Potrebbe essere la protagonista di Camera con vista, una specie di Lucy Honeychurch. Da ragazza, doveva essere così: trasognata, amabile, impacciata, bella. Alice Christiana Gertrude Meynell, nata Thompson nell’ottobre del 1847 a Londra, si è fatta ragazza in Europa, in Francia, Svizzera, per lo più in Italia. Di questa vita insaporita di nuvole e ore raffinate nell’oro, Alice ricorderà Charles Dickens, amico del padre, innamorato – come lo possono gli scrittori che vivono di estasi e di illusioni – della madre, donna di cruenta bellezza. Allo stesso modo, così, nelle fotografie Alice Meynell appare effimera e severa, aleatoria e austera; in uno schizzo di John Singer Sargent questi caratteri si fondono nella statuaria nobiltà di una donna piena, drammatica.
Un po’ per vezzo, un po’ per serietà – aveva fatto voto in seguito a una malattia – si professò cattolica, e convinse la famiglia a passare dalla Chiesa inglese a quella vaticana, più appassionata, più italiana. Nel 1875 pubblicò la prima raccolta di versi, Preludes, con disegni di Elizabeth Thompson, stampata a Londra presso Henry S. King & Co. e dedicata To my father and mother. Era una sorta di congedo dalla giovinezza, dai toni stilnovisti; Alice non si attendeva nulla dal mondo culturale, ma una poesia lì raccolta, Renouncement, colpì John Ruskin che, in qualche modo, benedì l’azione lirica della ragazza. Quella stessa poesia, molto tempo dopo, nel 1936, sarà raccolta da William Butler Yeats nel suo The Oxford Book of Modern Verse, compendio dei più grandi poeti inglesi del tempo: Alice è stipata tra Gerard Manley Hopkins, Lady Gregory e Oscar Wilde.
Due anni dopo, Alice diede addio alla casa, unendosi con Wilfrid Meynell, giornalista, editore, cattolico inglese di prestigio – scrisse, tra l’altro, le biografie di John Henry Newman e di papa Leone XIII. Fece otto figli; di questi, Viola Meynell diventò una scrittrice di qualche successo; Francis un poeta, fondatore della casa editrice The Nonesuch Press (che pubblicò, postume, le poesie della madre). Alice continuò a scrivere, alternando la ricerca lirica a quella saggistica: in Hearts of Controversy (1917) raccoglie gli studi su Tennyson, Dickens, Swinburne e le sorelle Brontë; nel 1900 aveva pubblicato una biografia di Ruskin. Le sue poesie ebbero un successo inatteso: la semplicità si fondeva con un gusto arcano, il centrino con la visione profetica. Nel 1892, dopo la morte di Lord Tennyson, fu fatto il suo nome per assumere l’incarico di Poet Laureate: le fu preferito Alfred Austin, un damerino verbale. Alla morte di Austin, stesso teatro: le passò avanti Robert Bridges. Nel frattempo, d’altronde, Alice si era data alla giusta causa: cofondatrice della Catholic Women’s Suffrage Society, nata nel 1911 sotto le insegne di Giovanna d’Arco, lottò per la dignità della donna e del femminile; mise in discussione l’imperialismo britannico, alla luce delle continue insurrezioni nei possedimenti indiani e d’Africa; fu vice presidente del Women Writers’ Suffrage League.
Non era estranea a claustrali depressioni: l’impegno civico, per così dire, non distraeva un animo votato all’introspezione, capace nell’abisso. Una blue plaque ricorda che con il marito ha vissuto al 47 Palace Court, edificio architettato nel 1890 da Leonard Stokes. Nel 1947 fu Vita Sackville-West a curare l’edizione complessiva della Prose and Poetry di Alice Meynell; in particolare, elogiava “la cristallina purezza” dei suoi versi, questi:
“Chi ti cerca, mia piccola canzone? Questo inverno nel cuore di un poeta ritroso è d’improvviso dolce con te. Ma non so divinare cosa tu sia, fiore nel mezzo del gelo.
Sei l’ultimo, il resto, l’orfano della tua stirpe? L’estremo calore dell’estate morente ti ha favorito? O è in me questa cupa primavera da indovina che si muove furtiva, fuori dagli sguardi – di cui sei il segno?”
Sparì lentamente, Alice: il mondo era troppo rapido. Morì cento anni fa, il 27 novembre del 1922. Preferiva le carte da parati che riproducono il bosco, bronchi verdi, qualche pozza d’acqua, su cui poggiava i piedi.
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Rinuncia
Non devo pensarti; così, stanca, dura, scanso l’amore che alligna in ogni gioia – l’amore per te – ascesi nel cielo azzurro, nota futile nella più cara canzone. Oltre i pensieri che addolciscono il corpo, mi abbaglia l’oscuro nitore di te; che mai ti veda è necessità, per questo tutto il giorno mi fermo dinnanzi. Ma quando il sonno sigilla il giorno, la notte blocca questa veglia patetica e ogni legame che credo necessario si scioglie, la volontà va deposta come una vestaglia: sulla soglia del sogno, scoscendo nel sonno, corro, corro, riassunta nel tuo cuore.
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Io sono la Via
Tu sei la Via. Se fossi soltanto la meta non credo che avresti incontrato la mia anima.
Non riesco a capire – io, figlia del processo – esiste forse una menzogna raffinata proprio per me una fine, finitura del riposo e risposta.
Non mi irrita il modo in cui cammina, piedi che mendicano. Accesso, approccio, tutto deriva da Te: il tempo, la via, il viandante.
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Madonna Povertà
Era bella, Madonna Povertà: ha mutato aspetto negli ultimi tempi, con il cambio d’orario e la sterzata dei venti. Sciupata, discinta, scompigliati i capelli, il portamento, le scarpe. Non ha la postura di allora, quando i suoi piedi, puri, erano nudi.
Se possibile, è ancor peggio – si perde in chiacchiere salottiere; polvere e viti, orologi, oracoli, calcoli. Ma è davvero lei quella che incontrò Francesco, con il passo leggiadro, che intonava Obbedienza tra i casti sentieri dell’Umbria?
Dov’è la sua signoria, la sua nobiltà? Non qui, tra questi fantocci d’uomo, i moderni, ma nei sassosi campi, dove a sciabolate i cieli appaiono attraverso le alberature, nei campi scartati e scarlatti, tra le paludi pallide, in quei luoghi austeri, astrali.
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Notte
Casa, casa s’intaglia all’orizzonte, lontano come ali che si spalancano; i ricordi vagano a stormi e il sonno è una colombaia.
Quale di questi uccelli si avventa attraverso il lato debole della luce? Quale ha il volo rapinoso, in picchiata? Le tue parole, il tuo addio.
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Febbraio
La primavera è preparata dalle sonorità del profeta: invisibile, cielo incolore, pioggia come canneto piegato, venti lebbrosi, nessun fiore veglia sulle pergole; un poeta dorme nel cuore del mattino, grigio. Il mondo è abbandonato, vecchio, ed è il bambino mistico a lucidare le ore. Custodisce questo tempo, che precede i fiori, sacro ai giovani e ai non nati.
Per le miglia di grano abiurato per la primavera fuori dalla porta per il futuro dell’arte imberbe: amico dal viso quieto e immortale bambino che reggi il nostro cuore tigrato.
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Maternità
Pianto sull’unico figlio morto, appena nato, dieci anni fa. “Non piangere, è beato”, le dissero e disse: “Eppure,
dieci anni fa nasceva nel pianto un bambino che nessuno ha abbandonato. Dieci anni fa, invano, una madre è nata, una madre”.