18 Marzo 2023

“Tutto è compiuto”. Sulle ultime parole di Cristo

Le pronuncia da sollevato, da eletto, sul trono della Croce, ambone abominio: per questo le ultime parole di Gesù, il Nazareno, il Messia, hanno valore abnorme – valore di stimmate.

Essere sollevato: non reca sollievo, non implica una sollevazione.

C’è da considerare quella regalità scomposta, camuffata, dopo la tortura, da pagliacciata. Il re a contrario, il re sbeffeggiato, il re sputato: carnevale di sangue.

A motivo di questa incoronazione oscena, tra le spine, come vanno considerate le ultime parole di Gesù sulla croce? Testamento o tormento; ultima volontà o involuzione; candore o condanna; censura o censimento; avvolto o avvoltoio.

La morte per crocefissione è condanna utilizzata dall’Impero di Roma, suggerita dalle missioni a Cartagine e in Medio Oriente. Nelle Storie di Alessandro Magno, Curzio Rufo testimonia che la pratica era nota al grande conquistatore: vinta Tiro, nel 332 a.C., “dopo circa sei mesi di assedio”, Alessandro si fa trascinare dal delirio di morte:

“L’ira del re offrì un lugubre spettacolo ai trionfatori: duemila dei vinti pendettero inchiodati alle croci per un lungo tratto del litorale”.

Si può capire il tratto, il carattere di una civiltà, di un paese, dalla pena di morte che sceglie di adottare. Ghigliottina, impiccagione, crocefissione, lapidazione, sedia elettrica, iniezione letale…

Gli evangelisti registrano in modo diverso le ultime parole di Gesù sulla croce: a segnalare una diversa sapienza cristiana, il carisma peculiare di una comunità. Le ultime parole di Gesù marcano una via.

Secondo Marco e Matteo, dalla bocca del Crocefisso sboccia il primo verso del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. La trascrizione aramaica è leggermente diversa: Elì Elì, lemà sabachthanì?, scrive Matteo; Eloì, Eloì, lamà sabactanì?, scrive Marco. Calanchi perfino nella pronuncia del Nome di Dio, sbucciatura nel Nome, forre ovunque, miniere di smarrimenti.

Secondo Matteo, la morte di Gesù – che esplode in grido, in “grande voce”, suono che dilata e magnifica quel corpo, nient’affatto carcere dello spirito, ma sua brocca, suo sigillo – coincide con la resurrezione di “molti corpi dei santi” (27, 52). Gesù sollevato in croce scoperchia le tombe – assoluto verticale/vertice/vortice e assoluto orizzontale/voragine. Questo dettaglio, che pare così importante, è ignorato da Marco, che alle ultime parole di Gesù, evidentemente, pur analoghe, assegna un senso altro.

Gli evangelisti raccontano ciascuno a modo proprio l’istante finale di Gesù, il culmine della sua predicazione. Gesù fatto Cristo converge verso la Croce: ogni parola è detta in virtù di quel momento, per quella incoronazione. Che non ci sia concordia di voci nell’istante estremo, lo zenit del Nazareno, testimonia – ancora – distanza di sapienze. Di chi sei tu? Di Marco, di Paolo, di Matteo…

Il grande salmo dell’abbandono è quello del nuovo patto. Il Salmo 22 non spezza il legame con Dio, lo rinsalda: all’implorazione – “Non stare lontano da me” – segue impalcatura di grazie – “Mi hai esaudito!/ Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli/ ti loderò nel pieno dell’assemblea”. Gesù sulla croce grida la piena umanità – tutto uomo non più Dio – o l’assoluta regalità (“è a Jhwh che appartiene la regalità”)? Il Salmo 22, scrive Gianfranco Ravasi, è “una Salmo di passione, ma anche un Salmo pasquale”. Luce per tenebra.

Eppure è quella capsula di carne, crepitio di lacrime, Gesù, pelle oltre la pelle, scorticare il dio, tutto cuore, nel palmo aperto come un urlo, nella coscia, nelle caviglie maciullate.

Il Nazareno confitto alla Scrittura, inscritto al legno, inchiodato alla Legge – che abbandona. Il vero rotolo è quello: la Croce. L’autentico tempio è quello: la Croce. La Croce è la traduzione dell’Arca.

Ogni tentativo di spiegare è missione spezzata, fiducia fraudolenta, ovvio: ci manca la scolta, l’ascolto del mattino – solo parole tombarole, qui. Le ultime parole di Gesù non vanno vagliate ma ripetute in veglia.

Stando a Luca, Gesù in croce esercita in pieno la propria autorità regale: Golgota è base della sua basilica. In croce, Gesù combina il perdono – “Padre, perdona loro: non sanno ciò che fanno” –, ammette in paradiso – “Amen, a te dico: oggi con me sarai in paradiso” – si confina in Dio, consegnandosi: “Padre, nelle tue mani depongo il mio spirito”. Il Gesù di Luca non grida: ispirato, spira.

Nel rovesciamento supremo, la supremazia di Cristo; nell’attimo della massima abiezione.

Alla liturgia del Salmo 22, Luca preferisce quella del Salmo 31: Gesù salmeggia il versetto 6, che suona così nella traduzione di Guido Ceronetti:

“Depongo il mio soffio nelle tue mani
Tu mi riscatterai Signore

È nel tuo Nome che io confido”

Lacerate, le ultime parole di Gesù di cui Luca è testimone: omesse, quelle del perdono, da diversi manoscritti. Anche in questa incertezza, bocca sbrindellata, c’è un giacimento sacro. Vai, vai in quella latebra, figlio mio, senza giustificazione o giustizia, scorticato dalla solitudine, a inghiottire lucertole d’insulto, insinuazioni a scorpione.

Gesù non dice mai la parola paradiso – paràdeisos– non è nel suo annuncio, ne è mozzo il Vangelo: di che paradiso parla, lì, piantato in croce? Di che paradiso dice Luca?

Consegna o abbandono; abominio o paradiso.

L’insegnamento di Gesù si realizza in croce o nelle parole pronunciate dal Risorto? Qualcosa ristora, rilancia; qualcosa occlude, conchiude. Rimozione del risorgere è cosa che ci riguarda.

Giovanni articola la sapienza di Gesù crocefisso in tre momenti. Nel primo, Gesù vede la madre, alla foce della croce, insieme al “discepolo che amava”. Vede dall’alto, dal cannocchiale-cunicolo della croce. Segue la spartizione delle parentele: “Donna, ecco tuo figlio!”; “Ecco tua madre!”. È una sorta di sposalizio.

Non è la prima volta che Gesù smobilita i rapporti, lacera la norma familiare. “Chi mi è madre, chi i miei fratelli?… Chi fa la volontà di Dio mi è fratello e sorella e madre”, dice Gesù secondo Marco, all’inizio della sua predicazione (Mc 3, 31 ss.). “Sono venuto a dividere l’uomo da suo padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera” (Mt 10, 35). In croce, Gesù, adempiuto, non separa: lega. Che il resto si unisca, in genealogia divina, supremazia al sangue, al lascito. Battezza dalla croce, nuovi lignaggi dal legno.

E poi, “Ho sete”, sussurra. “Affinché si adempisse la Scrittura”, aggiunge Giovanni. Cosa vuol dire? Che Gesù adempie la Scrittura disseccandola, greto vuoto, arsura, incisione cupa, ripida e insensata – priva di Cristo, la Legge è ecologia dell’eco, prassi sopraffatta, mai più sopraffina.

La croce: come camminare nel deserto: spirito misurato in sabbia. Sete. Acqua occhio di Dio.

Ridotto al grumo primo dell’uomo, mero mendicante. Ho sete. Disossato da fonti, alienato alle acque, l’uomo, materia che galleggia sull’acqua, si perimetra nella morte. Dissetate il senziente – annientate la sentenza.

La Scrittura, naturalmente, c’è – perfino nell’adempiersi, ma di sbieco. La liturgia del Salmo 22, al versetto 16, inscena la sete. Così è nella traduzione di David Maria Turoldo:

“La mia gola è creta riarsa,
incollata la lingua al palato,
già la morte mi sparge qual cenere”

In Samarìa, Gesù ha avuto sete: gli è stata offerta acqua dal pozzo. Alla samaritana, Gesù si rivela come fonte infinita, che sempre disseta, “chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete” (Gv 4, 14). Verbo di Gesù è acqua, fiumi fuoriescono dai suoi palmi. In croce, Gesù è fonte sradicata, disseccata. La sua bocca è pozzo senza verbo, verbo muto. Eppure, in Esodo Dio faceva sgorgare fontane dalla roccia perché è dei seguaci la sete (Es 17, 3 ss.); più cruda della roccia è la croce. Legno che non brucia né galleggia quello della croce.

Dopo aver succhiato aceto dalla spugna (Gv 19, 29) Gesù pronuncia l’ultima parola: “Tutto è compiuto”.

I Vangeli sono nel vigore dell’incompiutezza, lettura coi sandali, tra sterrati: si corre, nei Vangeli, verso l’arco di gloria della croce. I Vangeli sono elettrizzati da destino di incompiutezza, ossessione del compiere. “Il mio tempo non è ancora compiuto” (Gv 7, 8); “Sebbene avesse compiuto segni così grandi…” (Gv 12, 37); “Se non avessi compiuto in mezzo a loro…” (Gv 15, 24). Si rincorrono segni che devono compiersi, segni compiuti, cose che incompiute devono stare. Gesù dà idea di essere il sommo incompiuto – da qui, l’esigenza della ‘seconda venuta’ – eppure: “tutto è compiuto”.

Gesù sa che la croce è un chiodo, è il cancello. Con la croce qualcosa si compie per sempre: “sapendo Gesù che tutte le cose erano compiute…” (Gv 19, 28).

Compiere non vuol dire esaurire – il compimento prelude a un passaggio. Compiere è il varco. Non si esaudisce: si dice in altro modo.

“Tutto è compiuto”. Tetelestai nel testo greco: parola che testimonia ciò che spira. Ci sono molti soffi, molte finestre in tetelestai. Il verbo τελέω significa “portare a compimento, completare, finire”; il τέλος è il fine, lo scopo. È come se si trattasse di sistemare le cose, di comporre qualcosa di artigianalmente esatto. Costruire una croce, ad esempio, levigando le assi a misura.

In latino le parole ultime di Gesù hanno suono più violento. Consummatum est. Locuzione definitiva, che sa di esecuzione più che di ben eseguito, di condanna. Compiere, in questo senso, non ha la liscia stola della cosa perfetta ma l’allucinato dello sbrego, dell’abisso che sbraccia, dell’orda di bestie che consuma il cadavere. Tetelestai sembra dire: faccio di me ciò che devo fare; Consummatum est è: fate di me ciò che volete.

Nel verbo consummo giace, è vero, il significato di “condurre a perfezione”; ma prima di tutto è il “terminare”, lo sterminio a stupirci. Il genio della Vulgata somma in sé il senso del compimento e la sensazione della disfatta. Il corpo di Gesù, il Cristo, è consumato: ora ne possiamo fare pasto. Litania, liturgia.

La consegna a Dio – accensione di regalità – si traduce in consegna all’uomo – ammissione di regicidio. E ora, morto, consumato, chi dite che io sia? Nell’ora in cui Gesù muore veramente, è sciabordio di interpreti, sciamano iene ed esegeti, gli esagitati dell’ultimo miglio.

Dalla croce, una torcia di rose: ci sia concessa la torsione.  

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