Alla Venaria Reale, una mostra su “Blake e la sua epoca”.Nella reggia voluta da Carlo Emanuele II di Savoia, le opere dell’eresiarca della letteratura anglofona. È un paradosso che le grida di Blake siano inscatolate in questo regale baldacchino. Fu Carlo Emanuele II, tra l’altro, a dare inizio alle persecuzioni sistematiche dei Valdesi, schiacciati nel Pellice: della loro causa s’incaricò Oliver Cromwell, Lord protettore del regno britannico, il fustigamonarchi. Le opere di Blake emanano, allo stesso tempo, il giglio del candore e un sentore di persecuzione.
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Le finestre della Reggia sono opacizzate: sembra di essere in Siberia. A tracollo sul miracolo: le montagne, avide di neve, benedicono i giardini; il sole Sansone passa al setaccio la luce, mai così viscida.
In una sala, in primo piano, The Destruction of the Temple di Samuel Colman, didascalico pittore inglese dei primi dell’Ottocento. Tra colonne patriarca e atmosfera gotica, in fondo, la Croce, che plana, spezzata, sulle braci. Il quadro occupa una parete; la casa editrice Adelphi lo ha scelto per decorare Sulla bilancia di Giobbe, il libro di Lev Šestov che continua a sbrindellare le mie notti. Un segno. L’opera proviene dalle Tate, come le altre in mostra.
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Non ho mai visto Blake dal vivo. Tra le opere più note in mostra: The Ghost of a Flea. L’opera, una tempera su legno, è minuscola (21 centimetri per 16); la pulce, in verità, è un mostro di inquietante bellezza, che sfodera la lingua da crotalo, la cresta sul dorso e si specchia in un secchio. Le stelle sembrano garrire e porre il capo in fuori, infanti – ti viene da cullarle. Blake non raffigura l’invisibile, la realtà spirituale, fantasmatica – va al di là di quella: squarcia tutti i veli. Ciò che resta: un mostro, ancillare alla falena, un grido. Le opere, qui, gridano, spaccano le finestre.
William Blake, Satan in his Original Glory, 1805 ca.
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Così scrive Blake nelle Annotazioni agli aforismi di Lavater sull’uomo:
“Togli a una rosa il suo rossore, a un giglio il suo candore, a un diamante la sua durezza, a una spugna la sua morbidezza, a una quercia la sua altezza, a una margherita la sua semplicità & rettifica ogni cosa di Natura come fanno i Filosofi & allora ritorneremo al Caos & Dio sarà costretto a essere Eccentrico quando Crea, Oh felice Filosofo”.
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Tra le opere più note: The Night of Enitharmon’s Joy. Nella mitologia blakeiana, Enitharmon è associata alla luna, “è la Bellezza spirituale” e “l’ispirazione”; nel quadro, la donna è seduta con le ginocchia al petto, una mano sul libro; intorno a lei, il pipistrello, il gufo, il bianco cavallo che bruca; figure di muscolari donne, seminascoste, alle sue spalle. “Enitharmon dormì/ Mille ottocento anni. L’uomo era un sogno”, scrive Blake in Europe, a Prophecy. A lei si rivolge “l’Innominata Femmina dell’Ombra”:
“Divoratori e divorati, per monti oscuri e deserti vagando, In foreste di Morte Eterna, urlando negli alberi cavi. Ah, madre Enitharmon! Non modellare in solida forma questa progenie di fuochi.
Genero dal mio ventre fecondo miriadi di fiamme, E tu con la tua impronta le modelli; allora ovunque si fuggono, E mi lasciano vuota come morte. Ah! In tenebroso dolore m’annego, e in gioia visionaria”.
Secondo Roberto Sanesi, Enitharmon è “forse anagramma di anerithmon (senza nome), ma è anche possibile una derivazione da enarithmios (numerata) o da anàrithmos (innumerevole), in quanto base della struttura misurabile del reale”. Dall’innominata procedono gli innumerevoli; un nome-seminagione.
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Insieme a Friedrich Hölderlin, Blake s’incarica di un’era – sembra scardinare i secoli da tutto ciò che erano prima. Blake è un terrorista dell’immaginario. Hölderlin incastona Dioniso in Cristo, i suoi capimastri sono l’Apocalisse e le odi di Pindaro; Blake proviene dal profetismo, mescola Isaia a Beowulf, Ezechiele al ciclo bretone. Da qui la diversità dei registi: Hölderlin va per folgorazioni, è un cantore degli Elisi; Blake procede per mitologemi, partenogenesi della legge, raffina gnosi infernali. Da qui, la pronuncia d’annuncio di Hölderlin, consustanziale all’aquila, e il sibilo e l’urlo di Blake, gemello del gufo, del vampiro, del predatore notturno. Per entrambi, è ovvia l’incomprensione, il digradare in follia, la degradazione ordita dal proprio tempo. L’opera di entrambi, in effetti, pur passata al vaglio di esegeti al diamante, è ancora lì, intatta, ancora da compiere.
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“Alla razionalità illuminista che si regola sull’astrazione, sulla quantificazione e sul controllo, Blake contrappone l’illuminismo della visione e dell’immaginazione”.
Stefano Zecchi, Nelle foreste della notte (in: W. Blake, Opere, Guanda, 1984)
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Vengo presto, sono il primo a entrare, i laghi del giardino reale vegetano ancora nel ghiaccio. Qualcuno cacciava il cervo, sbilanciato da bardature di brina, in questi spazi. Chissà cosa sogna il cervo. L’azzurro è implacabile, ha il fucile a tracolla. Voglio vedere le opere di Blake senza contorno umano, senza chiacchiere che si sbriciolano. Una delle più belle: The Body of Abel Found by Adam and Eve. Caino fiammeggia, inseguito dal sole, con atti da fragorosa danza – il suo urlo precede Munch, assorda ancora. Ai suoi piedi, uno scavo nero, la sepoltura del fratello – non avrà riposo di morte, Caino; fratricidio come oscena immortalità.
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Che grave errore scorporare le opere pittoriche di Blake da quelle poetiche, consustanziali. Blake ha insegnato che la parola ha da debordare, ha da farsi altro – deve mettere le zampe. La mostra aliena Blake dai suoi versi; per guardarla, bisogna portarsi appresso un libro. Ho con me le versioni di Dario Villa; sfoglio Vala:
“Com’è che abbiamo attraversato i fuochi & tuttavia non siamo consumati? Com’è che ogni cosa è mutata, come nei tempi antichi?”
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Blake è un poeta del fuoco, i suoi versi provengono da una fornace; Hölderlin è poeta-viandante, i suoi versi vengono dall’aria – sa il fischio, la levità, un enunciato d’ascesi.
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Blake invita a indagare i paria al ‘canone’, i poeti marginali: Lorenzo Calogero, Ivano Fermini, Dario Villa. Gli altri, restino arroccati nella metropoli lirica, a scambiarsi onori e a erigere cattedrali – ci sono poeti protesi verso il nessundove, poeti-pionieri, allocati nel finisterre, esuli agli esultanti, reprobi al vocabolo. Dunque, in infermità, bellissimi.
William Blake, The Night of Enitharmon’s Joy, 1795
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Blake è artista che adotta adepti – della palude di applausi non sa che farsi. In mostra ci sono alcune opere degli “Ancients”, un gruppo di artisti – Samuel Palmer, George Richmond, Edward Calvert – addestrati all’estro di Blake. Riunitisi in bortherhood intorno al 1824, facevano venerabile visita a Blake e si riunivano tra loro in campagna. Disprezzavano l’accademia, idolatravano l’antichità – laminata in leggenda –, vestivano con improbabili cappotti, ordinatamente disordinati; si facevano crescere selvosi capelli lunghi. Il loro impatto sull’arte dell’epoca è pressoché nullo – dopo un decennio di baldanza, gli “Ancients” rientrarono, in modo più o meno diretto, nei ranghi. Il fallimento era connaturato al loro estro; criticavano il “progresso”, ambivano a una vita tra i campi. L’opzione estetica forgiava in loro – come in tutte le future ‘confraternite’ – coriacei attributi etici: succubi di edeniche utopie, hanno offerto il cranio alla Storia. Blake, in fondo, non voleva discepoli – troppo duro il suo dire.
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Alle spalle di Orbassano, alla periferia di Torino, scorre il Sangone. È facile dire che questi luoghi annientano lo spirito; ma un fiume scorre, e il tramonto si sfracella nei suoi anfratti. Le pietre coagulano quel sangue in muscosi spettri. Per accorgersi del Sangone bisogna andare oltre il cimitero e oltre i sentieri dove sgambano cani e umani. Bisogna uscire dalle vie messe in dottrina, messe a coltivo – a questo invita Blake. Uscire dal seminato, se preferite.
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Siamo tra Giove e il Monviso, penso, viviamo tra colossi – il nostro è un camminare d’elitra.