Appunti rozzi di un lettore de “Il dottor Živago” di Boris Pasternak, un romanzo che ti cambia la vita
Letterature
Michele Nigro
In qualche modo, Ernesto Cardenal – poeta, presbitero, teorico della teologia della liberazione – è nato da una costola di Thomas Merton. Uomini affatto diversi – nell’opera e nel gesto e nell’ampiezza – si incontrano all’Abbey of Our Lady of Gethsemani, il monastero trappista nel Kentucky, dove esercita Merton. Ernesto Cardenal vi arriva trentenne, nel 1957, dopo una vita di studi – in Messico e a New York – e di armi – nel ’54 partecipa alla rivolta che avrebbe dovuto detronizzare Anastasio Somoza García –, scandito da una lacerante crisi mistica. Più grande di lui di dieci anni, Thomas Merton, che ha l’ufficio di guidare i novizi, gli è maestro. Cardenal resta un paio di anni nel Kentucky, proseguendo il ritiro a Cuernavaca: nel ’65 è eletto sacerdote. L’amicizia con Merton è testimoniata da un cospicuo scambio epistolare pubblicato nel mondo spagnolo nel 1998 (ora la Correspondencia 1959-1968 è edita da Trotta) e in quello anglofono come From the Monastery to the World. The Letters of Thomas Merton and Ernesto Cardenal (2017). “Ernesto Cardenal e Thomas Merton rappresentano – ciascuno con la propria paradigmatica singolarità – il determinante incontro tra politica, religione, letteratura, arte negli anni Sessanta; inoltre, sono l’emblema del dialogo possibile tra i due emisferi del continente americano, un dialogo che a dire di Merton è essenziale per la sua sopravvivenza. L’amicizia intellettuale, la profonda ascesi spirituale e poetica, in un periodo storico contraddittorio, dimostrano la collaborazione tra uomini determinati a cambiare il mondo senza abbandonare l’istinto contemplativo”: così Santiago Daydi-Tolson, il curatore dell’epistolario.
Thomas Merton muore nel 1968, vicino a Bangkok, in dicembre; “spiritualmente, mi è stato padre, la sua morte è il dolore più grande”, ha detto Cardenal. Sette anni prima, nella lettera che qui si pubblica, Merton confessava al discepolo le proprie difficoltà nel collaborare con i vertici della Chiesa. Il punto di congiunzione lo leggiamo in Emblemi di un’età di violenza, stampato da New Directions nel 1963 (da noi esce per Garzanti nel 1971, nella versione di Romeo Lucchese, già devoto traduttore di Saint-John Perse; da tempo la poesia di Merton, che “sulla linea di Dante, di Donne, di Blake, di Whitman, di Hopkins, di Rimbaud, di Claudel, di Eliot, di Williams, di Mac Leish… è la mauvaise conscience de son temps”, è latitante nel nostro consesso editoriale). Nella lunga Lettera a proposito dei giganti inviata a Pablo Antonio Cuadra (1912-2002), poeta, artista, ideologo nicaraguense, cugino di Cardenal, Merton scrive, tra l’altro: “E così oggi abbiamo un Cristianesimo di Magog. È il Cristianesimo del denaro, dell’azione, delle folle passive, un Cristianesimo elettronico fatto di altoparlanti e parate. Magog stesso è senza fede, cinicamente tollerante nei riguardi del Cristo atletico, eppure sentimentale, escogitato da alcuni suoi seguaci, perché questo Cristo conviene a Magog. È un Cristo progressivo che non protesta contro i Farisei o i mercanti nel tempio… Cristo non si trova nelle chiassose o pompose dichiarazioni ma nei dialoghi umili e fraterni. Lo si trova meno in una verità imposta che in una verità condivisa. Dio ha diritto di parlare imprevedibilmente… La dissacrazione, la desacralizzazione del mondo moderno si manifestano soprattutto nel fatto che lo straniero non conta nulla. Non appena egli diventa uno ‘spostato’ lo si considera anche assolutamente inaccettabile. Non rientra in nessuna categoria nota; siccome è inspiegato, è, di conseguenza, una minaccia al nostro compiacimento. Ogni cosa non facilmente spiegabile deve essere spazzata via, e il mistero con essa. Una presenza nemica ostacola la superficiale e falsa chiarezza del nostro raziocinio”.
Ridotto a mistico da passeggio, a pioniere dei docili pensieri aurorali, reduce dalla bibliografia casta, amico degli artisti, Thomas Merton non fa più male. “Egli preparava i suoi pensieri per lucciole e allarmi”: autentico profeta, vero ispirato, giace nella conserva delle idee in avaria. Non siamo per la lotta, forse, per la veggenza solitaria.
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A Ernesto Cardenal,
24 dicembre 1961
Benché non abbia da dirti molto sulle poesie, voglio scriverti ora, perché è la settimana di Natale e qui, puoi immaginarlo, siamo molto impegnati. Come al solito, i novizi addobbano il seminario. Abbiamo due alberi di Natale piuttosto piccoli, scarne decorazioni, ma c’è ancora un pomeriggio intero e Dio solo sa quali mostruosità potranno apparire…
Non so pronunciarmi sull’esito del mio lavoro con i ministri e gli studiosi protestanti. Evidentemente, qualcuno a Roma si è lamentato del mio affanno, “non appropriato a un contemplativo”, e ho ricevuto note di disapprovazione. I contatti dovranno essere ridotti al minimo… In effetti, resto piuttosto indifferente a tutto questo. Ci sono prospettive più vaste da considerare. Il mio concetto di Chiesa, la mia fede nella Chiesa, viene messa alla prova, e purificata: spero che lo sia. Anche la mia idea di “lavorare per la Chiesa” sta mutando, radicalmente. Ho sempre meno incentivi nel prendere ogni sorta di iniziativa che corrisponda agli immediati, visibili propositi apostolici della Chiesa. Non è semplice spiegare i sentimenti che mi agitano quando vedo tanti diversi movimenti proliferare, e quel dispendio di generosità e di zelo. Nel profondo del cuore, sento il vuoto, la sensazione crescente che tutto sia provvisorio, che abbia ben poco di quel significato che gli zelanti promotori tendono ad attribuirgli… L’unico risultato è il profondo rispetto e l’amore verso questi uomini, una crescente comprensione del loro spirito. Ma non sono ottimista riguardo al successo di un definito “movimento”; in verità, ho la sensazione che nessun “movimento” sia così importante. Come se ci fosse qualcosa di remoto, di segreto, di segregato e di più importante, più concreto e più facile da raggiungere, al di là di tutte queste pressioni istituzionali.
Sono profondamente preoccupato per la pace, e mi unisco nel lavoro… nella protesta contro la guerra nucleare; ma proprio questo, che paradosso, è il più misero e trascurato tra i “movimenti” della Chiesa… Non mi lamento, non critico: osservo con una sorta di silenzio nebuloso e fermo l’inerzia, la passività, l’apparente indifferenza e l’incomprensione con cui la maggior parte dei cattolici, del clero e del popolo, almeno in questo Paese, guarda alla minaccia di una guerra nucleare. È come se tutti fossero diventati mangiatori di loto. Come se fossero sotto la malia di un incantesimo. Come se con occhi e orecchie frastornati intuissero vagamente, nella nebbia, in coma, l’approssimarsi della loro distruzione, e non potessero muovere un dito per fare qualcosa… Spero di non giacere nello stesso stato comatoso. Resisto a questo brutto sogno con tutte le mie forze: almeno posso lottare, gridare, insieme a chi ha la mia stessa consapevolezza.
…Mi rendo conto che devo stare molto attento a ciò che dico, alla misura della mia protesta, altrimenti verrò messo a tacere. Senza dubbio, prima o poi mi metteranno a tacere. È così difficile scrivere di pace oltre la cortina dei censori…
Thomas Merton