Il grande poeta serbo Miodrag Pavlović pone alla poesia contemporanea un problema fondamentale. A cosa serve la poesia? È l’esiguo – o estremo – riflesso dell’io, delle proprie liriche aspirazioni? È poesia quella che attende il plauso, piena di ‘sentimenti’, grave di ‘impegno’? Che senso ha una poesia ‘confessionale’ se è slacciata dalla testimonianza? Che cosa ce ne facciamo di un io esuberante, formidabile retore, dalle vesti sgargianti, se è sganciato dal noi? E cosa intendiamo per noi? (Abissale distanza tra gli spettatori e chi è in attesa, chi attenta l’attesa).
Il tema è fondamentale perché riguarda l’atroce questione. A chi obbedisce il poeta? A cosa risponde la poesia, che precede il poeta, è innumerevole rispetto al poeta? Il romanziere, in qualche modo, ‘crea’, attraverso un linguaggio – la prosa – volubile, volitivo, a volte delittuoso, destinato a mutare, legato in profondità al proprio tempo. Il poeta, invece, riceve la poesia: avvolta in fasce, a volte. La poesia, come il fuoco, come un vaso, va custodita: da qui, la fatica di trovare le parole esatte, che superano la consueta questione sociale, che non infrangano i vasi. Come si fa con le bestie poco domestiche, il poeta trova le parole giuste per convincere la poesia a stare a casa sua qualche giorno in più. Tuttavia, la poesia è destinata a lasciare il poeta: deve essere consegnata.
Ma – appunto – cosa consegniamo? Consegnare il proprio cuore è cosa esigua, destinata a polverizzarsi; consegnare una reliquia è fare del mezzo lirico un perpetuo archeologico. Nato a Novi Sad nel 1928, studi a Belgrado, Miodrag Pavlović ha esordito con 87 pesama, nel 1952, attestandosi, quasi subito, come uno dei poeti europei più potenti del secondo Novecento. Secondo Miodrag Pavlović il poeta deve risarcire, deve colmare il tradimento. Dai Veda ai Salmi, dagli inni omerici a William Blake, in forme dirette o mediate, da ortodossi o da eresiarchi, la poesia è stata testimone del rito. Nell’assenza assoluta del rito – il Dio boccheggiante, l’uomo-dio, il quasi totale esilio da questo mondo (chi conosce i nomi degli alberi e delle piante commestibili; chi quelli delle costellazioni?, cielo-e-terra non ci appartengono più, restano straziati enigmi, sarchiati fino all’osso soltanto per ciò che possono produrre, non certo insegnare) per l’altro, virtuale – il poeta deve ricucire, emendare, bendare. L’opera non può essere che da paria: frammenti d’osso tenuti insieme con stelle filanti, parole ducali, però, diseducate alle mode, che dell’oggi dicono il fiore, il silenzio di una cattedrale, l’eco in una corazza. Quando si obbedisce a un rito – ritrovamento poetico – la poesia può tacere. Anche questo dice Miodrag Pavlović – in calce, abbiamo tradotto due frammenti da un dialogo avvenuto a Belgrado nel 1979, sul tema. La poesia è necessaria per dissotterrare quella parola che la farà tacere. Poesia: lanterna che ci aiuta a trovare il sole; dopo, possiamo spegnerla. Altri seguiranno le tracce del fuoco.
Non è estraneo ai grandi interrogativi dell’era, Miodrag Pavlović: le sue riflessioni ricorrono nei lavori di Robert Graves e di Ted Hughes, ad esempio. Non si corra il rischio, però, di chiamare tradizione il corpo sempre nuovo, infante, del rito: non bisogna proteggere ciò che deve essere mangiato. Miodrag Pavlović, pur appassionato del Medioevo serbo, poeta-miniatore, minatore di parole andate, non fa archeologia, recupero aforistico del tempo che fu: ingoia l’oggi.
Miodrag Pavlović è morto in Germania, nel 2014. Dieci anni prima, era uscito l’unico libro tradotto in Italia del grande poeta: s’intitola L’ultimo pranzo, stampa Le Lettere, a cura di Stevka Šmitran. Un centinaio di pagine; una sorta di breviario lirico, da sfogliare di continuo, lasciando che i versi si incidano sull’avambraccio del giorno. Un libro miliare. Nel 2014, nel mondo inglese, è uscita una raccolta di Selected Poems; in Francia sono stati pubblicati diversi libri di Pavlović: Le Gant Gauche: églogues (2006), Entrée à Crémone (2008), Cosmologia Profanata. Poésie (2009). Di recente, l’opera di questo poeta inesorabile pare calibrata nell’oblio.
Vi sono, certamente, ragioni di egemonia letteraria: la Serbia non è la Francia né gli Stati Uniti. Poeti così possenti stonano nella costante acquiescenza culturale, nell’era del poeta che si fotografa per dire che è un poeta. Recitare i salmi fa paura, sostare all’ombra del tempio chiede la forza di annientarsi, di condurre a volti le mani. Nel poeta è implicito il servizio: latori della propria latitanza e della propria contraddizione. Sicuri del proprio nulla. “La morte è l’avvenimento più importante della storia dell’uomo, perché da essa dipende la sua vita immortale”, recita il breviario. Parola purissima. La poesia apre le porte, slaccia le museruole. Non ammette ‘pubblico’, infiamma un popolo, colloca un trogolo per il dio.
***
Discorso sulla piana della battaglia
Era giorno di festa. Abbiamo montato i cavalli,
lasciato gli aratri –
perché arare –
gridavano i campi
e le donne alzavano le mani.
Portavo i soldati a far niente
ché nel profumo dell’erba virginea
riflessi nella lama del pugnale
scoprissero le estremità del loro corpo dolente.
Alla radice è recisa la festa
e su di noi si abbatte il sole pesante come la quercia.
Abbiamo disteso i vessilli sotto l’acqua
e sul fondo cadevano lance come candele,
lampeggiò sul fiume il tuono
e io vidi i miei soldati:
non combattevano più, non avevano forze,
le loro ferite si aprono come grosse branchie
e con l’indice nel fango
cancellano i loro nomi.
I loro capi si contendevano due divinità
e numerosi pesci.
Dove si va con la spada infissa nella gola, dove?
adesso mi chiedono.
Risalire, dico, come fossimo dei pesci,
è presto per riposarsi al mare,
andiamo verso la visibile pietra all’ombra dell’arcobaleno,
per sorreggere sulle spalle le nostre tristi montagne.
*
Nella quiete di San Sava a Caria
Vivo sotto lo stesso tetto con il volto di Cristo e con me stesso. Prego secondo il mio orario, eppure con il Suo Verbo. A volte sento la sua presenza sotto le mie vesti, o è il battito dell’arteria sotto la mia lingua. Volentieri si unisce a me quando m’acquieto. Può sembrare: si è assentato per un periodo di tempo. ha visto in lontananza il popolo fermo sul precipizio di una fossa. Io e il mio orologio vogliamo fermare tutto ciò che là potrebbe avvenire. L’eternità è un bel posto: me lo tengo stretto in questi tempi oscuri.
Traduzione di Stevka Šmitran
*
Il sole tramonta
Il tramonto
trascina i bambini che urlano sotto
le sottane finestre: giocano al freddo
Quando il cielo si chiude
sull’indifeso non devi
mostrare paura
né ridere
Prigioniero
Piegati
apri la mano
e lascia che il corvo si nutra
dal tuo morbido palmo
Non temere vento o pietra
ogni ferita è una selce di fuoco
quando fissi la faccia dell’oscurità
Libero
sangue che scorre
tra la notte e il giorno
Gioia
ti insegue
da tutta una vita
Gioia
**
“Credo, come tanti, che essere un poeta significhi accogliere diversi aspetti dell’esperienza umana. È difficile trovare il fondamento vivente dell’essere: questo è il compito del poeta. Gli esistenzialisti credevano che la morte, la mortalità, fosse il fondamento dell’uomo. Credo che l’unità dell’uomo sia composta da qualcos’altro, di irriducibile e complesso allo stesso tempo. In questa contraddizione mi addentro. Credo che la vita rituale e quella comunitaria (in senso arcaico) rivelino una forma di vita davvero poetica, che diventa rilevante nell’epoca dell’oblio. Molte delle angosce del nostro tempo sono la conseguenza dell’assenza di riti. Il poeta insegue il poema, certo, ma è anche il testimone del rito. Ricordare il rito mi sembra più importante di scrivere una poesia. Penso che la mia evoluzione sarà compiuta una volta che saprò scrivere poemi già scritti, inscritti nella tradizione. Posso rinunciare alla poesia, saprei farlo. Per certi versi, questa rinuncia è necessaria. Forse la mia visione è paradossale. Non intendo scrivere poesie popolare secondo una tradizione folklorica, riscoperta. Non mi importa: esistono già poeti che si sono ispirati ai grandi poemi della tradizione – ma questa tradizione, appunto, è sempre stata superiore ai testi dei poeti che l’hanno assunta come modello. Quando ho compreso un po’ più a fondo i crismi della tradizione popolare slava, il mio desiderio di scrivere poesie si è attenuato. Non trovo che tale sterilità sia impropria. Significa che c’è un trasporto, una mistica partecipazione a quanto ci è stato trasmesso. Che questa tradizione sia vedica, egizia, apparentata ai salmi di Davide, non importa. Esistono luoghi privilegiati, nel mondo e nel tempo, in cui abbiamo trovato grande poesia – spazi che hanno portato un momento impeccabile della conoscenza di sé. Questi stadi della coscienza, così elevati, non richiedono necessariamente che si scriva poesia. Il poeta dovrebbe cercare di oltrepassare il proprio narcisismo: la sua poesia non è l’ultima parola sul creato”.
“Un poeta che voglia essere profeta del quotidiano, dell’immediata esperienza, tradisce la complessità dell’uomo. Il tratto umano è la verticalità. Anche la poesia si sviluppa in verticale. Questa ostinazione nel produrre testi verticali mi sorprende sempre. Questo moto verticale riguarda la spiritualità, senz’altro, ma non del tutto: altrimenti, sarebbe una spiritualità materialistica, una spiritualità che si erge e che esige sguardi. È, invece, il segno grafico di un uomo che si alza in piedi e che pensa. Possiamo interrogarci su questa verticalità… Forse la poesia verticale è vertigine che interrompe lo scorrere sincronico del tempo: è una resistenza che slega, propria di un uomo che vuole essere plurale più che unidimensionale. Tuttavia, preferisco cercare poesie che definizioni di poesia”.