18 Settembre 2020

“L’ideologia del facile ha reso l’artista un burocrate”. Alla scoperta di Ugo Leonzio, il genio nel miraggio

Riuscì a sparire, che mistica meta, insabbiando perfino la propria morte, nonostante la coincidenza, limpida come una campana – muore 500 anni dopo Leonardo da Vinci, il 2 maggio del 2019. Di Ugo Leonzio non ha scritto quasi nessuno, lo scritto di Franco Cordelli sul “Corsera”, quasi un anno dopo, lo ammette, da subito, “Il 2 maggio dello scorso anno morì un grande scrittore, Ugo Leonzio: allora nessuno lo comunico né poi lo ricordò”. In questo paese di vili, Leonzio si camuffò dietro un’insondabile severità – riuscì a schivare la fama, la fanfara, i fanfaroni.

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Scoprii Leonzio, anni fa, leggendo l’edizione Guanda di Bagatelle per un massacro. Era il 1981, il libro fu ritirato dal mercato l’anno dopo per ordine del tribunale di Milano. Tradotto da Giancarlo Pontiggia, il pamphlet di Céline è anticipato da un testo di Leonzio. Il testo s’intitola Dolore e corruzione, inizia così: “Per molto tempo ho cercato di spiegarmi perché Bagatelles pour un massacre fosse l’unico libro veramente infernale prodotto dalla letteratura francese dopo Choderlos de Laclos. Ogni metodo usato per situare o circoscrivere questo disumano atto d’accusa e di autoaccusa rischia di apparire funesto o ridicolo: ridicole le motivazioni patologiche («un momento di follia») e quelle estetiche («L’antisemitismo è solo una metafora dell’odio per il mondo»); funeste quelle psicologistiche («Céline vuole fare scandalo perché in una fase di impotenza creativa») e quelle enigmatiche («Bagatelles è un pamphlet antisemita ma noi non sappiamo cosa siano gli ebrei per Céline»). Per quanto queste sciocchezze contengano sempre un riverbero di verità, la realtà è che la materia di questo libro, più che ributtante è intrattabile, impermeabile a qualsiasi giudizio che non pretenda di usarla”. L’ultima frase dell’intro – “L’odio è la forma più profonda e incomunicabile dell’amore” – è corrusca e autentica. Di Ugo Leonzio, d’altronde, non si trova nulla.

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Nato a Milano nel 1941, studi all’Accademia del Piccolo Teatro, Ugo Leonzio va scoperto nella scomparsa. È come se seguissi tracce che sfociano su un baratro. Tracce di tigre che si perdono sulla pietra biblica, in bilico. La seconda volta scopro Leonzio negli archivi del Premio Riccione, nei recessi della Biblioteca civica. È sempre il 1981, l’anno delle Bagatelles. Leonzio vince il Premio Riccione con Il testamento dell’orso schermitore. “Il relatore non ha difficoltà a riconoscere in questo testo, per quanto lo riguarda, l’opera più interessante fra quelle che gli è capitato fino a questo momento di leggere”, scrive, nelle conclusioni Fausto Curi. A Leonzio, in quella edizione, affiancano Dacia Maraini, più nota ed edificante, forse, per Lezioni d’amore, nonostante le recise critiche espresse proprio da Curi, che accusa la scrittrice di «brillante frivolezza» di «una futile scioltezza linguistica» che rendono «il lavoro gradevole e inutile». Ergo: «da escludere». Invece, vinse.

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Leonzio fa tutto in una manciata di decenni. Pubblica La norma (1972) e Tre sogni (1977) per Einaudi e Il cielo e la terra (1980) per Guanda. I tre romanzi non vengono più ristampati, scompaiono, appunto. Leonzio è scrittore inattuale, inattingibile, impubblicabile. “La letteratura è sperimentalismo. Manzoniera uno sperimentalista, come Gadda e Landolfi. Nessuno di loro è mai stato avanguardista.  Questo perché mentre l’avanguardia nega ogni rapporto con la tradizione, lo sperimentalismo mantiene invece un rapporto produttivo con ciò che lo precede. È inevitabile parlare con i maestri defunti. Perché scrivere è un’evocazione, non una profezia. Un artista non parla del mondo, parla di sé e in questo modo dà vita ad un mondo che vuole sostituirsi a quello che c’è. Non mira a cambiare il mondo bensì a distruggerlo, sostituendogli la propria verità, privata e ingiustificabile”, scrive Leonzio.

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Antonio Porta, recensendo Tre sogni sul “Corriere della sera”: “Si respira l’aria altamente elettrizzata di uno dei filoni portanti della narrativa contemporanea: quello che parte da Kafka e attraversa il surrealismo”. Verrebbe da chiedersi che aria si respira oggi.

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Di Ugo Leonzio, in giro, restano due cose soltanto. Intanto, la “Storia generale delle droghe”, Il volo magico, pubblicato da Sugar nel 1969 – quando Leonzio aveva 28 anni – poi riedito da Mondadori (1971), da Einaudi (1997) e ora da il Saggiatore (con una prefazione di Agnese Codignola). Dalla cannabis all’oppio, dal peyotl alla coca e la mandragora, il libro è una specie di matematica onirica, di enciclopedia dell’eccentrico e dell’eccitante. Nell’introduzione, Il tramonto dell’invisibile, scritta con estroso talento sotto la tutela, in epigrafe, di William Blake (“È stato nel Pleistocene? Nel buio delle caverne, osservando le ombre dei falò così simili ai fuochi danzanti che esplodevano nel cielo? C’è stato un mese, un giorno, un’ora in cui qualcuno scoprì il segreto che legava le piante al cosmo e i ritmi clorofilliani alla Via Lattea?”), è detto tutto. Il passaggio della droga da assunzione sacra a moda, da impegno sciamanico a impeto di mercato, da estasi a estenuazione, da regno della visione a tempio del denaro. “Nessuna intuizione, nessuna scoperta, nessuna poesia, nessuna meditazione ha più eguagliato l’attimo in cui le porte della percezione si sono spalancate su questo strano mondo”. Insomma, “il visibile e l’invisibile non erano separati”: d’altronde si vive per sondare gli spiragli dell’ombra, per sconfiggere l’illusione della forma nell’implacabile.

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La Radiotelevisione svizzera ha in archivio diverse trasmissioni di Leonzio, da alcune biografia – Simone Weil, Virginia Woolf, Hölderlin – a interventi sul mito greco e sulla sapienza orientale. Ricalco, piuttosto, una antologia di pensieri di Ugo Leonzio (qui trovate altro, in forma più estesa):

“Abbiamo oggi una richiesta massiccia di libri facili, cioè di libri che debbono parlare di cose note a tutti e che non debbono usare una lingua ignota. Tutto deve entrare nelle esperienze del lettore il quale deve leggere non per capire ma per sentirsi sicuro. Lo stesso uso che si fa dei classici risponde a questo principio. Un classico non è mai qualcosa da scoprire, ma qualcosa che rassicura. Poco importa che un autore classico sia perennemente nuovo. Un classico deve essere un libro importante, appunto perché classico, un totem. Oggi la gente legge L’idiota non perché è L’idiota ma perché sa che è un capolavoro. È davvero tremendo: attribuisce un valore ad un’opera e nel momento in cui glielo attribuisce, glielo toglie: è un valore che non ti commuove più”.

“Quando penso alla letteratura di regime penso a questo. Il fenomeno oggi è gravissimo e, quel che è peggio, contagioso. Un giovane che oggi scrive un romanzo di 700 pagine non troverà un editore disposto a stamparglielo. Siamo circondati da operine brevi e facili perché il Gusto, dunque il regime, impone una letteratura in cui tutti debbono farsi capire… L’ideologia del facile, in fondo, disinnesca i meccanismi che possono portare a capire meglio. Il contagio di questo tipo di gusto ha portato alla burocratizzazione degli artisti”.

“La letteratura è qualcosa che fa dell’artista uno che non ama i propri simili e che privilegia il sorgere di emozioni che difficilmente nascono da supine acquiescenze. Non facciamoci illusioni: lo scrittore è uno che scrive nella solitudine e che si rivolge a qualcuno e che a sua volta è solo”.

“Tutti i grandi artisti sono di gran lunga inferiori alle loro opere. Esse nascono da urgenze che misteriosamente si concentrano in un individuo, il quale ha dentro di sé il pharmakos, l’uomo bendato ed espulso dalla polis, dalla comunità e che nell’essere espulso, cacciato, concede alla città di salvarsi. Il letterato è il suo inverso: è uno che nella città ingrassa”.

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L’altro è il Bardo Thödol, il “Libro dei morti tibetano”, curato nel 1996 per Einaudi, ora in catalogo Feltrinelli. L’introduzione – 50 pagine nell’edizione Einaudi – è un libro a sé. “Se mai doveste risolvervi a traversare, in un attimo o in un tempo infinito, i Regni Oltremondani, potreste trovare in questo Grande Thödol la più imprevedibile confessione che la vostra mente abbia mai potuto farvi. Quella di non esistere. Seduti o in piedi davanti allo specchio del vostro comodo bagno osservatevi come un miraggio. Siete assai meno consistenti del riflesso che vi sta osservando e state per intraprendere l’ennesimo viaggio nell’invisibile. Si muore. Sontuose e abissali si aprono le porte del bardo, leggere come l’ordito dei sogni o gravi come albe infuocate”. Ecco: Ugo Leonzio ha insistito nell’inesistente, fino a esserne inghiottito. Tra prato e dita, rabbia e mimica, denti e abeti, a quel punto, non è presa né misura. Che i libri di Leonzio restino lì, sulla soglia dell’invisibile, come bagliori, verdetti improvvisi, pugnali. (d.b.)

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