Le onde d’argento, alte e bellissime, protestano quando lei arriva sulla spiaggia selvaggia della Nuova Zelanda. Si sente la voce del vento, graffiata dai gabbiani. Uno dopo l’altro, si raccolgono i bauli, le sue cose racchiuse dentro casse di legno, sulla vasta spiaggia. I bagagli sparsi qua e là formano quasi una casa tratteggiata, un giaciglio poetico. Lei indossa scarpe delicate, gli uomini sono a piedi nudi. Molte mani maschili la afferrano, sollevano lei e la figlia Flora, sgualciscono i loro eleganti, aristocratici, abiti scuri, nel portarle a riva. È la seconda metà dell’Ottocento, Ada ha lasciato la Scozia con la figlioletta di nove anni, trascinando con sé il suo amore più grande, il pianoforte. “Non parlo da quando avevo sei anni, nessuno sa perché, nemmeno io. Mio padre dice che ho un talento oscuro. Mi ha dato in moglie ad un uomo che nemmeno conosco”. Siamo nel bel mezzo del capolavoro Lezioni di piano, 1992, regista un’attrice neozelandese, dallo sguardo rassicurante, che scrive e dirige un film dalla feroce bellezza, Jane Campion (e si porta, dall’altra parte del mondo, la Palma d’oro a Cannes, tre premi Oscar, attrice protagonista, Holly Hunter, non protagonista, Anna Paquin, sceneggiatura originale).
La bella, austera, Ada è muta, non parla, se non a gesti, con la lingua dei segni britannica, che la bambina padroneggia, come le note e le musiche che la madre esegue, al piano. Hanno raggiunto, attraversando l’oceano, questa selvaggia Nuova Zelanda, perché Ada è promessa a uno sconosciuto. Un uomo ignoto, in una terra straniera, il ricco e avaro Alistair Stewart (Sam Neill). Il pianoforte a coda ormeggiato sulla spiaggia, un’ancora gettata sulla riva, una zavorra stupenda, il bizzarro strascico nuziale. Ma è chiuso, imprigionato in una cassa di legno, agli occhi spogli, del marito di Ada, sembra un letto. È impossibile trascinarlo attraverso il fango, nel cuore della foresta, sulla via di casa. L’uomo si rifiuta, lei inizia a detestarlo. Il primo sguardo, tra i due sposi, non è certo d’amore. Stewart non intende pagare il trasporto del piano. Dall’alto, si vede il piano solo, sulla spiaggia, sembra una bara. La boscaglia è fitta, lacera gli abiti, c’è così tanto fango che è impensabile non sporcarsi. E ci sono i maori, a metà fra il disprezzo che incarnano e la loro dose di puro istinto, i loro volti tatuati. Ada e suo marito sono accanto nella fotografia di matrimonio, sotto una pioggia inarrestabile, ma non potrebbero essere più distanti. Lui tira fuori il pettine dal taschino, aggiusta la riga, sotto il cappello. Lei pensa al piano, ora il pianoforte sembra una panchina rivolta all’oceano, nella solitudine struggente.
Ada bussa alla porta di una casa in mezzo al bosco, è quella di un inglese analfabeta, George Baines (Harvey Keitel), uno che vive fra i maori, l’amico di Stewart, suo marito. Una specie di buon selvaggio, rude e mescolato con primitivi, di cui indossa anche il rituale tatuaggio verde. Dal piano si schiodano le assi. La bambina fa una ruota bianca, danza sulla spiaggia. Flora scolpisce un gigantesco cavalluccio marino, con la sabbia e le conchiglie, poco dopo, mamma e figlia, camminando sulla spiaggia, lasciano le impronte. La nostalgia del piano è feroce, Ada arriva persino ad incidere i tasti sul tavolo della cucina, li suona. Sembra una follia. È muta, il silenzio costringe ad una pazienza minuziosa. Il bel marito attende, con la pazienza di Dio (all’inizio del film, sentiamo: “Mio marito ha detto che, per lui, non è un problema, Dio ama le creature mute; perché io non dovrei? Gli auguro di avere la pazienza di Dio. Perché, a lungo andare, il silenzio stanca tutti”). Intrigato dalla musica, George propone al marito di Ada un baratto, il piano in cambio della terra di cui è avido. Nel baratto, qualcosa si vince, mentre si perde. Lei, in cambio, gli insegnerà a suonare. Quella strana, muta, creatura scozzese. Così iniziano le lezioni di piano. Ma più che una scuola, è un’educazione sentimentale, sensuale. Prima ancora, un gioco pericoloso. George non sfiora nemmeno i tasti, si innamora follemente di lei. Rapito dalla sua musica straordinaria. Il fatto è che, per conquistare la possibilità di suonare il piano una nota alla volta, lei dovrà cedere qualcosa. La gonna per tutti i tasti neri. La china di un gioco pericoloso.
Il gioco di musica e sguardi si frantuma in autentica passione, il barbaro inglese capisce il senso, intende regalarle il piano. Le sue mani, le sue dita sono sporche, tozze, ben poco seducenti – o forse troppo – al confronto con le mani affusolate di Ada che accarezza il piano, suonando. Le trecce di lei sono così sapientemente intrecciate da diventare una spirale di fascino, irresistibile. Come la gabbia che imprigiona la sua gonna. Che lui vuole sollevare, donandole una nuova nota. Per arrivare alla casa di lui, alla capanna di legno che custodisce e racchiude il piano, Ada è costretta ad attraversare il sentiero di fango, affonda i piedi nella terra umida, come in una metafora. L’amore non è che è un alzare le vesti, del resto, per infangarsi. I bianchi del piccolo paese neozelandese allestiscono una rappresentazione teatrale, l’ombra di un angelo colpisce una mano, per punire.
L’amore fra Ada e George, come tra gli amanti, presuppone una buona dose di solitudine; la piccola Flora si sente punta dalla gelosia. L’amour fou presuppone l’essere in due, azzera il passato, la figlia. Il presente, il marito di lei. Tanto lui, tradito senza essere mai stato amato, è intento a spaccare la legna. Tanti piccoli pezzi di legna spaccata non le scalderanno il cuore ostinato. Del resto, il marito non è nemmeno privo di fascino. Lei, invece, è intenta ad intrecciare saldamente le trecce alla figlia.
Gli angeli, nella rappresentazione teatrale, giocano e ballano nel fango. Si mette in scena una sorta di Barbablù che ha sgozzato le sue sei mogli. I maori presenti, simbolo di immediatezza ed eros, irrompono durante il teatrino. Non tutto va secondo i piani, nella vita amorosa. La piccola Flora, accompagnata da altrettanto piccoli maori, esplora il bosco come se fosse un libro di anatomia e bacia gli alberi. Ma il patrigno, il marito della mamma, la costringe a lavare il fusto degli alberi nudi, con l’acqua, il sapone e una spazzola. Fino a che punto si può lavare l’innocenza? Infine, il gioco sensuale, tra Ada e George, si ferma. “Vi restituisco il piano, è vostro. Il nostro accordo sta facendo di voi una sgualdrina, di me uno sciagurato”. Nel frattempo, il marito, grazie alla piccola, gelosa Flora, mangia la foglia. E, in fondo, reclama la sua piccola parte d’amore, senza finzione narrativa. Del resto, gli è dovuta. È lui il marito. E poi anche lui si è innamorato. L’amante per definizione, però, soffre di più, soffre sempre. L’amante: “Sono malato di desiderio. La mia mente si accanisce su di te e non posso pensare ad altro”. La strada che porta alla casa di George è immersa nel bosco e nel fango, i rami degli alberi sono nodosi, ricordano, disordinatamente, lo chignon della protagonista.
Il marito la desidera, cerca di afferrarla, nel fitto bosco, finisce con lo strapparle la gonna. Si strappa il tessuto, resta lo scheletro della gonna, sembra una gabbia la femminilità. Ada, stravagante e visionaria, riesce a suonare anche mentre dorme. Mentre la verità su chi siamo davvero – come spesso accade nella vita – gocciola, nitida, dalla bocca più cinica, e più maligna: “Lei non suona il piano come noi, è una strana creatura e la sua musica è strana, cambia secondo l’umore. Avere dei suoni lugubri dentro non dev’essere piacevole”. Insieme alla malia del piano, che diventa la voce di lei, c’è il suono della pioggia, insistente e allusivo. “Forse col tempo imparerai ad amarmi”, le dice, illudendosi, il marito (il compito dei mariti è, spesso, quello di illudersi, questo un copione). Ma lei incide una frase staccando un osso di legno dal pianoforte a coda: “Dear George you have my heart”. Se il supporto non fosse così poetico, sorrideremmo, forse, del candido messaggio. I messaggi – è inutile, succede spesso così nelle storie d’amore tormentate – finiscono tra le mani della persona sbagliata. Basta un errore nell’invio, un vizio nel canale e la bambina, le ali d’angelo indossate sulla schiena, recapitano la frase, avvolta, custodita da un fazzoletto ricamato, al marito tradito. Lui diventa Barbalù, come nella profezia: scende dalla collina con l’ascia in mano. Rovescia i suoi colpi sul piano e poi trascina Ada al ceppo – lui taglia sempre la legna per tutto il film, a suo modo, è virtuoso – e le taglia via un dito, l’indice. Anche se temiamo sacrifichi tutta la mano, sull’altare del tradimento: questa scena è molto più che gotica, è medievale. La pioggia non smette di cadere e non lava via le ferite. Sul volto della bambina, si incolla uno schizzo di sangue, che ricorda, quasi un omaggio, la lettera scarlatta dell’adultera. Ora anche il marito è pazzo d’amore e le ha tarpato un’ala. Lei è stata giustiziata, ma è ancora viva.
Segue, nel film, l’immagine di un paio di ali che vengono lavate sotto l’acqua corrente. Il marito fa recapitare, al vecchio amico, il dito avvolto dentro un lurido fazzoletto, lo minaccia di continuare a tagliarne altre, di dita (scimmiotta il gioco di seduzione tra gli amanti). È pietoso e privo di grazia. Di fronte a se stesso, il marito vede la sua anima sporca, vuole cancellare tutto, svegliarsi dal sogno che è diventato un incubo. In amore, non essere ricambiati è la vera crudeltà, di cui ci vogliamo vendicare. L’amore, a volte, non perdona. Ada e Flora partono, con George e il pianoforte. L’amore dopotutto trionfa, nella fantasia neozelandese. Il film si rigira sulla sua bobina. Sulla barca a remi che assomiglia ad un tatuaggio maori, il piano, vero protagonista, troneggia, legato dai forti cordami. Lei gli rivolge uno sguardo languido, poi chiede che venga gettato in mare. E infila un piede, senza volerlo ma spinta da un desiderio oscuro, nel viluppo della corda. Il suo corpo bellissimo finisce, di colpo, giù come un’ancora, tirato dallo stivaletto, legato alla corda con la caviglia. Nell’oceano, dentro l’acqua, legata al suo pianoforte, Ada è come sospesa. Come un palloncino, una mongolfiera, dalla sua bocca escono bolle d’aria, come parole. Poi la donna sceglie di slegarsi, risale a galla, riprende i sensi ribelli. “Di notte penso al mio pianoforte, nel profondo dell’oceano, e a volte penso anche a me, sospesa sopra di esso. Là sotto tutto è così fermo, silenzioso, che mi concilia il sonno. È una strana ninna nanna. Ma è così ed è mia. C’è un grande silenzio, dove non c’è mai stato suono. C’è un grande silenzio dove suono non può esserci, nella fredda tomba del profondo mare”. Il grande silenzio che abbiamo perduto, quando siamo venuti al mondo e abbiamo iniziato a parlare e ad amare. Dopo aver perduto, per sempre e immedicabilmente, quel profondo silenzio, in cui eravamo avvolti.