“Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre”. La Terra Santa di Alda Merini
Poesia
Marilena Garis e Riccardo Peratoner
L’inizio fu spiazzante. “Non ho mai insegnato in vita mia, mai ho pensato di insegnare”: così, a posteriori, Paul Valéry ricorda il suo ‘ingaggio’ presso il Collège de France, altissima istituzione accademica francese, fondata da Francesco I nel 1530. Valéry vi insegnò, ‘forzatamente’, diciamo così, dal 1937 alla morte, accaduta nel ’45: le sue lezioni pare fossero leggendarie, “hanno assunto la dimensione di un mito nella storia della critica letteraria”. In contrasto con ogni ‘storicismo’, contrario alla bieca ipotesi di una ‘storia della letteratura’ fatta per categorie, didascalie, statistiche, sfilza di nomi, Valéry costruì i suoi corsi come “un vero e proprio laboratorio di pensiero, un percorso sperimentale che contiene i germi di una psicologia della creazione, una sociologia dell’arte, attraversando la filosofia del linguaggio e le neuroscienze”.
Più che agli esiti della lingua – poetici, letterari etc. – Valéry era interessato a sondare le segrete del linguaggio. I titoli generici affibbiati, anno per anno, ai suoi corsi, danno il senso di una offensiva dell’anomalo: “la sensibilità”; “l’azione”; “le riserve intellettuali dell’Europa”; “il linguaggio interiore”; “la fiducia nell’universo sociale”; “pragmatica generale del linguaggio”… I suoi Cours de poétique, finora inediti, sono pubblicati da Gallimard, per la cura di William Marx, in due volumi: Le corps et l’esprit (1937-1940) e Le langage, la societé, l’histoire (1940-1945). Chi ama Valéry riconoscerà, nei dattiloscritti delle lezioni, temi, ricorrenze, assonanze, con l’immane repertorio dei Cahiers, lavoro d’abisso ‘leonardesco’, di cui Adelphi ha tradotto cinque volumi. Ad esempio, rispetto ai legami tra sonno e veglia, trattati nei corsi universitari – ne abbiamo tradotti alcuni passi – così scrive Valéry nei quaderni:
“Nella veglia ci sono molte cose che so e sebbene non le pensi in modo esplicito, esse non tralasciano di fare da ostacolo a una massa di possibilità di immaginare le quali vengono per così dire uccise in germe… Quello che io so implicitamente è dello stesso ordine di ciò che sono. Io non so ciò che sono – ma piuttosto sono io ciò che so… Ciò che so esplicitamente viene rischiarato soltanto dal bisogno”.
Una targa digitale ricorda, ancora oggi, che la cattedra di “Poétique” fu ideata dal Collège de France appositamente per Valéry. Non fu facile ottenerla. Benché ricco di gloria, il poeta era povero in canna – o quasi. Dopo la morte, nel 1922, di Édouard Lebey, guida dell’agenzia di stampa e pubblicità Havas, di cui era segretario particolare, Valéry si vota alla letteratura. I problemi sono vari ed enormi: tre figli da mantenere, uno stile di vita altoborghese da conservare, nessuna eredità o famiglia altolocata all’orizzonte. “Valéry si trova disoccupato nel momento in cui gli giunge il pieno riconoscimento letterario: un poeta, pur di successo, non può trarre dal proprio lavoro un reddito analogo a quello del romanziere o dell’autore per il teatro. Il poeta fu costretto, così, a tenere lezioni a pagamento, a sfruttare il mercato dell’editoria di lusso” (William Marx). Collezionò sporadici mecenati, nel 1933 fu nominato come amministratore del “Centre universitaire méditerranéen” di Nizza. Non bastava. Quando, nel 1936, il medievista Joseph Bédier gli suggerì di fare il professore al Collège de France, Valéry intravide, come dire, la via per uno stipendio sicuro.
Nella prestigiosa accademia si erano liberate sette cattedre, tra cui quella dello storico della letteratura Abel Lefranc, dimesso per raggiunti limiti di età. Valéry avanzò – come di rito – la sua proposta di studi in un breve pamphlet, De l’enseignement de la poétique au Collège de France. La candidatura di Valéry infastidì diversi accademici: il poeta non proveniva da un ambiente universitario, era eterodosso, professava l’antistoricismo nel tempio della ‘scienza storica’ applicata alla letteratura, era ritenuto troppo mondano. Il 7 marzo del 1937 l’assemblea accademica si riunì per valutare cosa ne sarebbe stato della cattedra ricoperta da Lefranc: la proposta di Valéry passò con 22 voti su 39. Al Collège de France nasce ufficialmente la cattedra di “Poétique”. Non bastava ancora. Secondo gli usi, fatta la cattedra bisogna scegliere, tra almeno due candidati, il cattedratico. Charles Du Bos affiancò Valéry per fare la ‘lepre’: su 37 votanti, Valéry ottiene 25 voti; 1 voto va a Du Bos, 11 schede restano bianche. Come a dire, il poeta fu accolto a denti stretti. L’elezione di Valéry è approvata con decreto del presidente della Repubblica Albert Lebrun il 19 ottobre del 1937.
Nell’ultima porzione del corso, dedicata a “la responsabilità dello scrittore”, Valéry esordisce con una frase ad effetto: “L’uomo è un’avventura”. Dopo la liberazione della Francia, era tornato nell’aula del Collège: “La libertà è una sensazione. Ora ne respiriamo. L’idea di essere liberi dilata l’attimo in avvenire”. Il generale de Gaulle lo aveva riconosciuto come “l’intellettuale della nazione”, lui aveva tenuto una lezione su Voltaire, esempio di homme de l’esprit. I tributi cominciavano a essere troppi: con dovizia, Valéry preferì morire.
Quando insegnava, pareva in un mondo suo, claustrale, uno strano incrocio tra Charlot e Cartesio. Forse scherzava.
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Si pubblicano alcuni brandelli dal “Cours de poétique” di Paul Valéry
Ottava lezione
Sabato 9 novembre 1940
A Gradi della veglia.
Mantenimento di un equilibrio durante il sonno (caos molecolare). L’intero sistema si modifica per annullare ciò che interrompe la fase in cui è impegnato.
B La fase della veglia: conservazione di un sistema complesso. Presenza simultanea corpo-mente-mondo: la veglia è la relazione tra questi tre termini. Interviene contro la mente per ridurre al rango di cose incerte, inerti, un insieme di impressioni e di rappresentazioni da essa elette a valore aureo di “realtà”. La coscienza di sé, manifestandosi, derealizza l’idea, niente più che un affare locale: l’intervento totale del corpo controbilancia il potere particolare della mente; la sua apparizione nel teatro di lotta, fino al punto che noi lo percepiamo come un atto, tende a fare dei prodotti della mente una produzione circostanziata ed episodica.
B’ D’altra parte, a questo mondo, assiepato da un caos di impressioni, neghiamo ogni valore che non sia accidentale, finché ci appoggiamo a questo io, a questo corpo.
C Azione della coscienza di sé sull’opera. Correggersi. La riflessione esprime una differenza tra due sé.
Uno sviluppo psicologico che non incontra alcuna resistenza porta ai visionari, ai mistici (le visioni di Anna Katharina Emmerick).
Collaborazione tra corpo e creazione: allievi di Liszt.
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Nona lezione
Venerdì 3 gennaio 1941
Linguaggio interiore. Parete. Linguaggio esteriore. Rapporto tra i due linguaggi.
Il linguaggio interiore obbedisce già a una disciplina: l’anima osserva la sintassi. Il linguaggio interiore è un dialogo tra due sconosciuti mascherati: Mi dico… Bocca-orecchio: i due interlocutori sono intercambiabili. Un terzo li ascolta. Ciascuno incarna un momento diverso di me, nell’istante. Presenza di questo istante nell’avvenire immediato. Il rimpianto è la proiezione del passato in questo futuro immediato, con la certezza di non ritrovarlo (irreversibilità). Lotta della sensazione di questo impossibile contro il corso naturale dell’essere. Resistenza.
Il sé è cosciente nella misura in cui è separato da questi diversi interlocutori. Il sorgere del pensiero è divisione. Divisione dell’uno, dello stesso.
Dominio che le parole non possono raggiungere: l’ineffabile, l’inesprimibile – il mistico.
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Riflessioni sul linguaggio datate gennaio 1941.
Il linguaggio è sempre intrecciato alla nostra vita – finché la nostra vita siamo noi (il che non accade sempre). Sempre significa tutte le volte che noi siamo, e da lì passiamo all’idea di ciò che potremmo essere, continuamente, senza fine. Ma sempre significa tutte le volte che, ed è questa la rivelazione – di un carattere funzionale, cioè a dire conservativo.
Dunque il linguaggio è funzionale, ma questa funzione, nel suo funzionamento, è circostanziale. Allo stesso modo dei nostri atti. Sono funzionali perché appartengono a una macchina, a una amministrazione anatomofisiologica, e circostanziali perché si adattano e coordinano alle eccitazioni, alle percezioni di una situazione.
Il linguaggio è un sistema di estrema complessità. Il sistema delle cose convenzionali, che si assimila così profondamente in noi da diventare la nostra vita. Partecipa agli atti e ai desideri in modo intimo. Introduce gli altri in me e me negli altri.
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I mistici e la parola interiore
L’impurità è il carattere della parola interiore. Non ha deposito, non si conserva. Parlare consiste nel passare dal significato al segno, in previsione di un cambiamento inverso, dal segno al significato. Ogni discorso è in previsione di una risposta, o della probabilità di una risposta – soprattutto, è la ricostruzione di ciò che è in noi ma che da noi non esce: il senso. Ma la parola interiore precede ogni previsione.
Impotenza della parola. Il fatto capitale. Il linguaggio in difetto. Cf. l’irrazionale: ciò che non possiamo risolvere in termini finiti. Ecco l’inesprimibile (in verbi) che… Possiamo definire la categoria di ciò che non si può esprimere? La parola interiore può passare oltre. Si accede solo tramite la metafora. Nei termini dell’espressione verbale: interiezione. Gli epiteti “soggettivi”.
Parole soprannaturali. Sono di tre tipi: auricolari, immaginarie, intellettuali, accompagnate o meno da visioni.
Le auricolari restano risonanti nel corpo (Annunciazione).
Le immaginarie sono interiori: “si fanno intendere nell’immaginazione, nella veglia o nel sonno” (André-Marie Meynard, Traité de la vie intérieure, Clermont-Ferrand, Librairie catholique, 1885). Santa Teresa dice: sono perfettamente distinte, ma non si intendono con le orecchie: l’anima le intende con maggior distinzione che tramite la mediazione del corpo. Sarebbe vano resistere e non sentirle, ogni sforzo risulta inutile. Non importa con quanta energia concentri la mente su un altro oggetto, non puoi non afferrarle…
Queste parole sono pronunciate da una voce così limpida che non perdi neanche una sillaba di ciò che viene detto; talvolta si fanno sentire quando l’anima è turbata, l’intelligenza distratta, incapace di costruire un pensiero ragionevole.
Infine, la parola intellettuale è quella che si fa intendere direttamente dall’intelligenza, senza la mediazione dei sensi esterni o interni, nel modo in cui gli angeli si comunicano i propri pensieri. Santa Teresa dice che “è la lingua dei cieli, che nessuno sforzo umano può comprendere”.
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Se ho fatto intervenire la mistica organizzata, è perché essa assegna il valore più importante al linguaggio interiore. (Questo è forse l’unico caso. La fede consiste in questa valutazione: dare valore alla verità). Il mistico è colui che, da questo punto di vista, spera che il suo linguaggio interiore sia compreso da qualcuno oltre se stesso, da cui attende una risposta o un responso, interiormente verbale, oppure non verbale, ma una risposta che si manifesti in qualche desiderata modificazione delle cose o dell’essere, o di sé. Questo è l’oggetto essenziale della preghiera, da quella più ordinaria alla più raffinata.
Va notato che le espressioni fisse della preghiera, le preghiere espresse nel linguaggio esteriore, scritte o meno, importano alcuni caratteri del linguaggio interiore. In particolare, i dialoghi mistici tra l’anima e Dio si impostano secondo il modello del dialogo interiore, nella forma singolare che lo distingue dal linguaggio esteriore, che possiamo isolare ed esprimere.
Ma il mistico non è sempre un mistico, come un poeta non è sempre un poeta.
Paul Valéry