considerano, in quanto adottata, un’estranea.
Non siamo sempre estranei, nella nostra vita? “Levo gli spini dalla carne viva senza dolore. Sono cosciente di aspettare un figlio. Lo proteggo. Il corpo ammirevole di Madre resiste. Nessuno sa per quanto. Giorni? Ore? Non sappiamo mai niente. Siamo dentro un mistero. Peggio: siamo creature sconosciute che flottano affascinate nel mistero. Siamo questa paura, questa fatica e questo desiderio di comprendere e non lasciare nulla di intentato. Siamo la volontà di non rimpiangere e una terribile semplicità”.
Linda Terziroli