Nella grande tavola dipinta da John Melhuish Strudwick, dal significativo titolo I giorni passano, fanciulle in aeree, seriche vesti di zendale e di organza, danzano e camminano – emergendo dalle nebbie sottostanti – dinanzi a un’esedra di marmo, a sua volta decorata da figure in grisaille, alla maniera degli antichi; e queste ninfe bellissime in movimento, raffigurano i giorni trascorsi e quelli a venire, come a voler significare l’incapacità dell’uomo a vivere il presente, perennemente oppresso da ciò che è stato e da ciò che avverrà.
Cristo ha insegnato che i gigli dei campi sono vestiti con maggior gloria di quella che ebbe Re Salomone, quindi a non farsi accecare dall’angoscia dell’ignoto, ma a confidare nella potenza di Dio e se Dio vive nell’Eterno Presente, esso è il non-tempo al quale l’uomo dovrebbe tendere; ma creature di carne quali noi siamo, restiamo a volte – sin troppo spesso – sospesi tra il passato ed il futuro, futuro che invece è adesso, perché “tempus fugit”, e quindi nulla oltre, nulla di più del realizzare noi stessi ora è ciò che dobbiamo fare.
Illuso è pertanto colui che auspica un rinnovamento dell’uomo in base ai propri deliranti schemi ideologici o ancor peggio politici, sociologici; è nel nostro cuore che trasmutiamo alchemicamente il tempo in spazio, oppure con l’arte, con l’amore, con la magia dell’avventura.
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In quel dipinto di Melhuish Strudwick, quasi una danza delle ore in stile preraffaellita, illustra i giorni che ci sono concessi e che si susseguono incessanti sino all’ultimo.
In questo rarefatto e lento, monotono succedersi di giorni e di notti che trascorriamo nelle nostre case, forse adesso alcuni possono apprendere – per la prima volta – il senso nascosto del tempo che ci è stato dato, ed ecco allora che i deboli d’animo impazziscono e urlano, gridando ossessi la loro impotente rabbia, oppure ubriachi ballano, manifestando il vaniloquio delle loro menti e l’abisso di nulla che c’è nei loro cuori.
«Fermati, attimo, sei bello!», esclama Faust nell’omonima opera di Wolfgang Goethe, volto ad arrestare per sempre il ricordo, talvolta struggente e doloroso, di quegli istanti di “grazia felice” che corrono via trascinati dal tempo e scompaiono, come se fossero perduti per sempre, come “lacrime nella pioggia”. Eppure qualcosa resta, è il “profumo” di rose e della bellezza, cantato da Percy B. Shelley nel suo poema La Sensitiva. Anche nei versi di Omar Khayyam ritroviamo questo concetto, metafisico, quando il poeta sufi, amante delle donne, delle rose e del vino scrive: «altro non siamo che una fila errante d’ombre magiche che vengono e vanno». Ombre magiche, proprio come le leggiadre ninfe del dipinto di Melhuish Strudwick.
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Dobbiamo allora cogliere quell’attimo fuggevole, perché sino a quando esso dura, esso è di una straordinaria bellezza e ferma il tempo altrimenti inesorabile, trattenendo per noi, riflesso nel vino di zaffiro, negli occhi della donna amata, lo stupore e la meraviglia, la magia di questo momento unico e irripetibile, sospeso tra il tramonto e l’alba, tra la terra e il cielo. Tempo di là dal tempo, senza tempo. Eppure questo fermare il flusso, questo “qui ed ora”, necessita sempre di un “altro e altrove”, perché la vita umana è fondamentalmente segnata dal Mistero e il nostro agire ci porta ad andare oltre.
«Sempre allegri sono i buoni, salvo che per cattiva sorte» scrive William Butler Yeats ne Il violinista di Dooney, echeggiando quanto secoli prima di lui, quel grande mistico che fu Filippo Neri, Giullare di Dio insegnava ai ragazzi perduti delle strade di Roma. Ciò che ci impedisce di vivere degnamente il presente è l’ansia del domani, quel martellante domandarsi cosa ci riservi il fato, nascosto dietro l’angolo di quella strada, nell’ombra, in quel vicolo prima del sorgere del sole. E allora quel sorriso così bello e tanto amato svanisce, spegnendosi nell’alone della tristezza, offuscato da una nube d’infelicità, come se un tragico destino incombesse sempre, pronto a sbranare il cuore che vorrebbe soltanto sorridere.
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È soltanto un povero sciocco colui che si crede re, illudendosi di essere sovrano del guscio di noce che è questo mondo, prigioniero da catene forgiate dalla propria mente insana, ceppi d’illusione che non può infrangere con nessuna parola perché priva di Conoscenza. L’Eremita degli Arcani Maggiori del mazzo dei Tarocchi, simboleggia questo stato, insieme con l’Appeso, l’impiccato capovolto all’asse cosmico dell’Universo. Soltanto chi compie quel periglioso cammino attraverso le sfere risuonanti, su quell’esile e affilato ponte, comprende ad ogni passo – più in là, sempre più in là – al limite del vuoto, dove la strada conduca, in quel passaggio segreto che attraversa le radici dei monti e le dimore segrete nelle colline, entrando in città turrite e cintate e navigando sui mari del Fato.
Senza coraggio la vita non esiste, senza coraggio non possono esservi né amore né conoscenza – che poi sono in fondo la medesima cosa – e tutti i giorni si presentano uguali, sprecati, gettati via come foglie secche al vento d’autunno. Soltanto il coraggio può portare la nostra primavera dopo l’inverno della tristezza, con il baccanale allegro del Calendimaggio, sino a far rifulgere i fuochi accesi sui campi, per ballare nella notte di mezza estate.
Allora, e allora soltanto, il Re e la Regina s’incontreranno sotto gli Alberi dalle mele d’oro del sole e quelle d’argento della luna, e i giorni si raccoglieranno loro intorno, in una corte fatata, nella quale non vi è spazio per la vecchiaia, né per il dolore e neppure per la morte e ogni cosa come l’amore, dura per sempre.
Dalmazio Frau
*In copertina: un particolare da “Passing Days”, opera di John Melhuish Strudwick, 1878