Da qualche anno l’opera di Margiad Evans – scrittrice estranea ai noti toni del ‘modernismo’ e in modo equanime ai modi del bestseller – attraversa degna riscoperta. Nel 2022, per dire, il “Guardian” ha eletto la sua Autobiography tra i libri dell’anno, insieme ai romanzi di Wole Soyinka e di Javier Cercas, alla biografia di Lucian Freud firmata da William Feaver, a Helgoland di Carlo Rovelli (nel ring della divulgazione scientifica). Nei tratti della Evans, autrice di autobiografie anomale, animalesche, che scoscendono, di norma, nei rivi del trattato di poetica, PD Smith, autore della recensione, riconosce lo stemma dell’alienata, il carisma di un’autrice che – dice – vuole “scrivere con gli occhi, le orecchie, il tatto”.
Nata Peggy Eileen Whistler nel 1909, a Uxbridge, trasferitasi in una fattoria presso Llangarron, Margiad Evans alternava la penna alla zappa: sapeva coltivare e tagliare la legna, fu moglie, madre, amante – di una donna, Ruth Farr –, scrittrice dalla densità ‘vegetale’, con poche soddisfazioni in vita. “In questo libro evocativo, con personalità d’abisso – scrive PD Smith – la Evans descrive il suo lavoro nelle campagne (tagliare la legna, adattare un campo alla coltivazione di barbabietole) e la sua ansia di scrivere, il ‘desiderio di essere selvaggia’ come una bimba. L’amore per la solitudine è un tema ricorrente: ‘Oh, la felicità di essere soli: è come avere una porta solo per sé con un muro solido e sprangato intorno’. Il legame profondo con il paesaggio è totale: ‘la terra, per sempre innocente, è la mia unica compagna’”. L’autore chiude rimarcando che un “simile straordinario lavorio nella scrittura” merita “di essere letto con più urgenza”.
In particolare, la casa editrice Honno, nata nel 1986, con sede ad Aberystwyth, Galles, ha fatto di Margiad Evans il cardine del proprio catalogo: è l’autrice più rappresentata nella collana “Welsh Women’s Classics”. Pubblicata in origine nel 1943, poi nel ’52, Autobiography è l’ultimo libro della Evans ripreso dalla Honno. Il suo libro più importante, A Ray of Darkness (in origine, 1952), in cui convergono i temi cardinali della Evans – la malattia (epilessia) come ‘chiamata’ alla scrittura, il rapporto con la natura, l’idea di darsi a una poetica radicata nel gergo della terra, del bosco – è uscito nel 2021 ed è stato pubblicato dalle nostre edizioni, per la prima volta in Italia, lo scorso anno. A suo modo, a seguito di studi sempre più serrati – nel 2013 la University of Wales Press ha pubblicato, a cura di Kirsti Bohata e Katie Gramich, Rediscovering Margiad Evans: Marginality, Gender and Illness – Margiad Evans è diventata un simbolo, un amuleto: immagine di una femminilità ‘altra’, diseducata al fatuo mondo dei salotti letterari. Non fu donna capace di moine e di ‘carriere’; restò – pagandone il fio – ancorata alla marca gallese, ai tratturi che sconfinano nei lembi d’Inghilterra; confidente degli alberi e delle bestiole, imparentata agli astri. Certa che la scrittura è feconda soltanto in strenua solitudine, lunata, ad auscultare il gergo animale.
Il lavoro di riscoperta, nei meandri dell’opera di “una delle più autorevoli scrittrici della prima metà del Novecento”, è ancora lungo: restano da tradurre e organizzare i romanzi (Creed, ad esempio, del 1936, che narra una crepitante e intenebrata storia d’amore, o Country Dance, libro del 1932, di spasmodiche passioni, divenuto una serie radiofonica per la BBC) e i saggi (pubblicati da Honno come The Nighingale Silenced).
Scrittrice dal viso intenso, sempre in fuga d’imago, pari a un’accetta, Margiad Evans ha però nella poesia la sua più pura ispirazione. Estremo linguaggio a cui approda, eccellente per densità di dedizione, la Evans pubblica A Candle Ahead per Chatto & Windus – l’editore londinese di Beckett e di Wells, di Marcel Proust e di Huxley – nel 1956: ottenne un premio dal governo gallese due anni dopo; il tumore al cervello aveva già avuto ragione di lei. Morì poche settimane dopo la consacrazione poetica, nel marzo del 1958.
Nelle poesie – raccolte, in prima battuta, nel 1947, in un libro dal titolo-totem, che ne riassume l’opera: Poems from Obscurity – la Evans trova una formula pienamente risolta: il cammeo, l’ispirazione senza mediazioni, la belva nel vetro. Alcune immagini – il bucaneve, il passero, la tigre imprigionata dalle striature, da una storia di libertà presa a morsi – sono più efficaci di un’autobiografia. Autrice dalle infinite fonti, la Evans si ciba, anzitutto, dei ‘metafisici’: a John Donne e George Herbert, però – poeti già setacciati fino all’estremo gocciolio da T.S. Eliot – preferisce l’obliquo Thomas Traherne. Per cercare la luminosità delle cose, la Evans pende per la ‘via negativa’ della fede: il suo è un dio abbarbicato agli alberi. Nelle poesie, allo stesso modo, s’intravede la barbarica sintesi di Emily Dickinson e l’incanto ventoso di Emily Brontë (“Amavo nelle notti d’inverno/ giacere e sognare in solitudine/ delle speranze e dei veri piaceri/ noti ai miei più giovani anni”). Un passaggio di A Sparrow Singing (“He feels the force which lifts the skies/ Though I feel none”) ricorda la più nota poesia del gallese Dylan Thomas, The force that through the green fuse drives the flower. Ma la Evans ha potenza lirica tutta sua, autarchica, capace di alternare l’apoftegma kafkiano al tema filosofico.
Quando disprezza il potere prevaricante della scienza attuale, che della natura riferisce il dato superficiale, d’uso & consumo, e non quello spirituale, si fa alta figura inattuale, antimoderna. Non siate studiosi, ma iniziati, insegna la Evans. Che ogni suo scritto sia aurorale, lavorio d’alba e di brina, non è un caso.
***
Bucaneve
Serrata dentro nottetempo
installata a ricamare,
la mia fantasia imbraccia il capriccio
di concepire i bucaneve che fioriscono.
Imperlano luoghi avversi
con esili stille di bianco,
e sospendono i volti orfani
in attillati cappucci di luce.
Tanto fragile devo rievocare
la spalla della nube,
lo sfregio della tempesta,
la pioggia, il gelo, il diluvio.
Garbo infantile dell’anno,
giovane promessa d’inganno
più tenera e cara
di antico coronamento,
Com’è strano vedere
e arduo comprendere
il tuo lucore d’argento! Come carità
nella vischiosa mano d’inverno.
*
Vento di notte
Un muro, un campo di stoppie, una porta –
vento di notte
dove hai trovato
quelle conchiglie di suono molato,
quel gemito lungo la riva,
la foglia che ha intagliato la terra
e scolpito la sua firma
parola che nessuno leggerà in eterno.
*
Pioggia
Il poeta intuiva la pioggia
tramontare sui capelli
luce di un sognatore
effusa ovunque;
Sgorgata dalla nube,
dalla luna,
dalle calotte delle sfere
celate nel meriggio.
Sotto una foglia
un uccello abbottonato, appartato,
auscultava la pioggia
sul suo eremo tremante.
*
Cuore segreto
Oscurità, rincasa nel mio reliquiario,
apprestati, canto dissolto, le orecchie sorde riposano:
per gli altri sempre le tue lodi, ma per me
rara la tua voce selvaggia come allodola sul mare –
brullo abisso.
La traduzione è di Fabrizia Sabbatini
*
La tigre
La tigre è rinchiusa da striature
che pungono, le bande oscure
di un giallo vampiro; benché
tra sbarre anguste, la belva vaga
lungo molte terre. Va così lontano
e con infinita grazia: fissa la libertà
ma ha il volto di un prigioniero.
*
Febbraio
Le armonie di febbraio
conducono la mia anima in paradiso;
vecchi alberi in cui annotta la colomba
tintura di germogli detta Eternità.
*
Resurrezione
La candela brucia, è sottile:
plana sul vetro la tempesta
foglie morte diramate dal vento
ma gli alberi risorgeranno.
Mio cuore, posso dormire questa
notte tra candela e tempesta?
Oserò dormire, mio cuore,
e mirare da sola i miei sogni?
Quando risorgeranno le mani
prenderò lo specchio erbario
e i suoi bruni capelli: il vento
nero attraversa la finestra –
chi è là?
*
Un passero canta
Un passero che canta! Che sorpresa!
Sa che è giunto il giorno, sente
la forza che solleva i cieli
anche se io sono nel nulla;
è lui il primo a sorgere tra gli uccelli
a narrare la luce ai sensi pieni
di nebbia, sotto il peso della neve.
Per susurrare la terra sceglie canzoni
lievi: con noncuranza, confonde i suoni
quando tutto mente ed è ancora senza fiato.
*
La Natura e il Naturalista
La Natura incontrò il Naturalista
sulla lunare luce del suo petto.
La Natura disse: anatomia
è la più rozza parte di me;
mi scruti intensamente, curioso insetto,
mi investighi con occhi nunzio del vetro.
Le falde del microscopio rivelano
la camera delle stelle e delle rose.
Con occhio affilato fai a fette
le piume di rondine del cielo.
Vieni a me, disse la Natura, magnifico,
e non fissarmi più, siamo stanchi
l’uno dell’altra: cedi una parte
al cuore altrui. Io sono
il mondo e tu il mio suddito,
tu sei il mondo e io il tuo oggetto:
conficcato in me, mi vedi.
Io non ti vedo: guardami, allora,
con fede audace, disse,
la natura ne ha bisogno come un dio.
Le mie azioni ti rivestono come
rivestono l’universo; ma la veste
visibile non mostra lo splendido
sembiante che noi siamo: guardami
con la mente. Annienta la vista,
strumento che non reca luce:
non sei più uno studente. Smetti
la tua scienza. Diventa un iniziato.
*
Dopo aver letto Traherne
Anima, non puoi fermarti né impetrare
elemosina a Dio: ma come proseguire;
come, vuoti di veglia, nella paglia camminare.
Chiediti perché non sei pura, famelica, inafferrabile
come una volta. Il Corpo, piumaggio di cenere,
ti oscura mentre sorge: allora, torna
al ricordo della nuda verità, per sempre
viva, appena intravista per la stanchezza.
Anima, chiedi a Dio come eliminare
questa tonaca di miseria e questo cappio:
sai già cosa ti risponderà e
di quello devi vivere: più nitida,
più luminosa, affilata e rapida
per tutto il getto del tuo dilemma.
Anima, fermati! e recinta la domanda:
che cosa vuoi e dove sei diretta?
Non chiedere altro di più prezioso:
tu sei il maggio del tuo tesoro.
Puoi interrogarlo sulla luna e sul sole:
loro, a differenza tua, sono appena stati
creati, devi solo avere piena contezza
della tua età e di quale natura
è il tuo potere, cosa sia quella bellezza
pari a nessun’altra, che ascende.
Quando hai posato gli occhi sull’oro
della terra, gli alberi nel fiore, i fiumi
che rollano aurei tra le rive dei tuoi acri;
quando le isole erano protette dai delfini
e possedevi ogni campo e ogni bosco
ruscello e siepe, la luce lampeggiava
e tutto era nel bene: chi dice che l’innocenza
è perduta per sempre è un bugiardo
perché Dio è l’innocenza; il suo splendore
si attenua in gradi e fioriture, ritorna a noi
con l’attributo che chiamiamo pace: silenziosa
sapienza delle montagne che vanno, in processione.
Margiad Evans