Dietro Lev Tolstoj ce ne sono altri dieci, cento, mille, un milione. Occorre spogliarlo, giacca per giacca, idolo dopo idolo, per giungere alla voce di cristallo dell’orfano, la voce autentica di Tolstoj, che si domanda, con ingenuità millenaria, perché si muore?, e per arginare la morte, crea la vita. Dietro le maschere dei perpetui personaggi letterari, tutti, da Anna Karenina a Cholostomér, il cavallo, c’è Tolstoj, e nel fondo di Tolstoj c’è il bambino, l’orfano, che si sente continuamente fuori posto, che imbraccia il fucile come propaga la non-violenza, che si perde nel gioco d’azzardo e predica la povertà, che anela alla castità e fa frotte di figli, nel lecito e nel tradimento, che traduce i Vangeli e viene scomunicato dal Santo Sinodo. Il bimbo ossessionato dal nulla, che riempie di scritti: il primo, per altro, nel 1841, è il distico che adorna la lapide della zia, Aline, sua tutrice, “Quando dolce e invidiabile è il tuo sonno/ Là nella dimora celeste”. La morte – ancora – sempre.
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Di certo, è un segno: il distico inciso su marmo, scrittura che scalfisce la guancia della morte. Dieci anni dopo, nel 1851, Tolstoj ha terminato il primo romanzo, Infanzia. Scrivere è scandagliare se stessi, dando avvio alla finzione: i modelli di Tolstoj – che con foga muscolare vuole la fama, vuole essere qualcuno nel mondo come chi sente sul cranio la pressione della dama nera, vuole colonizzare e squassare la massoneria letteraria per ritirarsi in campagna, a costruire edificanti (per sé) scuole per i figli dei contadini – sono Laurence Sterne e Stendhal, Rousseau e Puskin, geniali trapezisti dell’ego. In Infanzia, appunto, l’esperienza fondamentale è la morte della madre – che accade quando Lev ha due anni. La morte è descritta con indiscreta e cruda potenza, dal puzzo del cadavere: “Soltanto in quell’istante capii da che cosa provenisse quell’odore forte e pesante che, misto ai profumi dell’incenso, empiva la stanza; e l’idea che quel viso che pochi giorni prima era pieno di bellezza e di tenerezza, quel viso che io amavo sopra ogni altro al mondo, potesse ispirare terrore mi svelò per la prima volta l’amara verità e mi riempì l’anima di disperazione”. La morte non ulcera soltanto il corpo – altera la vita, deprime i ricordi.
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Eccolo, il bambino spietato: “Mi immaginavo che a parte me nulla e nessuno esistesse al mondo; che gli oggetti non fossero oggetti ma solo forme che apparivano quando vi prestavo attenzione e sparivano non appena cessavo di pensarvi. Vi furono momenti in cui, sotto l’influsso di questa idea fissa, arrivavo a un tale grado di stravaganza che mi voltavo di scatto, nella speranza di sorprendere all’improvviso il vuoto là dove non ero”. Questa sembra l’“uomo ridicolo” di Dostoevskij, assediato dal nulla, invece è Tolstoj, ventenne – tra diario e racconto, per lui, il divario è nel sangue; Tolstoj è autentico soltanto quando s’inventa una storia, altrimenti si confessa (ego vescovile) o predica.
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Poco dopo aver scritto i primi tre romanzi, di fila, slegato, mentre viaggia, gioca, combatte – per lo più in Crimea, a Sebastopoli –, Infanzia, Adolescenza (1854), Giovinezza (1856; recentemente editi da Quodlibet in un unico volume), come si corre a cavallo, con l’audacia dell’incompiuto, Tolstoj scrive uno dei suoi racconti perfetti, Tre morti. Al tono tipico, da torturatore della psiche, che taglia l’anima in tranci, come fosse carne, de La morte di Ivan Il’ic, qui Tolstoj preferisce l’altro, da narratore di fiabe. È un tono supremo, questo, consapevole, di chi c’era quando la terra era Pangea, di chi ha il Triassico nelle tasche, ha giocato con la barca di Noè e il Sion gli gonfia l’alluce. Una spietata pietà coglie tutte le creature, accompagnandole nei regni ulteriori: c’è qualcosa di sciamanico e di terribile nel modo in cui Tolstoj crea la vita – naturalmente inquinando la propria.
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Il racconto, scritto nel 1858, è semplice, nudo, ha odore nitido, sa di vita, di acqua sul viso. Una donna, nobile, è malata, in carrozza – morirà, qualche mese dopo; non ha avuto l’esistenza desiderata, come tutti, come tutti, il suo è un matrimonio infelice, di facciata. “Mamma mia… doveva essere una grande bellezza e ora che è rimasto? Fa persino paura”, dice una ragazza, osservandola. La morte impone terrore. Intrecciata a questa, è la storia del postiglione, in una stazione di sosta, malato da mesi, che muore, solo, rassegnato. Un collega, più giovane, Serjoga, gli chiede gli stivali: a cosa gli servono nell’altro mondo? La vita, qui, è la roba, la lampante potenza delle cose concrete, carnali. “Fjodor non aveva parenti, veniva di lontano. Il giorno dopo lo seppellirono nel nuovo cimitero, oltre il boschetto”. L’anziano postiglione muore come ha vissuto, accettando, senza ribellarsi al ritmo della vita. La donna, invece, non accetta che la sua morte non coincida con la morte di tutto, non ammette che la vita vada avanti nonostante lei: “Pregò a lungo e con ardore, ma nel petto si sentiva soffocare, si sentiva stringere… e il cielo, i campi, la strada, tutto era allo stesso modo… c’era la stessa nebbia autunnale, né più fitta né più rada, che continuava a posarsi sul fango della strada, sui tetti, sulle carrozze, e sui mantelli dei cocchieri che chiacchieravano fra loro con voci forti, allegre, davano il grasso alla carrozza, l’attaccavano…”. Vedete, qui Tolstoj è diventato “nebbia autunnale” – conosce perfino il destino della nebbia. La donna, invece, “era già diventata solo un corpo”. Il postiglione no, muore tutto, anima & corpo – la donna, di vieta ricchezza, è spettro che vaga, indecente e indeciso se rinascere o attendere.
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La terza morte è un colpo di genio. Per ottenere gli agognati stivali, Serjoga aveva promesso al defunto che avrebbe adornato la sua tomba con una lapide. Ma propria ai vivi è la menzogna. Allora, roso dalla colpa, decide di costruirgli, almeno, una croce. Va nel bosco, sceglie un albero, lo lacera con l’ascia. “L’albero tremò con tutto il corpo, si piegò e rapidamente si raddrizzò, ondeggiando spaventato sulla sua radice. Per un attimo tutto tacque, ma l’albero si piegò di nuovo, di nuovo si sentì lo scricchiolio del suo fusto, e, spezzando rami e fronde, cadde con la sua cima sull’umida terra… La nebbia si mise a rilucere e galleggiare, a onde, nelle forre… Gli uccelli si affollavano nel bosco e, come smarriti, pigolavano qualcosa di felice; le succose foglie gioiosamente e tranquillamente mormoravano e frusciavano sulle cime degli alberi, e i rami degli alberi vivi, lentamente, maestosamente, si muovevano sull’albero morto, abbattuto”. La morte dell’albero è descritta con la stessa intensità di quella di un uomo chiude il racconto –Tolstoj, qui, è l’albero che cade e gli altri, che scintillano, è la nebbia che galleggia, è gli uccelli, è le foglie.
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Dare la vita è eccitante – e terrorizza. Per questo Tolstoj sente la necessità di giustificarsi. “Il mio pensiero era: tre esseri sono morti, una signora, un contadino e un albero. La signora è penosa e ripugnante, perché aveva mentito per tutta la vita e mente davanti alla morte. Il cristianesimo, come lei lo concepisce, non risolve per lei il problema della vita e della morte. Perché morire quando si ha così voglia di vivere?… Il contadino muore tranquillamente, proprio perché non è cristiano. Egli abbatteva alberi, seminava e falciava la segale, uccideva i montoni, e altri montoni nascevano da lui e nascevano i bambini e i vecchi morivano, ed egli conosceva bene questa legge, dalla quale non si era mai allontanato… L’albero muore tranquillamente, con onore e bellezza. Con bellezza, perché non mente, non fa delle smorfie, non a rimpianti”. Nel racconto, piuttosto, la vita palpita più di ogni morale – illusoria oltre che irrichiesta.
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Penso che la storia della letteratura sia tutta lì, nel dito di Padre Sergij che “saltò via più facilmente di quanto non avvenisse con legni di quello stesso spessore, si rigirò in aria e cadde, con un suono molle, prima sull’orlo del ceppo e poi a terra”. Tolstoj è riassunto nel “suono molle” – perché la carne è molle, ruvida e molle – con cui il dito mozzato cade al suolo. Anzi, “prima sull’orlo del ceppo e poi a terra”. La facoltà immaginativa – altro che il cinema – si blocca sul dito del sant’uomo che fa il suo volo, roteando, in aria. È stato tagliato con una scure, quel dito, per evitare di cadere tra le malie di una donna. Il gesto è di ferocia evangelica, dottrinaria – “è meglio perdere una delle tue membra piuttosto che tutto il corpo venga gettato agli inferi”, Mt 5, 29. Sottolineare che è più facile mozzare un dito che un pezzo di legno rimarca la fragrante debolezza del corpo. In quel “suono molle” del dito segato c’è un mutamento inevitabile nella letteratura, che dice la vita fino a spezzare la carne. Ma quel racconto straordinario, Padre Sergij, troppo intimo per poterlo pubblicare – scritto tra 1889 e 1891, corretto nel 1898, è edito postumo, nel 1911 – riguarda Tolstoj, che morì con tutte le membra eppure ferito ovunque, in fuga, per un altro aspetto. La storia di Padre Sergij è la storia di un’estinzione. Stepàn Kasatskij, militare avvenente, che vuole fare carriera, che si accasa con una bella nobildonna, lascia tutto, di fronte all’infinita menzogna del mondo, per diventare Padre Sergij. Non è sufficiente. Perché resta l’ambizione, ma occorre l’abiezione, qui non riguarda essere perfetti, bensì annientarsi. Soltanto quando, vagabondo, lacero, senza palazzo né monastero, autenticamente fuori dal mondo, il fu Stepàn Kasatskij poi Padre Sergij dice, privo di documenti, di essere soltanto “un servo di Dio”, si realizza. Ha varcato ed esaurito tutti i nomi, tutte le identità – non è altro che di Dio, cioè della vita. E vive, ci dice Tolstoj, “vive là… in Siberia… lavora nell’orto del suo padrone, e insegna ai bambini, e accudisce i malati”. Così, quell’uomo senza nome, che non si attende nulla, non muore, ha avuto tutto. (d.b.)