20 Giugno 2024

“Imparare l’arte dei fulmini”. La poesia della Qabbalah

Qui ci si inerpica nella blasfemia. Quando le parole che squadernano segreti, sussurrate da maestro ad allievo, diventano ‘pubbliche’, riferite in libri con l’obbrobrio del prezzo e la copertina, se ne fa scempio. Una volta svelata, sventrata – per di più, sminuita a letamaio di merce – la parola segreta perde in potenza; empia razzia nelle segrete del segreto: i mondi non si apriranno più come una mano; il discepolo non si tramuterà più in corvo e in faina, in pietra e in tuono; i morti non risorgeranno per via di un acciarino verbale; la formula non placherà il male, non vincerà gli spettri, additandoli ad effimere. Una volta pubblica – disponibile in libreria, nel luogo dove la sostanza imperitura del libro deperisce, fa vanto del transitorio e il libro, per natura eterno, si fa etereo oggetto, moribondo – la parola magica diventa poetica, la pratica nei misteri si fa ginnastica. Il bene si muta in benessere, l’agonia nel sacrario agonismo per palestrati del sacro, l’ascesi come fitness, lo yoga per tutti.

Della parola che dava avvio agli astri e faceva splendere il creato, oggi, ci resta la cenere, spuma d’argento; il verbo ‘agente’ solletica i sentimenti; il vocabolo-verità si smaterializza in una bruma di similitudini, meravigliose, magari, ma monche. L’inattuale è inattuabile. Del formulario che dava ragione del mondo, del tempo, abbiamo i residui, i gusci vuoti, i cocci studiati dagli accademici. Ma quando un ‘movimento’ verbale – già: la danza che semina i mondi – si atrofizza in alti studi universitari è carcassa, mostra la peste, cosa di cui si parla nei convegni, che non ha più attinenza con il Regno. Un tempo teurgia, oggi teofania dei profani, palandrana per prof, professione, appunto.

Meriggiare del poeta, eresiarca del verbo: non chiedergli se sia veritiero il suo dire – non può dirlo, dacché il verbo, sempre, transita il suo opposto, le false scorie –, si accontenti di cantare il creato, di farsene stupefatto accolito.

Così scriveva del mistico fervore Gershom Scholem, nel suo studio sulle Grandi correnti della mistica ebraica:

“Solo quando la religione ha ricevuto nella storia la sua espressione classica, nella vita di un determinato credo e di una determinata comunità, diviene possibile la mistica… Essa scorge il grande abisso, anzi prende addirittura le mosse dall’esperienza di questo, e avendone piena coscienza, cerca un segreto e una via che lo superi e cerca di ristabilire su una nuova base l’unità distrutta dalla religione, quell’unità nella quale il mondo del mito e quello della rivelazione si incontrano nell’anima umana. E pertanto la sua scena è costituita essenzialmente dall’anima, e il suo oggetto è il cammino dell’anima oltre l’abisso della molteplicità verso l’esperienza della realtà divina, che adesso appare come l’originaria unità di tutte le cose… La religione mistica cerca quindi di fare di Dio – di quel Dio che le si presenta nelle specifiche rappresentazioni religiose delle comunità in cui essa si sviluppa – oggetto di nuova e viva esperienza, invece che oggetto del sapere e della dommatica”.

Rivelando il sale della mistica, Scholem lo cristallizzava in fatto ‘storico’, cioè concluso, terminato. Lo Zohar, il più ambiguo e remoto testo della Qabbalah ebraica, si acquista facilmente, in straordinaria edizione Einaudi. Che possa trattarsi di un “falso ben congegnato” è appropriato – direbbe Borges – al fervore mistico: verità e menzogna sono antinomie terrene.

Voglio dire: che ne è del fondo magico del verbo? Perché la parola non attecchisce più nel mondo? Perché gli ordini – politici, militari, pubblicitari – hanno sostituito l’Ordine? Cosa succede davvero quando ripeto una formula forgiata millenni fa? Cosa accade nella realtà (terrena e ultraterrena) – non nel mio greve abito emotivo – quando ripeto il Pater o il Symbolum? Perché i cristiani, cristianamente, non parlano più in lingue, non risuscitano i morti e non scacciano i demoni (come vuole il Vangelo)? È il Verbo che ci ha mollati o siamo noi che non ne riconosciamo le briglie, la criniera, il morso?

Qualche anno fa, il poeta statunitense Peter Cole ha ricondotto gli arcani testi della Qabbalah alla loro “ragione lirica”. The Poetry of Kabbalah è stato pubblicato nel 2012 dalla Yale University Press: la forzatura poetica – un inganno di specchi coperti dal velo – permette di penetrare nel forziere della mistica ebraica, spesso sigillato a doppia mandata. L’azzardo di Peter Cole non è una novità; si inscrive in una lunga genia di traduzioni anglofone che hanno per patriarca Edward FitzGerald (singolare interprete delle quartine di Omar Khayyam) e per profeta Ezra Pound (che con Cathay ha “inventato” l’antica lirica cinese “all’occidentale”). Precisando le sue scelte, Peter Cole ha scritto, tra l’altro:

“La posta in gioco non potrebbe essere più alta: estrarre la luce da una faretra di suoni; ascendere al Trono di Dio e fissare la Sua Gloria; sradicarsi dalla grossolanità e dalle forze oscure; marciare verso la redenzione, a volte penetrando il peccato; giungere all’alta unione erotica, vale a dire al sacro matrimonio dell’aspetto maschile e femminile della Deità. ‘Grande è il potere del poema recitato per amore del cielo’, scrive un cabbalista nordafricano vissuto nel XVII secolo. ‘Unisce le qualità spirituali nell’offerta sacrificale, allinea i valichi celesti, origina lo splendore dei mondi di sopra e di sotto’. In questo contesto, le poesie non descrivono soltanto un processo mistico: lo producono. Cercano il ritorno all’armonia primordiale dopo la catastrofe della creazione e della trasgressione di Adamo; chi compone e pronuncia inni mistici partecipa alla continua riconfigurazione del cosmo”.

Resta il fatto: i cancelli del cielo sono chiusi davanti a noi; gli angeli appaiono trasfigurati in acquazzoni; ci è estraneo il chiacchiericcio della cordigliera dei corvi. Ridurre la sacra parola della Qabbalah a letteratura significa adempierne l’inutilità; ma se la sacra parola non è più scala, non è più spada, rischia di essere l’ombra del verbo, nient’altro che una brutta poesia, lirica chierichetta. Che fare? Immolarsi alla levatrice solitudine; bearsi di ciò che non siamo e non saremo.

Far danzare il bosco, portare in stazione eretta i fiumi, conferire un’anima alle rocce chiede la vita nascosta e imbarbarire in tamburo il verbo. Per ora, leggiamo i libri, sentiamoci spiritualmente ‘ricchi’, i re di questo sperpero.

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Sefer Yetzirah

(III-IV secolo)

Al principio, ventidue lettere.

Incideva, scavava, pesava

              combinava e trasmutava:

con esse ha creato tutto

                            tutto ha modellato.

Ventidue lettere

distillate dalla voce

forgiate dal respiro

innestate nella bocca

              in cinque luoghi

                            suoni dalla gola

                            suoni dalle labbra

                            suoni dal palato

                            suoni dietro la trincea dei denti

                            suoni nei lembi della lingua.

Ha creato la sostanza dal Nulla

da ciò che non c’era ciò che ora c’è

ha intagliato colonne colossali

quando l’aria era un’incudine.

Ha combinato e modellato

la creazione perché

fosse riassunta

dentro un singolo Nome:

il segno che ne reca

testimonianza: ventidue

lettere che legano

un singolo corpo.

Da ora in poi considera

ciò che bocca non può dire

ciò che orecchio non può udire.

**

Yose ben Yose

(Israele, IV-V secolo)

Proclamerò le potenti opere di Dio
               gloria è il suo potere.
Egli è l’unico Dio
                  altri non ce n’è;
nessuno oltre a Lui
          nessuno gli è secondo;
                  nessuno dopo di Lui sulla terra
nessuno prima di Lui nei cieli
nessuno tranne Lui all’origine
              nessuno sarà con Lui alla fine.
Regale nel pensare, divino nell’agire
quando prende consiglio, tutti lo attendono
quando dà ordini nessuno tarda a obbedire.
Egli parla e tutto accade
           designa e ottiene
sorregge il mondo con la forza
            la sua volontà lo vivifica.
Le creature lo invocano nel canto
terra e cielo lo lodano.
L’Unico
           il Santo
                       l’Onnipotente
distilla canti dalle acque
         peana dagli abissi
         adorazione dagli astri
         ornamento dai giorni
         melodia dalle notti
fuoco grida il Suo nome
      il bosco inneggia di gioia
           le bestie fanno chiacchiere intorno alle sue terribili gesta.

**

Yanai

(VI secolo)

Dal cielo ai cancelli dei cieli

              Dai cancelli dei cieli alle alte tenebre

                            Dalle alte tenebre alle alte dimore

                                          Dalle alte dimore alle celesti sale

                                                         Dalle celesti sale alle porte del paradiso

                                                                       Dalle porte del paradiso all’empireo

                                                                                     Dall’empireo al trono

                                                                                                   E dal trono al carro

Chi può immaginarti

              Chi può avvicinarti

                            Chi ti ha visto

                                          Chi ti ha scorto

                                                         Chi ti tiene testa con occhi desti

                                                                       Chi in te insiste

                                                                                     Chi in te persiste

                                                                                                   Chi osa osarti

                                                                                                                 Chi ti acconcia

                                                                                                                               Chi è così cieco

                                                                                                                                             Da tramare in Te

Quando domi il cherubino

              E fluttui nel vento

                            E vaghi nel tuono

                                          E muovi le tempeste

                                                         E apri le acque

                                                                       E mondi le fiamme

                                                         Decine di migliaia

                                          Diventano uomini

                            Diventano donne

              Diventano spiriti

Si elevano demoni

              Di ogni somiglianza adorni

                            Per adempiere i Tuoi compiti

Con reverenza, atterriti dal timore

              Scivolando nel balbettio

                            Disarticoliamo le bocche

                                          Per esaltare il tuo Nome Santo

                            Santo Santo Santo

Signore degli Eserciti

Il mondo è pieno della Tua gloria.

*

Per ascendere

Anonimo, Palestina, II-VIII secolo ca.

Per ascendere
e inabissarsi
per guidare le ruote del carro
ed esplorare il mondo
e vagare sulla terra
e contemplare lo splendore
per abitare sulla corona
e risuonare nella Gloria
incoccare le lodi
e soppesare le lettere
per pronunciare i nomi
ecco cosa c’è
sopra e sotto
per conoscere il senso
dei vivi e vedere
le visioni dei morti.
Per guadare fiumi di fuoco
e imparare l’arte dei fulmini.

Gruppo MAGOG