21 Agosto 2024

Amore & morte, colpa & innocenza. “The Beguiled”: esegesi di un capolavoro

Ambito storico: Guerra Civile americana, 1863. Scorrono immagini di un seppia di grana grossa in successione piuttosto incalzante. Sono antichi scatti di guerra e i soli espedienti per renderli dinamici, enfatici e nella loro attuale urgenza, restano gli schianti e le grida affidati al sonoro, uno zoom out e uno zoom in, e la dissolvenza che le incrocia. Il film è da subito una dichiarazione senza condizioni della brutalità della guerra, ma anche della bestialità dell’uomo se messo in condizioni di dover dibattersi per la sopravvivenza. E di un elegante, diafano color seppia sbiadito è l’avvio di pellicola in cui la piccola educanda appena dodicenne, Amy, coglie funghi nel bosco. Una sorta di immagine da fiaba… E non erano le fiabe, in origine, terribili e crudeli? Così nella pellicola: il seppia vira ai colori naturali insensibilmente e passa il testimone visivo a un caporale nordista gravemente ferito che verrà assistito entro le mura di un collegio femminile sito in terra sudista. Passano sudisti a cavallo, e il soldato bacia Amy lungamente perché un possibile grido di allarme non trovi fiato tra le sue labbra. Amy lo aiuta a raggiungere il collegio. È solo l’avvio di una giostra di perversioni, crudeltà e orrori.

Un corvo ferito e immobilizzato da un laccio (“prigioniero” delle cure puerilmente morbose di Amy) è l’immagine presaga di una cattività dai risvolti tragici, estremi, nefandi, e con punte grandguignolesche.

The Beguiled (1971, titolo italiano, un po’ goffo: La notte brava del soldato Jonathan) è uno dei film più potenti, coesi, visionari e controversi diretti da Don Siegel, sceneggiato magnificamente con una sottile connotazione psicologica, pennellate antropologiche di magistrale riuscita, composto e sfrenato nel medesimo gesto registico.

La trama è semplice, lineare, scarnificata fino all’estremo dell’essenziale, e tutto si svolge all’interno del collegio femminile sudista. Ma il modo peculiare con cui Don Siegel dà estro all’affresco dei personaggi, la cura nelle inquadrature, il dinamismo delle immagini e le suggestioni pressoché pittoriche degli interni, degli sguardi, dei volti, sono qualcosa che difficilmente si lascia dimenticare.

Clint Eastwood (alla sua prima prova attoriale di spessore, riconosciuta tale anche dalla critica del tempo) è il caporale John McBurney, la sola figura maschile all’interno del collegio; introdotta a dispetto delle ordinanze e dei codici che vedrebbero l’obbligo, in tempi di conflitto, di consegnarlo all’esercito sudista come prigioniero. Miss Martha Farnsworth, più che matura e arcigna direttrice della scuola, appare dibattuta proprio nel decidere le sorti del giovane soldato, ma prende la decisione di curarlo in attesa di vedere il da farsi, con l’alibi di salvarlo da una prigionia che nelle sue condizioni ne avrebbe decretato la morte, ma adombrando intenti occulti di ben altra natura.

In questa sorta di gineceo, il soldato si muove furbescamente e in modo maliardo, catturando le attenzioni, più o meno sessualmente esplicite, di tutte le educande, comprese quelle di Miss Martha, che, a dispetto dell’aria e della condotta irreprensibili, nasconde un passato torbido e incestuoso. Di particolare spessore (e stuzzicata, anche lei, dal fascino del caporale) è la figura della serva di colore: dipinta come forte, risoluta e di una certa fibra morale, nasconde qualcosa, nel proprio trascorso, di innominabile, ed ha subito un maltolto che non dimentica. È forse la figura più schietta e umana della lunga carrellata di personaggi femminili che offre il film.

Tutto appare lindo, rispettoso della migliore tradizione ed etichetta, corroborato per questa via dalla gestione severa e didascalica della direttrice e dai precetti della giovane insegnante Edwina. Ma in realtà tutto è inganno, e il limine tra quello imbastito dal caporale per aggraziarsi la simpatia dell’una e dell’altra delle giovani figlie di sudisti, e quello di queste, è assai impalpabile. McBurney mente sul proprio agito all’interno dell’esercito dell’Unione, si finge quacchero e del corpo di soccorso, quando il suo ruolo e la sua condotta erano stati ben altri; in particolare, mentre sciorina mellifluamente le circostanze del suo ferimento, si vedono scorrere impietosamente le immagini che dichiarano la sua arte menzognera.

Chi inganna chi? Chi per primo e chi colpevolmente o con una vena di innocenza dettata dalla eteroclita situazione in atto?

Il lavoro di uncinetto imbastito dal caporale con fatti e parole è in dubbio di onestà, ma egli resta pur sempre uno sprovveduto preso in un gioco perverso delle identità e dei ruoli che culmina in un teatro del terrore e ha per attrici delle donne fatte Furie. I piccoli siparietti, le contese più o meno gentili, i sottesi e l’understatement (che non arriva a celare le urgenti pulsioni libidiche dei personaggi), assieme a tutte le false suppellettili morali e religiose di quel Mississippi rurale, esornano soltanto, senza cancellarla, la reale crudezza dell’abietto che prende forma.

Il film è stato accusato di misoginia, ma una sana risposta a questo che sembra solo un vezzo moraleggiante, potrebbe essere che i miti antichi superano ogni più sfrenata immaginazione presso i paradigmi e i contesti messi al centro della pellicola. In fondo, è un film su sesso e vendetta, e cosa c’è di più topico nelle radici antiche di ogni cultura? Si potrebbe azzardare che sia quasi boccaccesco, e non per antonomasia, ma per temi, intrighi e modalità espressive.

Miss Martha vede nel caporale l’omologo del fratello amato incestuosamente, la bimba che lo ha soccorso vagheggia di lui quasi fosse un padre e un amante, una scafata diciassettenne lo corteggia fino ad amarlo carnalmente, e la giovane insegnante Edwina, in questo carosello che rasenta il melodramma sessuale, lo ama sinceramente di un amore che sembra essere estraneo ai raggiri e alle capziose sottigliezze di tutte le altre. McBurney non è una vittima ideale, ma è pur sempre una vittima. E il collegio femminile, alcova di Dio, Patria e buone creanze, diventa un crogiolo di atrocità come non se ne vedono forse neanche in guerra: qui attuate tra merletti e guanti bianchi, ma non meno fatali.

Magistrale, prima del culmine drammatico del film, è il sogno orgiastico (di lì a poco non si distinguerà dalla realtà, anche perché filmato nella stessa impassibile, fedele maniera) di Miss Martha, che, entrata in maggiore intimità col soldato, lo ama (oniricamente) in un tourbillon di passione in cui si fanno nodo i corpi e partecipano alla “festa” altre ragazze del collegio; fino al diapason del piacere, culminante nell’immagine, di una finezza quasi pittorica, in cui il corpo esausto del soldato coincide per posa col dipinto di una deposizione del Cristo.

Tutto sembra concorrere a disegnare una repressione sessuale e di costumi dietro la cui sottile vernice sta la linfa pulsante del peccato e della peggiore depravazione.

Amore e morte si confondono. Così come colpa e innocenza, verità e menzogna. Apparenza e realtà. Parola veridica e inverecondo inganno. Pudicizia forzata e sfrenata libido.

Le immagini sono plurime, con giochi di figure riflesse e l’abilità di incorniciare pezzi di narrazione mettendoli in dialogo tra loro, anche con singole scene che raccontano storie quasi fossero immagini in successione e in evolversi.

Nemmeno la luce del giorno è garanzia di riparo dall’inganno e dalle tresche, anzi la maggior parte della pellicola gioca a mettere in scena il nascondimento e l’inganno proprio alla luce diurna. Mentre gli interni, per contrasto, risultano spesso crepuscolari, soffusi, pennellati tonalmente con rilievi in chiaroscuro, o espressi con parti in ombra e frammenti di luce come piccole feritoie esigue nel buio. Almeno in un paio di espedienti l’estinguersi della parte in luce è il passaggio alla scena successiva.

Raramente si è visto un film più perverso e crudo, e l’energica messa in scena, dinamica ed estrema, concorre a renderlo, seppure claustrofobico, di un respiro corale e minuto, elegante e terribile: proprio come l’educandato che racchiude il film tra quattro mura.

Se la sceneggiatura ha puntiglio psicologico, la messa in scena appare quasi quella di un testo teatrale dove tutto concorre a un intreccio di dialoghi e di ruoli preciso e puntuale; ma le immagini esondano perfino un semplice teatro di posa (fisico come allegorico), scorrono in maniera carsica sotto un velo labile di apparenze, di parole e atti vaghi, doppi se non plurimi, ingannevoli e esiziali, con una vena robustamente vitale e realistica che estenua non solo un possibile senso morale, ma anche la possibilità stessa di non fare dell’immoralità una condotta pratica.

In finale di pellicola torna nuovamente il color seppia, e il cancello del collegio vede uscire il caporale che aveva visto entrare soccorso, morto per un machiavello perfido di tutte le educande, con a capo la perfida Miss Martha, unite dal risentimento nella vendetta. V’è qualcosa di erinnico in questo film, e la castrazione è un fatto, non un’idea appena accennata o una sua sfumatura.

Sempre nel finale, le parole delle collegiali risultano una pantomima della verità a discapito della verità effettiva, come se fosse la voce di un’innocenza illibata che non può che essere estranea alla colpa… Ma solo mentendo e rimuovendola… E i fatti rimangono occultati nel sacco che cuciono attorno al cadavere del caporale, assieme all’amore intatto di Edwina che depone un fazzoletto, per pudore e veridico sentimento, a velarne il volto esangue. Si è conclusa una battaglia senza strepito e cannoni, ma il risultato è lo stesso del conflitto sullo sfondo, dentro come fuori dai cancelli della vereconda e timorata scuola.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG