Qui ci si inerpica nella blasfemia. Quando le parole che squadernano segreti, sussurrate da maestro ad allievo, diventano ‘pubbliche’, riferite in libri con l’obbrobrio del prezzo e la copertina, se ne fa scempio. Una volta svelata, sventrata – per di più, sminuita a letamaio di merce – la parola segreta perde in potenza; empia razzia nelle segrete del segreto: i mondi non si apriranno più come una mano; il discepolo non si tramuterà più in corvo e in faina, in pietra e in tuono; i morti non risorgeranno per via di un acciarino verbale; la formula non placherà il male, non vincerà gli spettri, additandoli ad effimere. Una volta pubblica – disponibile in libreria, nel luogo dove la sostanza imperitura del libro deperisce, fa vanto del transitorio e il libro, per natura eterno, si fa etereo oggetto, moribondo – la parola magica diventa poetica, la pratica nei misteri si fa ginnastica. Il bene si muta in benessere, l’agonia nel sacrario agonismo per palestrati del sacro, l’ascesi come fitness, lo yoga per tutti.
Della parola che dava avvio agli astri e faceva splendere il creato, oggi, ci resta la cenere, spuma d’argento; il verbo ‘agente’ solletica i sentimenti; il vocabolo-verità si smaterializza in una bruma di similitudini, meravigliose, magari, ma monche. L’inattuale è inattuabile. Del formulario che dava ragione del mondo, del tempo, abbiamo i residui, i gusci vuoti, i cocci studiati dagli accademici. Ma quando un ‘movimento’ verbale – già: la danza che semina i mondi – si atrofizza in alti studi universitari è carcassa, mostra la peste, cosa di cui si parla nei convegni, che non ha più attinenza con il Regno. Un tempo teurgia, oggi teofania dei profani, palandrana per prof, professione, appunto.
Meriggiare del poeta, eresiarca del verbo: non chiedergli se sia veritiero il suo dire – non può dirlo, dacché il verbo, sempre, transita il suo opposto, le false scorie –, si accontenti di cantare il creato, di farsene stupefatto accolito.
Così scriveva del mistico fervore Gershom Scholem, nel suo studio sulle Grandi correnti della mistica ebraica:
“Solo quando la religione ha ricevuto nella storia la sua espressione classica, nella vita di un determinato credo e di una determinata comunità, diviene possibile la mistica… Essa scorge il grande abisso, anzi prende addirittura le mosse dall’esperienza di questo, e avendone piena coscienza, cerca un segreto e una via che lo superi e cerca di ristabilire su una nuova base l’unità distrutta dalla religione, quell’unità nella quale il mondo del mito e quello della rivelazione si incontrano nell’anima umana. E pertanto la sua scena è costituita essenzialmente dall’anima, e il suo oggetto è il cammino dell’anima oltre l’abisso della molteplicità verso l’esperienza della realtà divina, che adesso appare come l’originaria unità di tutte le cose… La religione mistica cerca quindi di fare di Dio – di quel Dio che le si presenta nelle specifiche rappresentazioni religiose delle comunità in cui essa si sviluppa – oggetto di nuova e viva esperienza, invece che oggetto del sapere e della dommatica”.
Rivelando il sale della mistica, Scholem lo cristallizzava in fatto ‘storico’, cioè concluso, terminato. Lo Zohar, il più ambiguo e remoto testo della Qabbalah ebraica, si acquista facilmente, in straordinaria edizione Einaudi. Che possa trattarsi di un “falso ben congegnato” è appropriato – direbbe Borges – al fervore mistico: verità e menzogna sono antinomie terrene.
Voglio dire: che ne è del fondo magico del verbo? Perché la parola non attecchisce più nel mondo? Perché gli ordini – politici, militari, pubblicitari – hanno sostituito l’Ordine? Cosa succede davvero quando ripeto una formula forgiata millenni fa? Cosa accade nella realtà (terrena e ultraterrena) – non nel mio greve abito emotivo – quando ripeto il Pater o il Symbolum? Perché i cristiani, cristianamente, non parlano più in lingue, non risuscitano i morti e non scacciano i demoni (come vuole il Vangelo)? È il Verbo che ci ha mollati o siamo noi che non ne riconosciamo le briglie, la criniera, il morso?
Qualche anno fa, il poeta statunitense Peter Cole ha ricondotto gli arcani testi della Qabbalah alla loro “ragione lirica”. The Poetry of Kabbalah è stato pubblicato nel 2012 dalla Yale University Press: la forzatura poetica – un inganno di specchi coperti dal velo – permette di penetrare nel forziere della mistica ebraica, spesso sigillato a doppia mandata. L’azzardo di Peter Cole non è una novità; si inscrive in una lunga genia di traduzioni anglofone che hanno per patriarca Edward FitzGerald (singolare interprete delle quartine di Omar Khayyam) e per profeta Ezra Pound (che con Cathay ha “inventato” l’antica lirica cinese “all’occidentale”). Precisando le sue scelte, Peter Cole ha scritto, tra l’altro:
“La posta in gioco non potrebbe essere più alta: estrarre la luce da una faretra di suoni; ascendere al Trono di Dio e fissare la Sua Gloria; sradicarsi dalla grossolanità e dalle forze oscure; marciare verso la redenzione, a volte penetrando il peccato; giungere all’alta unione erotica, vale a dire al sacro matrimonio dell’aspetto maschile e femminile della Deità. ‘Grande è il potere del poema recitato per amore del cielo’, scrive un cabbalista nordafricano vissuto nel XVII secolo. ‘Unisce le qualità spirituali nell’offerta sacrificale, allinea i valichi celesti, origina lo splendore dei mondi di sopra e di sotto’. In questo contesto, le poesie non descrivono soltanto un processo mistico: lo producono. Cercano il ritorno all’armonia primordiale dopo la catastrofe della creazione e della trasgressione di Adamo; chi compone e pronuncia inni mistici partecipa alla continua riconfigurazione del cosmo”.
Resta il fatto: i cancelli del cielo sono chiusi davanti a noi; gli angeli appaiono trasfigurati in acquazzoni; ci è estraneo il chiacchiericcio della cordigliera dei corvi. Ridurre la sacra parola della Qabbalah a letteratura significa adempierne l’inutilità; ma se la sacra parola non è più scala, non è più spada, rischia di essere l’ombra del verbo, nient’altro che una brutta poesia, lirica chierichetta. Che fare? Immolarsi alla levatrice solitudine; bearsi di ciò che non siamo e non saremo.
Far danzare il bosco, portare in stazione eretta i fiumi, conferire un’anima alle rocce chiede la vita nascosta e imbarbarire in tamburo il verbo. Per ora, leggiamo i libri, sentiamoci spiritualmente ‘ricchi’, i re di questo sperpero.
**
Sefer Yetzirah
(III-IV secolo)
Al principio, ventidue lettere.
Incideva, scavava, pesava
combinava e trasmutava:
con esse ha creato tutto
tutto ha modellato.
Ventidue lettere
distillate dalla voce
forgiate dal respiro
innestate nella bocca
in cinque luoghi
suoni dalla gola
suoni dalle labbra
suoni dal palato
suoni dietro la trincea dei denti
suoni nei lembi della lingua.
Ha creato la sostanza dal Nulla
da ciò che non c’era ciò che ora c’è
ha intagliato colonne colossali
quando l’aria era un’incudine.
Ha combinato e modellato
la creazione perché
fosse riassunta
dentro un singolo Nome:
il segno che ne reca
testimonianza: ventidue
lettere che legano
un singolo corpo.
Da ora in poi considera
ciò che bocca non può dire
ciò che orecchio non può udire.
**
Yose ben Yose
(Israele, IV-V secolo)
Proclamerò le potenti opere di Dio
gloria è il suo potere.
Egli è l’unico Dio
altri non ce n’è;
nessuno oltre a Lui
nessuno gli è secondo;
nessuno dopo di Lui sulla terra
nessuno prima di Lui nei cieli
nessuno tranne Lui all’origine
nessuno sarà con Lui alla fine.
Regale nel pensare, divino nell’agire
quando prende consiglio, tutti lo attendono
quando dà ordini nessuno tarda a obbedire.
Egli parla e tutto accade
designa e ottiene
sorregge il mondo con la forza
la sua volontà lo vivifica.
Le creature lo invocano nel canto
terra e cielo lo lodano.
L’Unico
il Santo
l’Onnipotente
distilla canti dalle acque
peana dagli abissi
adorazione dagli astri
ornamento dai giorni
melodia dalle notti
fuoco grida il Suo nome
il bosco inneggia di gioia
le bestie fanno chiacchiere intorno alle sue terribili gesta.
**
Yanai
(VI secolo)
Dal cielo ai cancelli dei cieli
Dai cancelli dei cieli alle alte tenebre
Dalle alte tenebre alle alte dimore
Dalle alte dimore alle celesti sale
Dalle celesti sale alle porte del paradiso
Dalle porte del paradiso all’empireo
Dall’empireo al trono
E dal trono al carro
Chi può immaginarti
Chi può avvicinarti
Chi ti ha visto
Chi ti ha scorto
Chi ti tiene testa con occhi desti
Chi in te insiste
Chi in te persiste
Chi osa osarti
Chi ti acconcia
Chi è così cieco
Da tramare in Te
Quando domi il cherubino
E fluttui nel vento
E vaghi nel tuono
E muovi le tempeste
E apri le acque
E mondi le fiamme
Decine di migliaia
Diventano uomini
Diventano donne
Diventano spiriti
Si elevano demoni
Di ogni somiglianza adorni
Per adempiere i Tuoi compiti
Con reverenza, atterriti dal timore
Scivolando nel balbettio
Disarticoliamo le bocche
Per esaltare il tuo Nome Santo
Santo Santo Santo
Signore degli Eserciti
Il mondo è pieno della Tua gloria.
*
Per ascendere
Anonimo, Palestina, II-VIII secolo ca.
Per ascendere
e inabissarsi
per guidare le ruote del carro
ed esplorare il mondo
e vagare sulla terra
e contemplare lo splendore
per abitare sulla corona
e risuonare nella Gloria
incoccare le lodi
e soppesare le lettere
per pronunciare i nomi
ecco cosa c’è
sopra e sotto
per conoscere il senso
dei vivi e vedere
le visioni dei morti.
Per guadare fiumi di fuoco
e imparare l’arte dei fulmini.