Il fatto è epocale: quest’anno, in una delle tracce della prima prova scritta dell’Esame di Stato, è stato menzionato il poeta irlandese W.B. Yeats. Ai 526.317studenti per l’anno scolastico 23/24 è stato proposto di svolgere per iscritto (sottoforma di Tipologia C) una riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche d’attualità; ed ecco, nel lungo brano tratto da un testo di Rita Levi-Montalcini, la neurologa ex-senatrice cita le «predizioni del grande poeta» Yeats per spiegare il proprio tentativo di conciliare nella vita due aspirazioni inconciliabili: «Perfection of the life, or of the work».
L’11,5% delle candidate e dei candidati ha scelto questo tema che i docenti componenti le 14.072 commissioni d’esame hanno corretto e valutato; la domanda più ammaliante sarebbe da porre tra qualche tempo: che cosa resta, subliminalmente almeno, del fugace “contatto di massa” di una generazione giovane con le parole di un vecchio poeta?
Una simpatica coincidenza ha voluto che proprio negli stessi giorni uscisse in libreria il volume William Butler Yeats. Omero in Irlanda (Edizioni Ares, 2024), nel quale l’autrice Rosita Copioli distilla il proprio quarantennale viaggio “in” Yeats dentro pagine di pregevole gusto tra autobiografia, erudizione, saggistica e nobile aneddotica: compaiono come interlocutori diretti il regista Fellini, il critico Anceschi, gli scrittori Manganelli, Citati, Kathleen Raine, sino ad Anne, la figlia di Yeats incontrata a Sligo in Irlanda nel settembre del 1988.
La Copioli è, senza dubbio, la massima yeatsologa in Italia. E caso vuole che questo testo sia stato finito di stampare in perfetta contemporanea con l’atto compiuto da migliaia di studenti e studentesse che, terminata la stesura in bella del proprio compito, “consegnavano” la prova su carta, ai commissari. Due sostanze, quando vengono a contatto anche senza intenzione, si modificano l’un l’altra: ne deriva una quintessenza, depositata invisibilmente da qualche parte; nel nostro caso, sul fondo dell’inconscio collettivo dei giovani adulti che hanno dovuto meditare sulle parole di Levi-Montalcini & Yeats anche solo per poche ore, per completare un elaborato d’esame. Come fermenteranno le parole di un lirico che, purtroppo, nei programmi liceali italiani trova poco o nullo spazio? Si può tracciare la storia virtuale di un albero che non è mai cresciuto? Potrebbe essere un quesito dagli echi yeatsiani.
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Torniamo indietro di decenni e scendiamo nel buio soffocante di un faldone contenente vecchie lettere, corrispondenza tra scrittori ai tempi in cui vergare a mano delle parole su un foglio era un gesto che poteva cambiare le cose.
In una lettera indirizzata al poeta Rodolfo Quadrelli e datata 16.2.1965, lo studioso Elémire Zolla scriveva:
«Se ama Eliot dovrebbe altresì amare Yeats. Conosce The Vision? Legga anche l’epistolario ed i racconti. Mi faccia sapere se le letture le hanno giovato».
Poche righe sopra, le domande erano formulate in modo ancor più acuminato: «Ha letto la prefazione a I Mistici (ed.Garzanti)? Storia del fantasticare (ed.Bompiani)? Senza questa due cose non può sapere nulla di me».
Questa digressione è necessaria: primo, perché le domande zolliane sono oggi rivolte a una generazione intera, quella che potrebbe trovare nell’opera dell’autore di Eclissi dell’intellettuale un orientamento per la “cultura italiana” nel frangente della grande trasformazione del XXI secolo… Secondo, perché la Copioli, nel suo libro dedica a Elémire Zolla più di otto pagine e altri rimandi sparsi: cosa non casuale, credo. Dato che ammette: «Ero così felice di quell’incontro […] Avevo sempre letto Zolla […] forse per la sua figura rassicurante, e per me risolutiva» (pp. 114-116, passim). Al punto da trovare in lui addirittura un archetipo onirico, sognandolo nelle forme di una controfigura animale, una tigre, una tigre immane e spaventosa con cui somatizzare la “paura del crollo” insita nella natura di una contingente condizione esistenziale e, però, tenendo sempre ferma la realtà dell’estasi: scrive l’autrice mentre rievoca il sogno come mezzo di contatto, scoprire che
«per lui [l’estasi] significava proprio il senso totale, l’uscire dai sensi: l’andare oltre le passioni, oltrepassarle, non intensificarle».
E nell’allusione alla Bestia, intravedere una chiave di lettura della poesia tra le più enigmatiche di Yeats, intitolata The Second Coming, scritta nel 1921. Qui il viaggio “in” Yeats diventa infine rivelatore, perché i due studiosi, salendo da rami diversi, poterono arrivare al vertice alla medesima maniera: affermare cioè che Yeats
«aveva imparato che le tortuosità del pensiero portavano aldilà dell’esperienza quotidiana […] aveva scoperto ciò che arditamente definiva “il volto che aveva prima che il mondo fosse fatto”».
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Proprio per restare fedeli al tracciato trasparente dell’estasi, dobbiamo d’ora in poi separarci dal libro in questione (ma non dalla sua rotta, che indirizza “Omero in Irlanda”…) e seguire le diramazioni dell’altro albero yeatsiano, cresciuto con rigoglio nell’area della musica colta e popolare di fine Novecento.
Cronaca italiana di metà Anni Ottanta. Forse qualcuno ancora ricorda l’entità dell’impatto estetico, all’uscita dell’album Branduardi canta Yeats, nel 1986: il poeta forniva al cantautore delle immancabili occasioni per comporre brani nei quali l’arpeggio delle armonie squadernasse davanti a una società distratta e sazia la fatalità spiazzante che viene sempre quando si guarda all’improvviso il proprio destino, come nella canzone “Un aviatore irlandese prevede la sua morte”. L’ascolto suscita una spinta a piangere ed esultare, al contempo.
Il caso vuole che due anni dopo, come ultimo brano di un disco che fece epoca nell’ambito della musica rock-folk immediatamente precedente alla fioritura dello stile celtico, di nuovo una lirica di Yeats diventasse una sognante canzone: era The Stolen Child suonata nella versione di The Waterboysnella raccolta dal titolo Fisherman’s Blues, con la voce di Thomas Mc Keown a recitare i versi sull’orlo del silenzio, del pianoforte, del fiddle, con accento gaelico, quel ritornello…
Come away, O human child, to the waters and the wild
with a faery, hand in hand,
for he world’s more full of weeping, than you can understand.
E non finisce qui, perché gli interpreti di Yeats, nel mondo del pop-rock britannico furono molti: l’antologia dal titolo straziante Now And In Time To Be (1997) raccoglie Shane MacGowan assieme a Richard Harris, Van Morrison accanto a The Cranberries. Il momento apicale arrivò nel 2010-’11 quando ancora una volta The Waterboys, diretti da un Mike Scott poetante, misero in scena all’Abbey Theatre di Dublino un’opera-album: An Appointment With Mr.Yeats, che per ora è l’ultimo capitolo del crepuscolare intreccio tra il poeta di Sligo e i musicisti del Novecento; basterebbe aggiungere che, nell’ambito della musica colta, si erano cimentati Scriabin ed Elgar, Philip Glass e Carla Bruni, mentre nel pop, Jimi Hendrix e Loreena McKennit.
Trovando nei versi del poeta Premio Nobel 1923 gli echi di una tinta indefinibile, grigio vivido, l’ispirazione dei compositori è dunque pronta per ogni sensazione profonda, delicata, furiosa, con gli occhi puntati freddamente sulla sagoma del Ben Bulben, il monte, la morte; come è scritto in The White Birds (1893), chi canta con Yeats riceve in dono «a sadness that may not die».
Andrea G. Sciffo
*In copertina: W.B. Yeats in un disegno di John Singer Sargent, 1908