Joseph Grand o della ricerca della perfezione. Sul più affascinante personaggio de “La peste”
Letterature
Daniele Moglia
George Barker ha fatto tutto troppo. Ha avuto sedici figli – una manciata dei quali, scrittori –, un paio di mogli, diverse relazioni extraconiugali – la più nota, con la scrittrice Elizabeth Smart – e troppi libri in bibliografia. Riconosciuto, giovanissimo, da William B. Yeats, ammirato da Thomas S. Eliot – che pubblica i suoi Poems per la Faber, nel 1935: Barker compiva 22 anni –, George Barker è l’eterna promessa della poesia inglese, un poeta che vive scrivendo, inscrivendosi in una leggenda di sconfitte, da mirabile irregolare. Si premurò, George Barker, di non adempiere ad alcuna promessa: rigettava le museruole, divorava gli idoli, tradusse l’insegnamento paolino – farsi ‘stolti per Dio’, ‘folli di Dio’ – in una pratica poetica. Per un po’ insegnò a Tokyo, per un po’ vagò negli States – dove abitava la Smart –, preferì perdersi nel Norfolk. Lapidaria, la sua tomba ci ricorda il carattere di Barker: No Compromise; il suo biografo, Robert Fraser, lo ha chiamato The Chameleon Poet. Amava bere e fare l’amore.
Poeta inarginabile, sfrontato, deliberatamente delirante, di sprezzante audacia, George Barker si legge poco perfino in patria. La Faber ha raccolto, tempo fa, i Collected (1987) e i Selected Poems (1995); nel 2004 l’ultima moglie, la scrittrice Elspeth Barker, ha antologizzato per Greville Press i suoi Poems.
Quando Ezra Pound fu obbligato al St. Elizabeths di Washington D.C., George Barker fu uno dei pochi a protestare. Non era stupito. Sapeva che il poeta o è supino alla società, da essa schiavizzato, mero pasto civico, frugale frumento, didattica latrina, oppure è un nemico pubblico. Nessuna conciliazione può esistere tra il poeta e la società: la società esiste purché il poeta ne sia scacciato, umiliato, frenato, inibito, semmai marmorizzato in un ruolo, in uno schema, entro uno stuolo di premi. La società vuole stregare il poeta, renderlo impotenti a suon di sorrisi: tanto, che cosa conta? Vuole la fama? Diamogliela; a patto che il poeta raffini il canto – di per sé estraneo alle convenzioni, perfino linguistiche: ogni forma di dominio, di coercizione, di convenzione passa per la convenzionalità del linguaggio, dal disprezzo del suo lignaggio – in ode, in petulante patto, in peto. Del poeta non resti che la sua grottesca imitazione: il buffone di corte o il cortigiano-consigliere; l’intellettuale, dunque, il didatta. Piuttosto, che scriva un romanzo.
Nel 1948 George Barker riassume le sue convinzioni, focalizzandosi sul ‘caso Pound’, in un testo, Poet as Pariah (raccolto in: Essays, 1970), qui tradotto per la prima volta in Italia. George Barker non scelse, come certi ipocriti o i rari contemplativi, lo stemma della marginalità fine a se stessa: dai margini – come gli allucinati profeti biblici – intraprese la lotta. Naturalmente, scelsero di onorarlo con la stola dell’oblio – naturalmente, è quando credi che il poeta, l’incredibile idiota, sia inebetito e assolto che la città s’incendia. Ogni lirica è piromane, e del sole si spartiscono le spoglie.
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Il Poeta come Paria
C’è una risposta tremendamente seria al declino della scrittura sperimentale dei giovani poeti di oggi: non possono scrivere come vogliono ciò che vogliono e, allo stesso tempo, procacciarsi da mangiare. Ciò, sia chiaro, non è dovuto a un qualche difetto congenito di destrezza da parte loro. È già per lo più impossibile bere e scrivere come vogliono: la birra, da tempo, non è più la stessa birra.
Questo stato di cose determina una seria minaccia ai tre principi su cui si basa la poesia. Il poeta, diceva John Milton, ha bisogno di tre cose per continuare ad essere poeta: semplicità, sensibilità, passione. Li ho vergati nel mio dizionario insieme ad altre due: alcol e amore. Con pochi scellini è ancora possibile acquistare un dizionario; una volta che l’hai comprato, non avrai voglia di impegnarlo. Il problema è che il prezzo dell’alcol e dell’amore, in un mondo dominato da Americani e Odio, è salito in proporzione al costo della vita. Il costo della vita, per altro, non si riduce a mera economia. Dobbiamo considerare anche il costo dello spirito, quando è dissipato in azioni vili o vergognose. Non tutti i poeti sono come Robert Graves, che con una mano scrive un romanzo modesto ma proficuo e con l’altra una lirica squisita.
Ho sentito dire che alcuni poeti trovano lavoro presso il British Council, la British Broadcasting Corporation, le British Railways. Non dimentico ciò che diceva a proposito Rainer Maria Rilke: un lavoro, per il poeta, è morte senza dignità di morte. Non si parla mai abbastanza, intendo, della possibilità di essere poeta, cioè di scrivere poesie come di una occupazione a tempo pieno. Una certa quantità di letture deve essere svolta, una certa porzione di scrittura composta, una dose di vita deve essere vissuta. Anche una quota di amore è necessaria, se vale la pena.
Essere poeta è un lavoro a tempo pieno come fare la vergine con la lampada – è una veglia [ci si riferisce alla parabola evangelica delle “dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo” in Mt 25, 1 ss., ndt]. Il poeta non sarà perdonato se, quando l’angelo lo chiama, è impegnato a svolgere mansioni per il British Council piuttosto che coltivare la propria isteria nel proprio giardino privato.
Questo non significa, in modo categorico, che un uomo non possa scrivere poesia e svolgere, al contempo, un lavoro: uno o due poeti ambidestri esistono. Credo che il Signor Thomas S. Eliot lavorasse in banca, un tempo, e che Gerard Manley Hopkins fosse affiliato alla Compagnia di Gesù. Tra questi due uomini e la loro professione c’era una sottile sintonia. Le proprietà degli scritti di Eliot: apparentemente rispettabili e bene educati, nascondono una spietatezza e una testardaggine inconsuete; l’autore di After Strange Gods non potrebbe che concordare. Scrivo da cattolico romano quando dico che, a mio avviso, la poesia e la poetica di Gerard Manley Hopkins sono debitrici, in egual misura, alla Chiesa e alla Musa. Il suo ruolo nella Compagnia di Gesù non era più errato del tizio con il mal di denti sulla poltrona del dentista.
Tuttavia, la maggior parte dei poeti non trova un posto soddisfacente nella società, che li mette ai margini. Eppure, anche i poeti sono esseri umani. Credo che sarebbe stato possibile tastare il polso di Baudelaire: ben più azzardato trovargli un lavoro sopportabile, accolto con piena soddisfazione. Me lo immagino come una sorta di truffatore spirituale, uno scommettitore celeste, non certo nelle vesti di un dirigente del Consiglio francese oppure del segretario di un istituto per l’arte contemporanea. Il poeta-prototipo, in questo senso, è una spia e il suo nome è Christopher Marlowe.
La vita, l’ignominia, la morte di Francis Thompson; la vita, l’ignominia, la morte di Christopher Smart; la vita, l’ignominia, la morte di Edgar Allan Poe – e tanti altri – sono di fatto la formula più prossima al comune destino di un poeta, rispetto alla nobile elezione di Tennyson, alla promozione di X, Y, Z presso il Poetry Panel di una somma istituzione britannica.
Insomma: il rapporto tra il poeta e la società è di ineluttabile inimicizia. In questo rapporto di inimicizia, di lotta, il poeta è stato spesso sconfitto dalla società.
Il poeta è il vero nemico della società. Perché il poeta dovrebbe dunque attendersi dalla società altro che insulto e ignominia? È la vecchia grana platonica, ma la risposta è infinitamente più semplice di quanto pretenda il paradosso. Proprio come incoraggia lo scienziato, sotto la finzione della curiosità intellettuale, a distruggere tutto, la società dovrebbe, propriamente parlando, incoraggiare il poeta a mostrarsi, a mostrarla, dacché senza il poeta la società non esiste. Ma la società non desidera che qualcuno sveli la sua verità: preferisce, palesemente, le lusinghe del cinema alle poche, radicali verità del poeta. La poesia è solo una delle tante cose che accadono a una persona: rimanda ai brufoli dell’adolescenza, ai primi flirt. È qui, come l’altra faccia della luna, per restare, anche se, delusa e indignata, ha voltato la faccia dall’altra parte.
L’inimicizia tra il poeta e la società non si placherà mai, nonostante alcuni poeti si siano convertiti al bene comune tramite i soliti doni: titoli, nomine, ruoli, mogli ricche, popolarità, medaglie monarchiche. Non si placherà mai perché il giorno in cui il poeta si arrende alla società, cessa, semplicemente, di essere poeta. Questo era chiaro a Platone, come ad Arthur Rimbaud e a William Wordsworth. Nonostante il suo disperato sforzo di conformarsi, nella misura in cui è davvero poeta, il poeta è destinato a rimanere un paria, un capro espiatorio, un criminale, godendo dell’irriconoscenza civica.
Non è un caso che diversi poeti abbiano fatto una fine triste o violenta: sopraffatti, forse inconsapevolmente, dal senso di colpa per il fatto di opporsi all’ordine costituito e al sistema dominante, il poeta ricorre a ogni genere di stupefacente, alcol, sesso, droga, qualunque cosa in grado di disintegrarlo.
Credo che Ezra Pound sia oggi il più grande poeta vivente. Bene: dov’è adesso Ezra Pound? In un manicomio criminale. Perché? Perché ha avuto le stesse idee di migliaia di americani. Non è stato rinchiuso perché è un poeta grande e famoso che ha preso una cantonata – per quanto sia grande, dubito che un americano su cento abbia mai sentito parlare di lui –: è stato rinchiuso perché è un poeta che ha osato dire quello che pensa. Se l’intera nazione tedesca può essere sottoposta a un processo di denazificazione, non si capisce perché Pound, privato delle sue camice verdi e nere, dopo un buon bagno caldo e una generica ramanzina, non possa essere liberato. Non lo liberano perché è un poeta. Gli Stati Uniti non libereranno Ezra Pound dal manicomio, hanno bisogno di recluderlo: come l’apre regina non può consentire al fuco che l’ha fecondata di sopravvivere.
1948
George Barker