Premessa: amo la cucina vegetale e, anche se dopo avere letto questo articolo penserete che sono un cannibale pronto a divorare una bistecca a colazione e un vegano a pranzo, non è vero. Se prendo a sberle i pasdaran del cibo verde è perché non sopporto gli isterismi, il furore ideologico e lo scarso esercizio del dubbio.
“È salutare?”
Mi piace cucinare, e questa è la domanda che mi sento rivolgere sempre più spesso da chi assaggia un mio piatto.
E non finisce qui.
“Mi farà perdere peso?”
Uffa, uffa.
“Mi farà vivere più a lungo?”
Tris di uffa.
“È senza zucchero, senza grassi, senza panna, senza lievito, senza glutine, senza olio di palma, senza carne, senza insaccati, senza lattosio?”
Poker.
*
L’ossessione salutista sbanca il tavolo, e a me rimane il dispiacere di scoprire che il mondo è popolato da persone che vedono il diavolo in un hamburger e, in preda a un fervore credulone acceso come fuoco, hanno incenerito la passione per il buon cibo, gli odori, il gusto. Sono certo che sarebbero disposti a tracannare un cocktail di feci e urina, se solo un mediconzolo imperito nell’arte del tweet ne decantasse i benefici. D’altra parte, l’urinoterapia che il medico dell’antica Grecia Galeno prescriveva ai suoi pazienti ha ancora qualche manipolo di cultori convinti che quel giallo elisir possa curare ogni malattia, dalla semplice influenza sino all’asma, l’emicrania e persino il cancro.
Urina sì, ma un tiramisù neanche per idea. Così va il mondo: esistono i Pantagruel, i Nero Wolfe che nessuna poltrona riesce a contenere, i seicento milioni di obesi, ma ci sono anche persone che si ammalano di ortoressia, un comportamento alimentare che trasforma l’idea del mangiare sano in un’ossessione patologica. Per loro, la paura che un cibo faccia ingrassare è sempre più importante del piacere di mangiarlo.
*
Medici e nutrizionisti invitano giustamente a evitare le grandi abbuffate, ma questo nuovo approccio all’alimentazione, meno godereccio e più orientato alla ricerca di uno stile di vita sano, ha scatenato un esercito di laureati all’università della strada che sproloquiano sui social elencando i cibi da mangiare e quelli da evitare per diminuire il rischio di ammalarsi. L’uomo, sostengono questi pasdaran delle mille rivoluzioni nutrizionali, si ammala esclusivamente a causa della sua alimentazione.
Il risultato è che il cibo viene visto come un nemico, una necessità obbligatoria che nasconde troppe insidie, e chi cede alla seduzione del piacere gastronomico è un peccatore stolto, un autolesionista, un irresponsabile.
*
Per quel che mi riguarda, detesto i fanatismi. La mattina, appena alzato, mi vesto in fretta e vado al bar dove faccio colazione con un cornetto ai frutti di bosco, il mio preferito. E se mi passa sotto il naso un bignè, l’afferro al volo. Soltanto gli idioti non sono buongustai, diceva Guy de Maupassant.
Il piacere della gola è gioia di vivere, allegria, pace, fonte di felicità. Rinunciarvi vuol dire rinunciare a essere uomini, ma non è possibile: è possibile negarsi un cibo, non il suo desiderio.
Forse bisognerebbe tornare a leggere Aristotele o almeno ricordare una delle sue locuzioni più famose: In medio stat virtus, un saggio invito a considerare la virtù come espressione dell’equilibrio fra l’eccesso e il difetto.
*
Equilibrio! Non le esagerazioni di quell’altra calamità concettuale che è il veganesimo, nato come pratica utile a proteggere l’ambiente e rispettare gli animali, ma ben presto trasformatosi in un’ideologia elitaria e autoritaria per la quale un uomo che passeggia per strada mangiando un cheesburger è un assassino a piede libero da dare in pasto ai leoni.
Se un regime alimentare diventa un fatto politico, succede che di colpo la scelta tra una frittata di piselli e un filetto arrosto assume i contorni di una guerra tra chi vuole decidere quale sia lo stile migliore. Essere vegetariani è una scelta sana e profonda, ma andare nei ristoranti a trafugare le aragoste mi sembra un’eversione dagli sviluppi indecifrabili. Arriverà il giorno che qualcuno sparerà ai macellai?
*
Per assecondare le paturnie dei vegani, sono nati prodotti come il NotMilk, il latte che non è latte ma contiene un pasticcio di elementi di origine vegetale che grazie all’alchimia di qualche camice bianco con la pipetta in mano hanno assunto il sapore del latte. Nel nostro mondo globalizzato disponiamo di materie prime diversissime tra loro, eppure la parola chiave dell’industria alimentare vegana è imitare. Basta curiosare nel reparto dei prodotti vegan di un supermercato per avere l’impressione di trovarsi a una festa di Carnevale: burro di cocco mascherato da grasso bovino, wurstel a base di verdure, salami di lenticchie, mozzarelle di riso e tanta soia.
No, non ho detto gioia, ma soia, soia, soia… maledetta soia!
Guardando una bistecca non bistecca, rifletto: come mai un vegano ha il desiderio di mangiare un cibo che assomiglia a ciò che egli stesso definisce un cadavere? C’è del gusto? Sì, ma assai perverso. Come essere dei serial killer di manichini del supermercato. E a questo punto chiedo l’aiuto di uno strizzacervelli.
*
Sono convinto che prima o poi arriveremo al punto di produrre degli animali robotizzati costruiti con materiali commestibili. Allora anche i vegani imbracceranno il fucile senza sensi di colpa. Ieri, mentre stavo sorseggiando un latte macchiato in un bar, una bionda adoratrice del dio Tofu si è avvicinata con aria minacciosa e mi ha suggerito di smettere di bere, preannunciandomi un futuro da obeso. Ha detto: “Hai presente i vitelli? Bevono tanto di quel latte che in poco tempo si trasformano in bovini adulti da 400 chili”.
Francesco Consiglio
*In copertina: Giuseppe Arcimboldo, “L’imperatore Rodolfo II in veste di Vertumno”, 1591