
“Ogni nome è trasparente”. Lettera a Mattia Tarantino su poesia e salvezza
Libri
Vincenzo Gambardella
Nell’alcova della luce giace la tenebra, così la ferocia esalta il cibo in rito. L’ardore per la tauromachia porta Henry de Montherlant, un secolo fa, a sondare la bestia, che lo perfora. Il dolore esegue il canone sacro: diventa gorgo che ispira. Il rapporto con la bestialità – in fondo: con il corpo, la sfida, il sangue – domina l’opera di Montherlant, che aggioga il caos in una scrittura caravaggesca, corrosiva, aristocratica, antistorica. Da Les Bestiaires a Les Olympiques, la solarità della carne – cioè, la sua ombra – è il carisma del libro; d’altra parte, il ciclo de “Les jeunes filles” – memorabile: s’affretta Adelphi a pubblicare gli altri tre libri del ciclo dopo Le ragazze da marito, era il 2000, un millennio editoriale fa? – non è che una pervicace, preziosa, cruenta tauromachia. Al posto del toro, lì, c’è una follia di donne. Inevitabilmente, dal toro Montherlant passa al Minotauro.
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Affascinato dall’altro, dallo ‘strano’, Montherlant offre carattere di mostro al suo Malatesta: un principe recluso in un labirinto di sguardi, nell’effimero della propria grandezza. Anche lui, in effetti, il divo Henry, vive, scrivendo Malatesta, nel labirinto: a Parigi, osteggiato dai collaborazionisti, odiato dai resistenti, troppo individualista, individuo puro, perciò, mostro. Dove gli altri ansimano di contraddizione, egli vive nel cristallo del sé, fuori da tutto.
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Mentre, il 7 febbraio scorso, dispensavo – manco fossi un D’Annunzio sulla Vienna della nostra ignavia – copie del Malatesta di Montherlant, al Teatro Galli di Rimini (così restaurato da restare ignifugo alla meraviglia). Qualche ora prima, direi. Una signora mi si fa accanto. “Questi sono per lei”. Sfodera libri da una sacca. Non si presenta se non con un, “Sa, Carlo Bo veniva a casa mia, parlavamo di letteratura francese”. Le è piaciuto il mio estro energumeno – perché, poi?, mah… amo chi sfida l’oblio con eccesso di aggettivazione, direi – nel divulgare didatticamente Montherlant. Esito: ho vinto una catasta di libri. Prime edizioni Gallimard dei testi teatrali: La ville dont le prince est un enfant, Celles qu’on prend dans ses bras, ad esempio. I libri più importanti, per me che sono una iena bibliografica, però, sono altri, sono due. Il profilo di Montherlant stilato da Henri Perruchot (sempre Gallimard, 1959) e quello di Pierre Sipriot, Montherlant par lui-même edito da Seuil in quello stesso 1959. Il repertorio fotografico è vasto: ho bisogno di vedere il volto di uno scrittore per confortare l’opera. Fin da bambino: la faccia supponente di chi suppone per sé un destino diverso, fino all’atomo di morte. Poi, trentenne, orecchie a punta, labbra carnali ma volto astratto; eleganza e spada in mano. Certo: Montherlant posa, ma sa che tutto è posizione, posa, postura. In alcune immagini, gioca a pallone, in porta.
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Ovviamente, ci sono dei testi, tra mistica e narcisismo, superbi, superiori. “Finis gloriae mundi è un luogo comune. Ni mas ni menos non lo è. Ovviamente, il primo è il punto di vista cattolico. Non si tratta qui, però, dell’equivalenza tra vizi e virtù intesi secondo la tradizione cristiana. Si tratta, piuttosto, della presenza di ciò che è contrario in ciascuna cosa, come manifestazione della vita. C’è solo una divinità, ed è la vita. Questa idea si trova in ciascuno dei miei libri, sotto forma di principio o di aneddoto. Questa morale è la mia morale. E questo equilibrio, più ancora delle corna del toro e della torre in fiamme o altro, dovrebbe essere il segno della mia vita e della mia opera”.
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Tra i testi che la nobile signora – dileguatasi prima di un aureo grazie, come le creature autentiche – mi dona, mi cattura l’edizione che raccoglie Demain il fera jour e Pasiphaé (Gallimard, 1949). M’interessa, soprattutto, quest’ultimo testo, Pasiphaé, scritto nel 1936 – all’altezza de “Les Jeunes Filles”, dunque in quel delirio dell’eros, in una estatica del torbido – e andato in scena la prima volta al Théâtre Pigalle di Parigi il 6 dicembre 1938, con Catherine Seneur come Pasifae. Nel discorso introduttivo, Montherlant dice: “Pasifae è un’opera dell’immaginazione: ho inteso tastare la parte patetica e quella razionale dello spettatore, essere un moralista, cioè uno che studia le passioni, e un moralizzatore, cioè colui che propone una certa morale. Sia chiaro che questa morale, se in alcuni punti corrisponde esattamente (senza che l’autore ne apporvi il gene) a una moralità volgare, in altri vi si oppone del tutto”.
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Montherlant gode nel sondare il contrasto: figlia di dèi, Pasifae, insieme a Minosse, partorisce Arianna e Fedra, donne dall’amore ‘mostruoso’; unendosi al toro bianco partorisce Minotauro – questa brama è colpevole o sacra? Quando Pasifae si lancia tra le tenebre della passione, il Coro risponde: “Non esiste tenebra né voragine né nulla di simile. Non c’è una zona oscura nell’anima. Se lei commette il caos, tutta la natura è caos. Non è insana la sua passione, è insana la convinzione che la passione sia insana. Metà donna e metà dea, l’infermità umana la fa soffrire di un male che è orrore solo nella sua mente. O vergognose spirali del cervello umano!”.
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Nel 1944 Henri Matisse realizza alcuni disegni per una edizione speciale di Pasiphaé, uscita per Fabiani in 200 copie. Il libro è un capolavoro. L’amicizia tra Matisse e Montherlant è testimoniata da una serie di ritratti realizzati dall’artista dal 1940 che bloccano il cranio miceneo dello scrittore. Il mito del Minotauro, in effetti, attrae i grandi: Picasso disegna e dipinge minotauri dagli anni Trenta; la Yurcenar dà voce ad Arianna nel 1939. Il legame tra Matisse e Montherlant si sviluppa in una serie di lettere; questa la scrive l’artista, da Nizza, il 3 maggio 1943.
Caro povero Schiavo,
mi fai pietà! Con il talento eccezionale che hai, con il genio di cui sei stato glorificato, e da cui devi lasciarti possedere, mi immagino il panico che ti affligge, leggendoti. Meno ti infastidisci, più sarai considerato – tanto da avere sufficiente celebrità per una vita… Non fraintendere il mio rimprovero: sono già passato da queste sensazioni, ho avuto il coraggio di voltarmi dall’altra parte e sono felice. Per Pasifae e Canto di Minosse, non preoccuparti, già mi conquistano, sarai soddisfatto del mio lavoro. Sono testi emblematici, pieni di contasti eccessivi, che mi eccitano… Perché non ti piace l’incisione su linoleum? Questa incisione è difficile come suonare il violino: tutto dipende dalla flessibilità dell’arco e dalla sensibilità dell’esecutore. È la prima volta che lavoro con uno scrittore difficile come te… Le foto che mi hai inviato non mi convincono, sono troppo all’acqua di rose per il Montherlant che conosco. Ci vuole un Minosse che incendia, che metta a fuoco l’Inferno. Queste foto, invece, fanno pensare a cappelli a piume, creature ben pettinate, in accordo con una spada ottimamente rifinita e l’introduzione di un accademico stimato, burocratico. Ti prendo in giro, scusami. Ricorda: puoi fare e essere ciò che vuoi, per questo, non fare troppo per la Gloria. Ti saluto con affetto,
Henri Matisse
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In una lettera del 12 novembre 1944, pur parlando delle opere per Pasifae, Matisse svela il dolore. La moglie Amélie è stata arrestata dalla Gestapo insieme alla figlia Marguerite. La prima viene rilasciata dopo sei mesi; alla seconda combinano di tutto. “Mia figlia è appena tornata da Belfort, una delle 500 liberate su 1500 prigioniere. È stata torturata. Il medico assicura che potrà guarire. I tedeschi sono dei bruti immondi…”.
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Il costruttore del labirinto e lei che ne svela l’enigma, sovvertendo lo stratagemma con la strategia, sono entrambi umani. Del mostruoso a volte sentiamo il sussurro, altre il morso, il ghigno di corna sulle pareti della prigione. Non chiede più di uscire, benché continuiamo a sacrificargli il vergine del giorno. (d.b.)
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Lettera di un padre al figlio
Le virtù che devi coltivare sono anzitutto il coraggio, il senso civico, la fierezza, la drittura, il disprezzo, il disinteresse, la grazia, la gratitudine, e, in termini generici, tutto ciò che intendiamo come generosità.
Il coraggio morale è una virtù facile, soprattutto per chi non si cura dell’opinione altrui. Se non lo possiedi, acquisirlo è un affare della volontà, dunque cosa semplice. Di contro, se ti manca il coraggio fisico, conquistarlo è questione di allenamento. La vanità, che guida il mondo, è un sentimento ridicolo. L’orgoglio, se fondato, non aggiunge nulla al merito; se non è fondato, è ridicolo. La superiorità dell’orgoglio sulla vanità è che questa si attende tutto, l’altro non ha bisogno di nulla, non ha bisogno di nutrirsi, è di una sobrietà folle. A metà strada tra la vanità e l’orgoglio trovate la fierezza.
Il disinteresse ti eleva dal volgare. Il disprezzo comprende la stima. Uno dei segni inequivocabili del declino della Francia è l’incapacità del disprezzo. La riconoscenza è un sentimento tanto ostile ai nostri tempi che se non sei addestrato rischi di ignorarlo. Se possiedi questa virtù, il resto verrà di conseguenza.
Devo prevenirti contro l’ambizione. È una passione che fa parte della stupidità della giovinezza. Passati i ventotto anni, l’ambizione è una passione borghese. Certo, puoi coltivare quel sentimento, come qualsiasi altro, come un passatempo, che non ti tocca intimamente.
Henry de Montherlant