19 Ottobre 2018

“Fino alla stella irraggiungibile”: le poesie di Antonella Anedda parlano di astri, di morti e di migranti con Tacito in tasca, preparando un soggiorno all’alba

Non è con impotenza che il poeta batte sull’elmo della Storia, dando al rimbombo statura di verso, di poema. Anche oggi, che Occidente è uno sbadiglio occasionale, occasione di scorribande e di iene, e il giorno ci pare vasto come un secolo, così indecifrabile di ‘fatti’. Di Antonella Anedda (nella fotografia di Dino Ignani) c’è poco da dire, se non che le sue antiche raccolte – Residenze invernali, Notti di pace occidentale, Il catalogo della gioia – si sono incastonate nella lirica italiana a colpi di costola, usando le ossa – e un detto di prorompente arcaicità – come sciabole. Historiae – così s’istoria il titolo dell’ultima raccolta, pubblicata per Einaudi – di per sé è un atto ‘politico’, la calma ferina d’interpretare la Storia “rileggendo Tacito durante questa estate di massacri”, sgasando nel sardo, scavando negli storici latini per capire che l’uomo è la creatura che adorna di verbi e di proclami l’uccidere. Di mio, preferisco la Anedda irremovibile agli estremi, che impasta il viso dei vivi a quello degli andati, che ripercorre le stelle (“Orione il cacciatore che sorveglia la notte… il carro corre nell’aria”) per divinare la piccola tazza di futuro che abbiano in mano, questa pupilla del verrà. Eppure, la corazza lirica – che è una carezza più forte – con cui la Anedda riveste ‘il contemporaneo’ (“Oggi penso ai due dei tanti morti affogati/ a pochi metri da queste coste soleggiate/…Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo/ e cosa ne sarà del sangue dentro il sale”) mi fa ripetere ciò che ripeto e ripeto e ripeto come un pupazzo di nome Isaia: sui quotidiani, nei tiggì, nei salotti televisivi insipidi, fate spazio alla parola del poeta, che spazia parole di melma e di stella. Il poeta non sta sui troni né nei seggi: furoreggia una parola, in preparazione dell’alba. (d.b.)

***

libro aneddaSciami, fotoni

Gas che collidono, tempeste, scontro di comete,
in questo cielo curvo che ci appare in pace
nessuna eco, nessun solco d’aratro,
nessun tragitto di linfa
dalla radice del platano al suo nero,
solo uno stormire di foglie
fino alla stella irraggiungibile
dove il tuo respiro rallentava.
Alla fine dell’inverno, senza neve
– è solo un altro lutto – mi dicevo – inosservato
nel mondo che s’intreccia al gelo.
All’improvviso invece in un angolo del letto
è apparso il sole, scavava silenzioso una sua strada
verso un luogo dove s’irradia luce
e non esistono i pronomi.

*

Perlustrazione I

Entro con mia madre nella morte. Lei ha paura.
Cerco nella mia filosofia qualcosa che ci aiuti,
parlo della cicuta e degli stoici,
dico la solita frase che quando noi ci siamo, lei,
la morte, scompare, ma non funziona
anzi cresce dentro di me il terrore.
Aspetta, le dico mentre dorma e ora vado a guardare.
Perlustro la zona (sarà quella?)
solo per constatare che non c’è difesa.
che il suo spazio, quello che la fisica dicembre sia presente fin da quando nasciamo,
è sguarnito di ogni compassione
e il tempo è davvero il buco che divora.
Allora mi stendo contro di lei dentro il suo letto.
Aspetto come smette il suo odore mentre muore.

*

Artica

I

Vedo i letti di chi amo disporsi in lunghe file,
ogni letto un corpo e un nome.
Più tardi sistemerò la poesia, ne farò una casa
con i tetti a punta esatti per la neve. Ora bisogna uscire,
vivere per chi resta, scolpire
ogni giorno di nuovo la sua forma, lottare
per quel corpo che l’aria comunque disferà a folate.

II

Se avessi avuto più tempo là nel buio estivo
con l’edera che filtrava dalle grate
nella camera che chiamano ardente per i ceri
o il rogo che ci attende, o forse davvero per l’ardore
con cui chiediamo a chi ci lascia: resta,
le avrei detto cose semplici, quotidiane,
per l’ultima volta toccandole le mani.

III

Se l’avesse vista
se avesse visto la sua forma mortale
spalancare stanotte il frigorifero
e quasi entrare con il corpo
in quella navata di chiarore,
muta bevendo latte
come le anime il sangue
spettrale soprattutto a se stessa
assetata di bianco, abbacinata
dall’acciaio e dal ferro
bruciandosi le dita con il ghiaccio
avrebbe detto non è lei. Non è
quella che morendo ho lasciato
perché mi continuasse.

Antonella Anedda

(poesie tratte da Historiae, Einaudi, 2018)

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