“Un’autobiografia malinconica”. Dialogo con Filippo Tuena su Eliot & Co.
Dialoghi
Francesco Subiaco
Che cos’è il paradiso, l’ho capito dall’attesa, l’ho capito aspettando la telefonata di una persona cara, o nel ricevere una mail da lei in procinto di venirmi a trovare. Quello che scopro è che l’attesa si annulla, l’attesa si azzera sempre, non rimane in noi, il seguito conquista tutto.
Il paradiso dev’essere questo, non un’attesa inutile, bensì attesa che si annulla nella prossimità dell’incontro. Quindi si attende senza aspettare, arricchendosi nella vicinanza della compagnia. È un po’ come in quei siti online che si scorrono con il cursore, arrivati in fondo ecco che il cursore sale in alto, rivelando che c’è ancora spazio da visitare, che non c’è fine e si può andare avanti ancora.
L’azzeramento corrisponde a una nuova qualità del sentire, aperta a una prospettiva rinnovata del vedere, del punto di vista, del soggetto in attesa, pronto ma mai afferrato da delusioni, sempre in atto di conoscere il vero. Questo io ho scoperto aspettando. È una scoperta sicura, non è qualcosa di effimero, è anticipo di ciò che sarà, già qui. Perciò ognuno è un mezzo, è un ponte per il mistero che c’è di là. Ognuno è creato, ed è fatto di questo. Attesa che viviamo del paradiso, attesa che non si accumula pesando sul nostro animo, fino a franare, annientandoci. L’attesa ci convince sul nostro stato.
Forti di questo, cresciamo immensamente, di minuto in minuto, di secondo in secondo, attimo dopo attimo. La concezione del tempo acquista una velocità impensabile, profonda, sublime. Avviene già fra noi, in relazione a fatti, cose e persone precisi, identificabili. Ad esempio, aspettando una persona che teniamo a cuore, si sente che il tempo si dilata, si curva su di noi e sullo spazio che ci sta intorno. Tutto cambia. Ce ne accorgiamo dai volti degli altri, non sembrano più estranei, non s’intercetta più nel loro sguardo una negatività, un limite, un’angustia. Il mondo sta lì, davanti a noi, per dire questo, affinché ci si ponga davanti a questo. E se avviene uno scontro, qualcosa che all’improvviso ferisce, quello rivela il non-ancora, il non-avvenuto-ancora, la stazione che vediamo sfuggire in velocità dal finestrino del treno in corsa, cioè l’immagine che ci attraversa gli occhi, ma senza fermarsi, senza fissarsi sulla retina, non impressionata dalla luce, dal colore, dal movimento. Siamo in attesa, dunque ci troviamo nell’attimo successivo, sempre e sempre.
Questa condizione io l’attribuisco a una percezione divina, che s’impasta in noi, si rapprende come la materia del colore nell’umido di un intonaco fresco, nell’affresco che noi siamo di Dio, nel dipinto che Lui fa giorno per giorno di noi, anche se non ce ne accorgiamo, anche se la nostra inconsapevolezza non è radice di male.
Cito l’amico poeta Daniele Piccini: “Così, così ritornerà compiuta / l’attesa fatta di tutte le crune”. Come a dire che la cruna non è passaggio stretto, bensì spalancamento continuo, e multiplo, improvviso, recante stupore, condizione umana che si apre, circonda, coinvolge. Ci si sente fiore commosso nel corso della lettura dei versi appena citati, per l’anticipo che si avverte nel dire, nel toccare lo spessore di questo passaggio, in eccedenza di linguaggio, come scrive il filosofo Paul Ricoeur nel suo La logica di Gesù, libro ispirato, felice, in cui si analizza lo stile del linguaggio cristiano, in particolare delle Beatitudini.
Essere amati è il grande privilegio
delle creature.
Inizia così Per la cruna (Crocetti Editore), di Daniele Piccini. Chi è amato?, viene da chiedersi. Davvero è privilegio?, o l’amore è il segno di quello che avverrà per tutti, che sta accadendo, è in atto. Troppo comodo se avvenisse in un colpo solo, penso io.
Anche quando si muovono
nella notte franosa, a basso lume,
qualcuno li conosce.
Chi?, chi è capace di questo riconoscimento se non qualcuno in stato d’amore, rapito dalla stessa conoscenza del farsi corpo, forma, riconoscibilità di corpo e forma, tratti dall’invisibilità che si rivela nell’attimo, in un barlume.
Qualcuno li contiene come un fiume,
anche se loro ignorano, incoscienti.
Il poeta apre alla carità, che, al contempo, persegue un mistero, già nello sguardo delle cose (delle cose, certo!), se non ci fosse quello sguardo che accoglie, fatto di carità e mistero, non ci sarebbe niente. Viene da parafrasare san Paolo: Se anche conoscessi tutto, e mi mancasse la carità, che cosa sarei? Infatti ci si perde per mancanza, per natura nostra di limitatezza. In realtà il recupero è in azione, ce lo dice il poeta; un radar appare nella poesia emblematicamente, capace di intercettare tutto l’amore del mondo, che non lascia fuggire. Niente è perso. Qui, gli altri, i nostri simili, le altre creature umane, si allontanano soltanto per essere contemplati, per vederli nella loro interezza. Perché sono degli interi, non degli uomini a metà.
Così si perdono lontani e vanno
ma non escono mai
da quel radar inquieto.
Si tratta di un radar che non riesce solo a individuare la posizione delle cose, la loro posizione nello spazio, è un radar che è in grado di arrivare ovunque, estremo frutto di amore, radar di vita caritatevole, che comprende.
Camere illuminate nelle notti.
Attenzione, il lume basso è diventato luce piena!
Ne ho viste nelle città più remote.
È luce che raggiunge i posti più lontani e inaccessibili.
Ognuna brilla come stella accesa.
La sua fornace manda lampi chiari.
Il buio è vinto! Ecco che ritorna l’uomo dell’inizio della poesia.
Rivedo la creatura a cui pensavo,
le stelle s’infittivano la prima
volta allo sguardo semplice.
È sempre lui ma è cambiato, è cambiato l’ambiente che lo circonda, oppure, si può dire, che è un ambiente più vasto a definirlo, un mare di stelle s’infittisce intorno a lui. È la vita di quell’uomo che s’illumina. Chi è?, adesso lo sappiamo, perché lo contempla uno sguardo innamorato, che s’innamora del suo mistero senza ostacoli.
Il vero protagonista è lo sguardo del poeta, punta elicoidale, mi piace dire, tale è la sua intensità, che indirizzando precisamente e per destino il vedere, ha già segnato con il suo sguardo l’uomo, e non lo lascia più. Ora l’uomo può vivere di vita propria, compiuta, sebbene ancora da vivere.
Cosa sarebbe stato, non sapevo.
Possibile?, viene da chiedersi. La poesia, nell’ultimo verso, sembra deludere il lettore, eppure non è paradossale il volere di Dio, che Dio voglia che noi viviamo, apparentemente abbandonati a noi stessi, ma in realtà individui supremi per benevolenza, per sacrificio, l’amore che ama per la prima volta attraverso la scoperta della sua natura, in perenne ascolto. “La psiche non è mai in silenzio” dice la filosofa Maria Zambrano, che è la modalità dell’agire dell’uomo, nell’ampliamento del suo essere. Il poeta, al colmo della sua tensione, è dotato anche di questo sentire illimitato. Il senso è portare tutto davanti a Dio.
Vincenzo Gambardella