“Bisogna vegliare. Bisogna pregare”. Nel Getsemani di Charles Péguy
Sacro
Livia Di Vona
Cito: “…corpo antico… niente unanime… fossa fetida di nero… accendere il sudario di una calce opaca… geometria innocente di un comando… vetri dimenticati… fuoco fanciullo… ghirigoro dell’elsa… anelito primevo… sgorgo guerriero… lama di una schiena abbagliante… vanità sonora di una dolcezza sussurrata… parola che dilania… torcia futura in un’ora rossa di pace… abisso domestico… forma delle ombre… portico soprannaturale… granaio di apparecchiato riposo… scampolo di tunica appena fiorita di sangue… alle tempie l’infula… membra beccheggianti degli astanti… mulino di braccia… il latrato strabico del fanciullo… torsione innaturale del collo… bocca dietro sillabe irresponsabili… aureola stampata sul muro… versa il suo olio la frusta volante… un tempo di coraggio nelle ossa… forsennati marciapiedi spazzati dal vento… l’esattezza della fronte appena corrugata… un’arte di tenebra… pillole oscene… corte di tufo… segno cieco della punta tinta… miele di un buio senza finestre… gemmate concrezione di niente… lastre picchiettate d’occhi… cuffia d’ombra… mucchio osceno di strumenti umani… sospeso agli uncini di un cielo senza padre… la morte che ti taglia a pezzi… abbranca la tunica diminuita dall’osso d’avorio della fronte… l’afosa fisica della vita per fare di esserci stati… vigore di candida folgore… morto sgorgo di luce… le unghie confitte nel vago nero delle cose… colossale silenzio del nostro sguardo… feto di vento… laccio della paura… scorre un aperto aggrovigliato… verso che preme… che ora incima il profumo della morte… cose sottratte alla fabbrica silenziosa dell’origine… sul velluto del niente… la strada è disperata… l’odiata abbondanza del corpo… sopra la grazia ammalata del damasco… onice d’unghia… la sovrabbondanza del mondo…”.
Chiedo scusa all’autore, Roberto Rossi Precerutti, di aver scompaginato così il suo sorprendente libro Fatti di Caravaggio (Aragno Editore), slegato e a frammenti (completato, adesso, da un dittico, un nuovo libro intitolato Verità irraggiungibile di Caravaggio (Neos Edizioni). Ma non è per ridurre, bensì per esaltare il metro infinito di quest’opera che nell’elencazione, nell’accumulo apparente, svela il suo carattere senza fine e sempre teso all’oltre, giacché dove c’è un elenco c’è un infinito che corre, verso il passato più remoto o verso l’estremo lembo del futuro, per poterli almeno immaginare, afferrandoli, caso mai in un sogno, una rivelazione, comunque già incarnati alla radice.
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E davvero si accarezza un sogno nelle pagine di Roberto Rossi Precerutti: di attendere che accada, lì sulla pagina, il nostro mistero, che è il mistero dell’altro che ci fa luce, che alza la lanterna per vederci chiaro finalmente, ma che è sempre sconfitto dalla nube. Quello che accade è il gesto del poeta che punta con la sua penna la realtà, più vera del sogno, più reale del reale, perché incarnata di esperienza, di un dio che ci desidera, che vuole che noi viviamo, nello strazio del vivere, cioè nell’esperienza sempre da riconfermare: se siamo noi che esistiamo o siamo il sogno di qualcuno. Perciò ci tocca tenere gli occhi bene aperti, quello che fece chiedere a Pessoa in punto di morte: dove sono i miei occhiali?
Il sottotitolo del volume reca scritto: “Il lavoro dell’ombra e altre piccole metafisiche di Michelangelo Merisi”. Perché si tratta proprio del vedere, e di una domanda conseguente allo sguardo che indaga, che cerca. Si tratta di vedere cosa accade veramente nei quadri di Caravaggio, in che cosa consistono i fatti, quali sono gli accadimenti, vale a dire che noi siamo fatti di Caravaggio, siamo creati da lui, che ci ha concepito in spirito drammatico, intenso, nonché spasimo, sangue, carne, poesia; il sogno di una poesia che dice il mondo liberandolo dal suo peso, mondo amato, tuttavia, accettato seriamente nella sua evidenza di Verità, di Bellezza. Nessuna strategia letteraria dunque, bensì abbandono, per dire una poesia feconda, che non cerca quello che già sa, ma che si sporge sul nuovo, sulla probabilità di una rivelazione ancora possibile sull’uomo, sulla natura, su noi stessi. Azzardo: la tesi dell’autore, o, meglio, l’intuizione, è che noi siamo fatti di Caravaggio, che ogni volta che guardiamo un suo quadro siamo nel cuore del dramma, che è il nostro destino di uomini, il destino dell’Occidente.
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È una scommessa quella di Roberto Rossi Precerutti, certo, fatta però in buona compagnia, la compagnia di Gongora, di Lautréamont, di Landolfi. Eppure il rischio resta, il rischio che il poeta corre, di essere il primo: guardare nel buio di Caravaggio, guardare dove lui ha guardato, per mettere in risalto la sua arte, per magnificare la verità della sua arte, la realtà. Nemmeno Roberto Longhi ha osato tanto, nemmeno lui si è spinto a tanto, nemmeno lui ha guardato così a fondo. Certo il suo mestiere era quello del critico, la sua perizia quella del filologo, e uno studioso ha il compito di fare chiarezza su un pittore già misterioso di suo, cupo e leggendario, e per Longhi occorreva separare la luce dall’oscurità perenne del fascino, della leggenda, che ha un che già di romantico, nonostante i tempi, quindi in anticipo sui suoi, così come il pittore anticipò persino la fotografia con la sua maniera realistica. Ed ecco un altro mistero di Caravaggio, che gli appartiene, riguarda il suo merito, il suo talento sconfinato, l’animo profondo che aveva, o che aveva avuto in sorte, di riuscire a guardare oltre, persino nel buio della realtà per dare rilievo alla luce, per rivelarla, ma con un giudizio, lì è la sua forza che spesso si trascura, soprattutto in tempi come i nostri, dove sembra che giudicare sia un limite, quando invece è proprio grazie al giudizio che possiamo intervenire, parlare, discutere, che possiamo arrivare a un confronto. La stessa crisi dell’insegnamento di oggi, la crisi che viviamo nella scuola, è dovuta proprio a questa mancanza di nerbo, o di senso: la parola insegnare ce lo dice, insegnare, indicare un segno, o il segno in cui l’oggetto, l’opera si rivela e, in ultima analisi, lasciare un segno, nel migliore dei casi, nei grandi ed eccezionali esempi, quando non siano i cattivi maestri a invadere i nostri giorni. Prova esemplare è stato il grande Longhi, maestro di Pasolini, Testori e di molti altri, sparsi nei vari campi della cultura, e dell’umanità! Nemmeno Longhi (mi ripeto), che pure ha indicato la sottesa e originale dimensione classica, o classicista, di Caravaggio, messa da parte in vario modo nel corso dei secoli, nemmeno lui (ci voleva un poeta come Roberto Rossi Precerutti), ha provato a guardare in quel buio recondito dei suoi quadri, in quegli anditi cupi, dove si addensa lo scuro, il vuoto, dove non si guarda con coraggio, in quanto sembra non esserci niente, o qualcosa che il pittore sembra non aver voluto farci vedere, che sta ai margini. Eppure esiste, occupa uno spazio che è anche cospicuo, ha un valore di suggestione straordinario.
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Ci vuole uno sguardo visionario per poter vedere, per dare forma all’ombra, all’indistinto (nel libro di Rossi Precerutti si prefigurano i brividi futuri dello spagnolo Goya), che l’arte di Caravaggio contiene e consente di dire al mondo letterario e artistico attuale. È la sovrabbondanza del mondo che ci viene incontro, la forza della realtà in cui siamo immersi, che rischia di sommergerci e di deflagrare contro di noi. Che fare?, guardare nel buio, il buio di questo momento, presi da questa crisi sanitaria, dalla continua emergenza. L’autore sceglie di guardare nel buio, vuol tenere gli occhi aperti davanti al buio più fitto, per scorgere la Verità, la Verità vera del conoscere, che ci spinge a interrogare, a chiedere, a implorare, noi con noi stessi, il nostro vivere, le cose che vanno così: “… il male che è quel che è”. Ma c’è dell’altro, altro ancora, intendo dire che c’è una polemica sussurrata nelle prose di Rossi Precerutti che dà dei punti ai nostri narratori, e che riguarda la prosa, e non solo, la poesia, il mondo dell’arte, gli uomini, il valore della scrittura e dello scrivere. Il discorso tende a dire radicalmente, non si piega, vuole andare contro la limpidezza di oggi, i toni pacati che non dicono niente, che rappresentano l’impronta editoriale di un mondo servile al mercato, che pretende dai narratori italiani un tono neutro, dove l’opposto si configura come espressione ideologica del già detto, già sentito, lagna e controlagna del già conosciuto, passato e ripassato e stramasticato e strarappresentato sulle nostre gazzette di partito, in televisione, su internet, e quindi innocuo, reso innocuo dal pensiero unico che ci vuole acritici, uomini che diventano merce. Leggo da Fatti di Caravaggio: “… solo pagine bianche risuonano di idilli rischiosi mentre levo gli occhi ciechi a questa luce assordante” (p.69). “Qui, finalmente, deporremo ogni stato ideale – solo il sussulto per una condizione più umana, sospesa, il non sapere assoluto seppellito nell’ombra” (p.68). “E non c’è una terra natale, la promessa di una tregua, fuori del cubiculo attraversato da un polline divino che si deposita sui muri immensi… tutto si ferma nella breve eternità dell’abiezione, prima che il canto dell’uccello esploda nella voracità della luce” (p.67).
Dunque: nel non sapere conosco, il non sapere che mi fa stare davanti alla pagina, non il preordinato, il programmato, che è emblema dell’oggi, vale a dire cibo precotto, consumo del letterario, del carino, del ci sta, mi convince, è geniale, mi riguarda. Sono giudizi che hanno un sapore pubblicitario. Occorre, invece, lasciarsi guidare dal senso, dal corpo che ne sa più di noi, dal corpo che scrive ad occhi chiusi, con l’unica guida della premura del dire, della forma che ci visita e preme in noi per essere detta, l’ultima parola, la sola che incide e dona.
Concludo riportando il bellissimo incipit di Fatti di Caravaggio: “Così, ritraendosi dai cerchi dell’anima, quest’ombra lascia indietro l’inerzia di detriti insignificanti, prepara un mondo sottile di rami spezzati e bacche di buio per propiziare la forma delle mani che agitano acque ctonie, come se la docile teoria degli oggetti quotidiani si perdesse in un silenzio musicale, gravido di una vita non ancora nata: il gioco a nascondere circonda quell’unico cesto luminoso, nell’ora tra cane e lupo, e il cielo non entra nella camera sfinita dall’attesa, o forse ha una grandezza d’orrore la costellazione artificiale del soffitto, fa sgocciolare i suoi filamenti resinosi lungo pareti oscure dove si apre la madreperla di nessuna conchiglia. Ma le cose sono come sono, e da sé variano: ora il supplichevole bisogno di prolungare il bene infantile dell’ascolto dispone la crudeltà dell’ospite inatteso, il suo gesto bianco intravisto dalla soglia di pietra”.
Vincenzo Gambardella
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Cavaliere di Grazia
Ostia di luce, la terra
è come un sacco bruciato,
una metallica lastra
che incide una punta o fora
inesorata sostanza
di parole irreparabili,
rosso che s’aggruma, acerra
per bruciare un po’ d’incenso
ai piedi del letto dove
dormo le mie molte morti,
questo sogno che redime
l’incertezza del principio.
Roberto Rossi Precerutti
*In copertina: Caravaggio, “Davide con la testa di Golia”, 1610, particolare