26 Giugno 2019

“È mai possibile che oggi ci si commuova solo quando si vede il corpo di un bambino morto su una spiaggia turca, come se quella scena fosse parte di un talk-show?”. Dialogo con Valerio Raffaele: ha seguito le rotte dei migranti e ci spiega che cosa accade davvero

La maglia rossa di una rete da cantiere nasconde un pugno di migranti, appollaiati, stipati come bagagli smarriti, su una panchina, davanti a un cancello chiuso. Sulla copertina del libro La rotta spezzata da Istanbul a Horgos, ultima opera del geografo e docente Valerio Raffaele (membro dell’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia (AIIG), presidente della sezione di Varese) pubblicata da goWare, trovo una di quelle immagini che i nostri occhi si sono abituati a vedere (o a non vedere), negli ultimi anni. Vicino alle nostre case, nei parchetti delle nostre città, spesso si raccolgono gruppetti di migranti seduti, nell’eterna attesa di qualcosa che non arriva mai. Che cos’è? La foto del libro racchiude un reportage, che sembra annotato più che scritto lungo le strade (e tra i sospiri) dei migranti che l’autore ha percorso: si leggono storie di persone in fuga sulla rotta balcanica, testimonianze di volontari e attivisti, di gente comune e giornalisti. Le tracce tangibili e brutali dell’accordo sui migranti tra Unione Europea e Turchia, del marzo 2016. Il racconto del viaggio inizia da Istanbul, appunto, “un groviglio di vite brulicanti negli intimi meandri della città”, e finisce in “una medina di tende” nella cittadina serba di Horgos, di fronte al muro ungherese, dove non resta che “attraversare l’attesa”, in una miope rincorsa al di là di quel muro, sulle orme di chi è riuscito ad andare oltre questa rotta spezzata e che oggi è alla faticosa ricerca di “brandelli del suo passato da incollare allo scheletro di una nuova esistenza”.

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Quando incontro Valerio, mi sorprende la sua pacatezza, la fresca serenità di persona umile ed elegante, al polso un semplice bracciale d’argento, un paio di occhiali che mi restituisce il suo sguardo da bambino. Lo stesso sguardo che indoviniamo nella dedica: “Ai miei genitori per avermi educato allo scorrere del mondo dal finestrino di un treno”. Partiamo così dal viaggio. Nel suo racconto, scorrono sotto i nostri occhi, centinaia di persone. Le sue parole mi si incollano alla mente, e finisco col sentirmi un po’ in colpa (cosa faccio io?). Allora glielo chiedo. Che cosa ti ha spinto a partire? “Ho cercato di dare voce ai protagonisti, i migranti incontrati, perché si parla tanto di immigrazione, tanti (forse troppi) forniscono i propri punti di vista, politicizzando spesso il tutto, senza lasciare loro spazio. Ho cercato di lasciar parlare loro, seguendo un espediente letterario che mi è venuto in mente leggendo i libri di Svetlana Aleksievic. A queste testimonianze dirette ho affiancato sullo sfondo, da buon geografo, l’attenzione ai luoghi, che poi sono il frutto dell’interazione con l’uomo, sempre in relazione alle migrazioni. Perché sono partito dalla Turchia? Sono partito da Istanbul perché Istanbul è una città “fatta da emigrati e immigrati”, come dice King in Mezzanotte a Istanbul. Per i geografi, come sostiene Nadia Matarazzo, una geografa campana, Istambul è un gateway delle migrazioni o, come si dice, un hub per un’umanità in continuo movimento. Il percorso ha seguito poi luoghi più conosciuti lungo la rotta balcanica, come Salonicco, Idomeni e Belgrado, molti altri poco battuti e conosciuti, la Macedonia, lo sperduto villaggio di Chamilo, la Bulgaria, Horgos. Il mio è stato un tentativo di mettermi da parte, cercare di ascoltare per poi far emergere le storie e le microstorie: non solo il viaggio sul quale oggi c’è forse un’attenzione quasi morbosa – pensa solo alla ormai stucchevole narrazione del barcone che affonda – ma anche alla vita precedente alla partenza, ai sogni, le aspettative, il presente che i protagonisti stanno vivendo. È mai possibile che oggi ci si commuova solo quando si vede il corpo di un bambino morto su una spiaggia turca o quando si vede un barcone in preda alle onde nel Mediterraneo (come se quelle scene fossero parte di un talk-show pensato appositamente per portare lo spettatore a piangere) in una sorta di “bulimia iconografica” (o, per essere un po’ provocatorio, iconoclasta) destinata a durare i secondi di qualche fotogramma? Per che cosa? Per suscitare uno scatto di pietà derivata dall’orrido, di compassione dal sapore macabro? Come dici tu sono anche un educatore. E come educatore mi chiedo: perché quelle stesse persone che magari (giustamente) si commuovono di fronte a certe immagini, non provano le stesse emozioni di fronte alle immagini di una serie di migranti seduti su delle panchine con il telefono in mano? In quel caso manca la spettacolarizzazione dell’evento. Eppure. Che ne sappiamo delle storie che stanno dietro quelle persone sedute su delle panchine? Dietro quell’immagine di apparente normalità? Ci sarà gioia, fancazzismo (pensa alla frase fatta: “chi gli avrà dato quei telefonini di ultima generazione?”), delusione, depressione? Ci dovrebbero interessare di meno forse, semplicemente perché non li si vede annegare o non li si vede già morti? O forse l’obiettivo è proprio quello, farli vedere il giusto necessario, per poi farli scomparire dalla nostra vista, il come non importa?”.

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Facciamo un esempio: nel libro si parla del muro sul fiume Evros, al confine tra la Tracia greca e turca: “quando il muro non c’era, la gente comune del posto si prodigava nel dare una mano con vestiario, cibo o altro ai migranti di passaggio. Quando c’è stata l’idea del muro molta di quella stessa gente è stata d’accordo nel costruirlo. Da allora i migranti hanno iniziato ad attraversare il fiume, con il risultato che, negli anni, i morti annegati sono stati diverse centinaia. Come sono da considerarsi quelle persone del posto? Prima buone e, poi, cattive? O forse dietro c’è solo mancanza di informazione e di conoscenza, di comprendere che quel muro ha avuto sì l’effetto di ridurre i passaggi in quel punto ma per aumentarne in altri (sulle isole greche di fronte alla Turchia facendo di quel tratto di mare un cimitero) non risolvendo affatto il problema?” Non è forse quello che sta accadendo con l’Italia? “Esattamente: la via libica verso la penisola è chiusa (anzi i porti sono chiusi, il mare continua a fare vittime)? Si sono aperte di nuovo vie verso la Spagna e la Grecia. Si è spostato solo il problema. Qualcuno potrebbe obiettare (giustamente) che gli sbarchi in Italia sono calati (dimenticando però di dire che i morti in mare ci sono sempre). Omettendo anche di dire che dovremmo essere un’Europa sola, e che spostare il problema da una parte all’altra del continente aiuta ad affossarla, questa nostra Europa. Intendiamoci, è sacrosanto evitare il più possibile le partenze via mare, prima di tutto per salvaguardare la vita stessa di chi parte. Ma è chiaro che farlo chiudendo dalla sera al mattino i porti senza alcuna strategia dietro equivale a chiudere una cella con delle persone dentro, buttare via la chiave infischiandosene di chi è rimasto dentro. Oltre che essere non accettabile (e irrispettoso dei diritti umani) è una non-risposta emozionale e non una risposta razionale. È una risposta che ci vuole far rimanere (e credere di essere) nell’emergenza e che non ha nulla di reale nel governo delle migrazioni. Il quale può avvenire attraverso l’unico modo che non solo l’Italia ma, purtroppo, anche l’Europa non prende in considerazione, ovvero aprire delle vie legali (regolamentate) alla gestione dell’immigrazione”.

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Quale sarebbe questa via legale? “In Italia abbiamo una legge dell’immigrazione che ha circa vent’anni, che ha fatto acqua da tutte le parti e pensata da due uomini politici ormai ai margini. Eppure guai a toccare il tema. Sul tema dei rifugiati poi basta guardare il positivo riscontro dei corridoi umanitari: eppure non vengono incentivati e sono poco conosciuti, pur essendo una risposta utile alla soluzione di un problema ampio, per paura di politicizzare la tematica. Al riguardo, si sta assistendo a un imbarbarimento delle posizioni. Negli anni ’80, con la guerra del Libano, ricorderai che nessuno obiettò sulla necessità di ospitare dei rifugiati libanesi in Italia (ricordo che ce n’erano alcuni anche nella nostra provincia). Allora nessuno metteva in dubbio che in Libano c’era una guerra civile e che era sacrosanto dovere solidale fare la propria parte. Oggi circola più informazione eppure tutti sono pronti a mettere in dubbio tutto (in questo le fake news fanno la loro parte). Se non sbaglio i migranti a bordo della famosa nave Diciotti erano in gran parte eritrei. L’Eritrea è un paese terribile per chi ci nasce, basta passare un pomeriggio di ricerca in internet (su siti affidabili), o studiare qualche buon manuale universitario di storia e geografia per rendersene conto. In quanti lo sanno? E in quanti (probabilmente molti di più) sono pronti a mettere in discussione un dato oggettivo, la terribile tirannia di Afewerki in Eritrea, bollandolo come falso, citando magari una “news” priva di fondamento postata da un amico? Siamo arrivati al punto che tutti possiedono le proprie verità, sicuramente ci saranno persone in rete che affermano tranquillamente che in Siria, Afghanistan, ecc. si sta benone. Come no. Ecco, credo che negli ultimi quarant’anni, forse perché è venuta meno la memoria nazionale (e continentale) delle nostre guerre, è venuto meno anche un razionale sentimento di solidarietà. Quarant’anni fa avremmo sacrificato parte del nostro benessere per aiutare un libanese. Faremmo lo stesso oggi per un siriano o un eritreo? Il problema di fondo forse è l’indifferenza. E la mancanza di curiosità, di quella volontà di approfondire per saperne di più”.

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Torniamo all’immagine distorta del migrante sul gommone, il messaggio che passa è quello del migrante poveraccio, lo conosciamo tutti. “Educativamente parlando andrebbe fatto un passo avanti. Mostrare in continuazione migranti con il salvagente crea lo stesso effetto dall’immagine del bambino africano con la pancia gonfia nell’immaginario collettivo (anche sui manuali di scuola, come ben saprai). Credo che tutto ciò non solo non sia giusto (ed eticamente scorretto), ma non è neanche un modo acritico, neutrale diciamo, per vedere la situazione. A Lesbo, un afghano mi ha caricato sul telefono un video girato tra Turchia e Grecia dove si vedono dei migranti in un mare in burrasca con le imbarcazioni di soccorso impegnate nel tentativo di salvarli. Il video si conclude con un migrante che sta per scomparire tra le onde. Al rientro l’ho proiettato una sola volta durante un corso di formazione per insegnanti, in altri incontri tenuti nelle scuole, per insegnanti o alunni, poi non l’ho mai più proiettato. Un po’ perché avrei foraggiato, diciamo, quell’immagine bulimica che ci perseguita da quando arrivò il primo gommone albanese negli anni ’90. Un po’ perché mi sono chiesto: quel video, passata l’emozione del momento, non va a togliere un po’ di quel sentimento di lungo periodo, di quella più razionale comprensione indispensabile per capire meglio un fenomeno? È più commovente l’immagine della tomba di un siriano seppellito nel villaggio greco di Sidirò a due passi dalla Turchia o quella del cadavere di Aylan Kurdi in braccio all’uomo che l’ha tirato fuori dalla risacca? Certo, una lapide ha forse anche il senso-significato di ripararci da un qualcosa, che poi è la morte, che non vogliamo vedere. Ma ha senso fare delle graduatorie del genere? E allora perché emozionarsi in un caso e rimanere impassibili nell’altro caso? È possibile trovare una via di mezzo? Ecco, il mio tentativo educativo è quello di lasciare il lettore nel guado, riempirlo di dubbi che poi, a mio parere, il dubbio intendo, è il sale dell’educazione. La retorica sull’immigrazione dei mass media è profondamente impersonale, ci fa pensare a qualcosa di astratto, di lontano. Nel libro, invece, sono lì, di spalle, hanno un nome (a volte, per ovvi motivi, inventato o con le sole iniziali), sono vicino, entrano nel concreto della narrazione. Sono vicini come quei migranti che incontriamo sulle panchine dei nostri parchetti, che girano con le biciclette sulle nostre strade (anche nel tuo paesino, Linda!), che la spingono a piedi in salita, stringendo il manubrio tra le mani. Il velo d’acqua che scorre sui detriti di un torrente colora spesso il guado di sfumature grigiastre. Due esempi tratti dal libro: a Istanbul ho intervistato una ragazza, mi ha lasciato impresso una sua affermazione: “non voglio essere considerata una “poor minded”; a Salonicco ho raccolto una testimonianza scritta di una persona che voleva essere chiamata per nome e cognome, non catalogata sotto l’etichetta di rifugiato”.

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Passiamo al capitolo rifugiati, appunto e alle organizzazioni internazionali. Leggo: “Sulla strada sono posizionati un paio di grossi bidoni della spazzatura targati UNHCR” e penso alla frase: “le scritte WELCOME REFUGEES pitturate sui muri sfilano lente sotto gli occhi di chi ci cammina accanto”. Tutti i giorni vediamo sventolare le belle bandiere azzurre con la scritta bianca UNHCR alla tivù. “La questione dell’accoglienza e della gestione dei migranti nei campi greci è piuttosto complessa. Non ho avuto l’opportunità di farmi un’idea esaustiva. Tuttavia, dalle testimonianze raccolte dai migranti stessi ma anche da volontari impegnati al loro interno, ho la sensazione che si guardi più all’immagine che alla sostanza. Lasciando perdere le strutture (del fatto che si tratti di campi malconci basta l’occhio esterno o anche una semplice passeggiata, per rendersene conto. Attorno a Salonicco si tratta di ex capannoni industriali, nel libro parlo di un hotel di lamiere, o strutture che un tempo ospitavano campi militari parecchio scomodi da raggiungere) mi pare che il tutto si limiti agli aspetti, come dire, logistici. Si individua un’area (come ti dicevo piuttosto lontana dai centri abitati) dove sistemare i container o le tende, un’area dalle quali il più delle volte (almeno quelli che ho visto, a parte Filakio nella Tracia greca che è un centro di detenzione e un campo bulgaro, anch’esso di detenzione, appena al di là del confine) è possibile uscire – comunque si tratta di aree recintate e controllate –, si servono i pasti, con il resto della giornata dato in mano a associazioni di volontari, ong e via dicendo per la scuola, corsi vari ecc. L’assistenza sanitaria non sempre è presente. Mi è capitato di accompagnare in pronto soccorso una donna siriana insieme a dei volontari di un campo, era pomeriggio e il medico in quel campo c’era solo al mattino, dall’alto nessuno si è preso la briga di prendere in mano la situazione. Quanto all’organizzazione del tempo libero anche qui nulla di particolare. Sei in Grecia, uno può pensare che in fondo una domenica al mare (o una gita in autobus) ai bambini ospitati nei campi non sarebbe tutto sommato una cosa impossibile da organizzare. Invece nulla. Per questo dico che la gestione dei campi da parte delle grandi organizzazioni (a partire dall’ONU) sia attenta più alla logistica che, tornando al discorso educativo, all’educazione o alla pedagogia. Un caro amico che da anni viaggia regolarmente in Medio Oriente e conosce dall’interno la realtà mi ha detto che di fronte alla scelta di 1) costruire una scuola e farla funzionare bene (con docenti, materiale, personale tecnico ecc.) e 2) costruire due scuole e lasciarle lì, senza poi dotarle del necessario per essere davvero efficienti, l’ONU preferisce questa seconda soluzione. In un campo greco mi sono state riportate queste parole di una ragazzina siriana che riassumono al meglio tutta questa situazione: “Qui (nel campo greco al quale mi riferisco nel libro, quello di Lagkadikia nei pressi di Salonicco) sembra di stare in una Siria senza le bombe”. Parole forti per certi aspetti, che forse racchiudono anche la disillusione di chi si aspettava un’Europa diversa. Diverso il discorso dei campi macedoni. In Macedonia ce ne sono due ai due confini (Gevgelia a sud, dal quale, ai tempi del mio viaggio, non si poteva uscire, e Tabanovce a nord, più aperto e con controlli più laschi). C’è tutta una riflessione da fare al proposito su un concetto molto geografico quale quello di confine. Tutti i confini che ho attraversato sembravano seguire il medesimo spartito: un estremo controllo da parte dello Stato al confine di ingresso, una maggiore “rilassatezza organizzativa” dello Stato stesso (e una maggiore attività dei trafficanti) al confine d’uscita. Il tutto in un contesto di confini sigillati intendo”.

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E come ci arriva il povero migrante al confine (o al confino, come dici tu)? “Contando sulle proprie forze, su quello che si ha nello zaino, anzi il più delle volte lasciandosi dietro anche quello, per alleggerirsi di più per attraversare più facilmente un confine difficile (come lo sono quelli tra Grecia e Macedonia e soprattutto Macedonia e Serbia dove agisce la mafia albanese) e ritrovarsi dall’altra parte (in un ambiente di nuovo molto normativo) dove rifare le proprie “scorte” e avviarsi verso gli altri confini e ripetere la stessa trafila. La tendopoli di Horgos, di fronte al muro ungherese, seguiva la stessa logica di confine. Una tendopoli tirata su dai migranti stessi, poca assistenza, la polizia serba che andava a fare un giro la sera (mandando via gli intrusi se ce n’erano), con poco o nulla da portarsi dietro “dall’altra parte”. Oggi che i flussi nell’area balcanica hanno coinvolto anche l’Albania e la Bosnia Erzegovina, sono quelle le nuove terre di nessuno, i nuovi confini fortificati, luoghi di nascita di nuovi paesaggi collettivi, paesaggi naufragati nei confini della (dis)umana ancorché ancestrale voglia di segnare il territorio segmentandolo nei propri domini, domini attraversabili a patto di avere il passaporto giusto per attraversarlo o la quantità giusta di soldi per comprare quel passaporto che dà il diritto di entrare nel dominio giusto. Horgos, ma anche i villaggi macedoni di Vaksince e Lojane al confine con la Serbia dove agisce la mafia albanese, Chamilo in Grecia al confine con l’oggi Repubblica Nord di Macedonia: tutti paesaggi di confine, gli ultimi due specialmente aree che potremmo definire “parastatali” dove esiste il paradosso di logiche ferree di confine che lasciano briglia sciolta al traffico di esseri umani. Chamilo è uno di questi paesaggi marginali e naufragati. Ho visto e fotografato di tutto: un bavaglino steso sull’albero, scatole di pastiglie, scarpe dalle suole lisciate, lattine e vaschette di alluminio per il cibo, cartoni del Lidl. Tutti allineati, come una linea di frontiera. Il vero confine, il paesaggio di confine, era forse quello? Diverso da Horgos, dove almeno uno è tranquillo di essere arrivato in fondo e di dover solo attraversare l’attesa”.

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Arriviamo al capitolo sesso. Il desiderio erotico dei migranti. La voglia improvvisa che prende i migranti che vedono con i loro occhi i corpi deliziosamente spogli delle donne occidentali in bikini: “Il discorso sul potenziale ruolo pedagogico (che nella realtà non hanno) dei campi si collega anche al discorso del sesso. Immagina ragazzi arrivati per lo più da Paesi nei quali quasi certamente, soprattutto se provenienti da aree rurali, non hanno mai visto in pubblico le gambe nude di una donna e si ritrovano di punto in bianco a vedere sulle spiagge di Lesbo donne in bikini o in topless. Uno shock culturale, per loro è come vedere un film porno. O meglio, è come vedere nella realtà quello che magari hanno già visto dai loro telefonini (sembra per esempio che il Pakistan sia in testa nello scaricare filmati pornografici). Però, appunto, dal vero, e per la prima volta. E non da piccoli. Mettendomi nei loro panni, quando facevamo quei discorsi, è come se mi fossi rivisto da piccolo quando al mare entrai in contatto visivo con la diversità (e l’attrazione) femminile. Il primo seno! Nella nostra società abbiamo avuto (o dovremmo avere avuto), noi maschi intendo, il tempo per capire e interiorizzare tutto il conscio (bene), il subconscio (benino o maluccio), non ovviamente l’inconscio, che ci sta dietro queste visioni. Ma, appunto, nella nostra cultura ciò è avvenuto fin da piccoli, in un contesto che per noi è (dovrebbe essere) normalità. Per loro non è così. E da adulti tutto è molto più difficile. E allora mi chiedo: chi, come, quando si dovrebbe iniziare ad attutire questo shock culturale? Ammetto che prima del viaggio io stesso ero scettico sui corsi di “educazione al comportamento” con l’altro sesso, diciamo così, che la Svezia aveva da tempo pianificato per i nuovi arrivati, in particolare per quelli di religione musulmana. Anche i cristiani mediorientali, per dire, sono più integralisti dei cristiani europei. Ora, ho letto recentemente che anche la Germania sta avviando corsi di questo genere. Credo che servano anche in Italia. Ecco, per esempio agire sulla sfera culturale-pedagogica (in ambito sessuale in questo caso) partendo già nei campi di accoglienza è un altro tipo di intervento che non avviene nei campi stessi, magari anche a fronte di persone che per mesi ci risiedono. Poi, fare di tutta l’erba un fascio è sempre sbagliato: parlando delle donne ci sono diversi gradi di emancipazione anche all’interno della stessa nazionalità. Nel caso della Siria ho incontrato donne siriane più emancipate e altre meno (e la pietra di paragone non è solo la questione del velo). A fare la differenza sono una serie di fattori come l’educazione, l’appartenenza familiare, l’area di origine. Damasco è diversa da Idlib, Aleppo è diversa da Banias. Le grandi città maggiormente aperte alle innovazioni sono delle incubatrici di modernità. E ogni città possiede le sue microgeografie: a Kabul esiste un’area ristretta del centro città dove le donne sono scoperte, mi ha detto a Lesbo Ramesh l’afghano, per poi concludere dicendo che quelle erano donne di malcostume semplicemente perché non si coprivano. Dovremmo rileggere il passato, educare forse i nostri studenti anche a un’altra Storia, fatta di un passato lungo di relazioni dove non sono esistite solo le crociate e le invasioni saracene o il cosiddetto “scontro di civiltà”.

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Nel libro, rispetto al precedente Le mani sull’Ucraina, si scopre l’autore, vengono alla luce le sue paure, le sue debolezze: “La rotta spezzata è più un reportage esperienziale con riflessioni che hanno l’intento di portare il lettore ad interrogarsi e a riflettere, con un linguaggio sicuramente più divulgativo che non quello usato nel libro sull’Ucraina. Si tratta in definitiva di due lavori partiti entrambi dall’analisi sul campo ma che sono stati pensati con obiettivi diversi e quindi strutturati in forma diversa. Sicuramente posso affermare che c’è molto più di me in questo secondo libro che non nel primo. Per gli incontri diversi, per i temi trattati, per lo spazio e i tempi dedicati alle persone incontrate. C’è più di me anche per gli eventi: l’essermi trovato in Turchia durante quel 16 luglio 2016 quando andò in scena il colpo di stato, descrivere la nottata di quel colpo di stato come ho fatto nel libro ti porta inevitabilmente a scoprirti maggiormente. La paura è un sentimento riflesso, quando ho saputo che era in atto il colpo di stato ho esitato un attimo all’inizio ma poi non ho resistito e son dovuto uscire a vedere. Se non l’avessi fatto sono sicuro che oggi sarei qui a rimpiangere di non aver messo la macchina fotografica nello zaino e di non essere uscito quella sera. L’istinto mi ha portato a non voler perdere l’occasione. Certo, la paura è subentrata dopo, nel tornare certamente alla pensione attraversando il bazar deserto e buio di Ayvalik, ma soprattutto la paura riflessa, vale a dire quella paura generata da quel senso di colpa di chi a casa si sta preoccupando per te. In questi termini si può dire che sì, ho avuto paura. E credo che sia normale averla provata. Anche se so che qualora dovesse ricapitarmi una cosa del genere difficilmente me ne starei rintanato in una camera d’albergo”. Insomma, Valerio, non vuoi rispondere alla mia domanda: ti sei innamorato? “Quanto alla questione dell’innamoramento me la cavo così: certamente con Nour si è creato un legame particolare, ci siamo sentiti per parecchio tempo anche dopo la mia visita a Stoccolma. Diciamo che sostituirei la parola “innamorato” con “infatuato”: anche perché, come riporto nel dialogo con un ragazzo afghano, con le donne sono un vero disastro!”.

Linda Terziroli

Gruppo MAGOG