“Scrivere è come maneggiare il fuoco”. Dialogo con Flaminia Cruciani
Dialoghi
Federico Magrin
“Fino alla fine dell’illusione umana”
L'Editoriale
Ho passato gli ultimi sette anni a cercare Dio. Ho cercato la verità. Ho cercato risposte. Ho letto il Vangelo, la Bibbia, il Corano, i Veda, i Purana, le Upanishad, il Tao, la Bhagavad Gita, lo Zhuangzi, i Sutra del buddhismo, il Libro Tibetano dei Morti, un’infinità di testi sacri induisti, tantrici, buddhisti, sullo yoga, di cui non so neanche scrivere i nomi, troppo complicati. Ho letto tanti, tantissimi libri di filosofia, antropologia e di fisica quantistica (di quelli senza i numeri, ovvio). Non ho fatto altro che leggere, studiare, scrivere, meditare, cercare, pregare e ascoltare il silenzio.
Ho viaggiato come un vero pellegrino in India, in Nepal, in Tibet, in Israele, in Italia, nel Medio Oriente e nei deserti del mondo.
E poi sono arrivata a un punto che ho considerato la mia personale chiusura del cerchio.
Mi sono chiarita le idee su tante cose, e devo dire di essere giunta alla conclusione che le religioni non sono molto diverse tra loro, è inutile che ce la raccontiamo. E ho letto passaggi imbarazzanti sulle donne in molti testi, tra cui questo, che non ho trovato nel Corano o nella Bibbia, ma nella Brihadaranyaka Upanishad: “7. Se essa (la donna n.d.a.) non gli concede i suoi favori, la convinca, se vuole, con dei doni; se ella continua a non concedere i suoi favori la batta con un bastone o con la mano e la trascuri dicendo: «Con l’energia e lo splendore ti tolgo lo splendore», e così quella è privata del suo splendore”.
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Insomma, per ora le religioni e la spiritualità non fanno per me, in punto di morte chissà.
Ho sperato, a un certo punto, di entrare a far parte di qualche congregazione, ma niente da fare, la ragione ha vinto sempre, e ha vinto il dubbio, che è quello che fa dire a me stessa di essere agnostica e non proprio atea, perché non credo in Dio, ma un creatore o la vita dopo la morte potrebbero anche esistere, chissà.
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Ho chiuso il cerchio quando ho cominciato a pormi l’unica vera fondamentale domanda: ma alla fine, che cos’è la coscienza? Perché è tutto qui. O si crede che questa nostra misteriosa coscienza sopravviva una volta morti oppure non ci si crede.
Non c’è altro.
E quindi, dopo sette anni in pellegrinaggio, ho cominciato a leggere libri e articoli scientifici che parlavano di coscienza, e sono incappata in due saggi di Michael S. Gazzaniga, psicologo e neuroscienziato statunitense. Uno del 2005, La mente etica, e uno del 2015, La coscienza è un istinto.
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Partiamo dal presupposto che nessuno sa ancora molto sul nostro cervello. È più misterioso della stessa fisica quantistica, forse non a caso.
La coscienza è un mistero. La scienza formula ipotesi, esattamente come la religione, nessuno ha la certezza e la risposta. O si crede nella sopravvivenza dell’anima oppure no, ma si tratta di credenze, non di dati empirici.
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Gazzaniga ci ricorda che per Schopenhauer la vita era una volontà di vita, un impulso che induce gli esseri umani a riprodursi, perché tutta l’esistenza sembra essere finalizzata a creare una nuova generazione. E sempre Schopenhauer considerava la coscienza come la superficie della nostra mente, di cui non conosciamo l’interno.
Gazzaniga ci dice che “una mole di prove sempre più schiaccianti sembra oggi dimostrare che invece, paradossalmente, il cervello non opera affatto in modo olisitco. Al contrario, la nostra presunta coscienza indivisa è prodotta dall’operato di migliaia di unità di elaborazione relativamente indipendenti”.
Dei moduli, delle reti neurali che permettono al cervello di esercitare una funzione specifica.
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Addirittura il premio Nobel Sir Charles Sherrington ha scritto: “Lo scopo della vita è agire, non pensare”, e Roger Sperry, altro premio Nobel, ha suggerito ai suoi colleghi di “vedere il cervello per quello che è, con oggettività, ossia, un meccanismo finalizzato al controllo dell’attività motoria”.
Insomma, per molti scienziati è inutile che cerchiamo a tutti i costi di trovare chissà quali significati reconditi, la vita potrebbe non essere altro che questo: procacciarsi il cibo e procreare. Il pensiero è qualcosa di superfluo, di cui in realtà potremmo fare benissimo a meno.
Gazzaniga prosegue: “Se il nostro cervello si è storicamente evoluto come sistema di controllo motorio del corpo, significa che il pensiero, la capacità di pianificare, la memoria, l’uso dei sensi ecc. sono soltanto strumenti aggiuntivi, elementi di complessità supplementare nel quadro di un’architettura a strati sviluppatasi per potenziare la robustezza del controllo motorio in un ambiente incerto e soggetto a continui cambiamenti”.
So che in quest’ottica la vita potrebbe apparire priva di senso e di poesia, ma siamo sicuri che cercare a tutti i costi di darle un significato più profondo e romantico ci faccia vivere meglio?
Gazzaniga dice che potremmo considerare quindi l’apprendimento e la cognizione come dei gadget extralusso, che ci permettono di registrare determinate sensazioni e ricordare esperienze, per esempio quelle negative da evitare in futuro, che permetteranno alla nostra specie di continuare a evolversi.
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David Anderson e Ralph Adolphs del California Institute of Technology sono convinti che “un’emozione costituisca uno stato non cosciente del sistema nervoso centrale innescato da uno stimolo specifico, esterno (predatore) o interno (il ricordo di un predatore)”.
Affascinante è la visione dello psicologo e filosofo statunitense William James, che Gazzaniga cita: “Il principio dal quale, come evoluzionisti, non possiamo recedere in alcun modo è l’idea che tutte le nuove forme dell’essere che si manifestano via via, propriamente parlando, non siano altro che il prodotto di una ridistribuzione di materiali, gli stessi dall’inizio dei tempi. Gli stessi identici atomi che nella loro dispersione caotica formavano la nebulosa primordiale costituiscono oggi i nostri cervelli, provvisoriamente incastrati a formare una curiosa configurazione. E ‘l’evoluzione’ del cervello, correttamente intesa, altro non sarebbe che la storia di quell’incastro e di quel configurarsi. Una storia che non ammette nature di tipo nuovo o fattori che all’alba dei tempi non si davano ancora ma entrerebbero in gioco solo in un secondo tempo”.
Gazzaniga, infatti, ci ricorda che la coscienza si è evoluta per gradi, non l’abbiamo trovata così com’era nel primo cervello umano.
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La coscienza è un istinto non è un libro semplice, e non potrò certo riassumerne il contenuto in questo articolo, ma verso la fine, quello che appare abbastanza chiaro, è che la meccanica quantistica abbia messo lo zampino anche nel nostro cervello, e non poteva essere altrimenti. Vengono affrontati argomenti come la differenza tra gli oggetti inanimati e soggetti viventi come noi, per capire cosa ci distingue veramente da un sasso, il tutto per andare a indagare quel divario che ancora separa il cervello dalla mente.
La coscienza per ora rimane un enigma, e i risultati che siamo riusciti a ottenere sono sconfortanti, sia per i deterministi sia per chi crede negli spiriti, come scrive Gazzaniga, che non attende a ribadirci che forse certe questioni rimarranno irrisolte. D’altronde, “la stessa meccanica quantistica è una teoria che ancora oggi nessuno capisce fino in fondo, perché è qualcosa che trascende la nostra intuizione e immaginazione”.
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Come disse il fisico Richard Feynman: “Non vi piace? Andate da un’altra parte, in un altro universo dove le regole sono più semplici e la filosofia più appagante e psicologicamente facile”.
E di nuovo, sempre Feynman: “Non sta a noi dettare alla natura come deve comportarsi. Abbiamo imparato la lezione. Ogni volta che formuliamo un’ipotesi sul suo comportamento e poi andiamo a misurare scopriamo che ci batte in astuzia. Può sempre vantare un’immaginazione più fertile della nostra e trova modi più scaltri per fare quello che deve fare in un modo diverso da quello che avevamo previsto”.
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E alla luce di tutto questo vien da pensare che in fondo dovremmo davvero prendere la vita come un gioco, dove, se tutto va bene, continuando a evolverci e a sperimentare, magari scopriremo il risultato di questo quiz molto divertente. Oppure no. Ma ha davvero importanza o l’importante è partecipare?
E il tutto risulta ancora più divertente quando Gazzaniga, in uno degli ultimi capitoli, inizia a raccontare che i pazienti sottoposti a callosotomia (resezione del corpo calloso, importante struttura nervosa che collega i due emisferi cerebrali), fanno esperienze che mettono assolutamente in dubbio il fatto che la coscienza possa essere emanata da un unico luogo ben preciso della mente, perché nel momento in cui si agisce a livello fisiologico, come nel caso della resezione del corpo calloso, anche la mente risulta scissa in due.
E per queste scoperte si deve ringraziare il neurochirurgo Joseph Bogen, che decise di intervenire con la resezione di cui sopra in un paziente affetto da gravissimi attacchi epilettici, il caso W.J. Fu l’inizio di sessant’anni di ricerca scientifica, che hanno condotto anche Gazzaniga a esprimere la sua teoria: “La coscienza non è il prodotto di una rete specializzata che consente a tutti i nostri eventi mentali di acquisire una qualità cosciente. No, ciascun evento mentale è gestito da moduli cerebrali dotati in partenza della capacità di renderci coscienti del risultato della loro elaborazione. I contenuti prodotti dai vari moduli salgono in superficie come bolle che affiorano al pelo dell’acqua di una pentola sul fuoco. Bolla dopo bolla, il risultato dell’elaborazione di ciascun modulo o gruppo di moduli viene a galla e scoppia per un istante, solo per venire sostituito da altre bolle in un incessante movimento dinamico. Quelle singole tornate di elaborazione vengono alla ribalta una dopo l’altra, in una successione ininterrotta garantita dal loro svolgersi nel tempo”.
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La coscienza potrebbe essere un’illusione, un susseguirsi di ‘bolle’ cognitive legate a bolle subcorticali di tipo ‘emotivo’ che il nostro cervello raccorda nella continuità del tempo.
“L’idea che la coscienza emani da più fonti indipendenti è controintuitiva, ma sembra che il cervello funzioni proprio così. Una volta assimilato questo concetto, la sfida consiste nel capire come i principi in base ai quali è strutturato il cervello consentano alla coscienza di emergere nella forma che conosciamo. Questo è il compito delle neuroscienze di domani”.
A questo punto o siete sconvolti o siete ammaliati dalla meraviglia di questa possibilità. Io propendo per la seconda.
Gazzaniga ovviamente impiega ben 300 pagine per arrivare a questo punto e per spiegare come si formerebbero queste bolle e perché la coscienza sarebbe un istinto, ma vi lascio il piacere della scoperta.
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Ora invece voglio tornare indietro di qualche anno, e riportarvi a La mente etica di Gazzaniga, uscito nel 2005. Perché tutto questo mi ha portato a un’altra riflessione. Se Dio è una nostra creazione, se siamo qui per mandare avanti la specie, per evolverci, per progredire, se la coscienza morirà con il cervello, perché la scienza dovrebbe avere dei limiti? Ha senso, alla luce di tutte le conoscenze scientifiche di oggi, continuare a limitare la ricerca? E chi dovrebbe imporre questi limiti?
La mente etica è una disamina sul concetto di etica a livello universale, che secondo Gazzaniga, oltretutto, è già insita in noi, proprio come la coscienza non è qualcosa che si acquisisce. Avremmo sempre meno bisogno della religione per capire cosa sia giusto e sbagliato.
Che senso ha, nel 2020, impedire la clonazione o la ricerca sugli embrioni e le cellule staminali? Perché dovremmo rinunciare alla diagnosi pregenetica?
La nostra società si è talmente evoluta da dover cominciare seriamente a considerare i dogmi della religione un limite.
E no, non c’entra niente con l’eugenetica travisata e infangata dai nazisti. Qui stiamo parlando di scelte, di genitori che vogliono evitare al figlio di ereditare una grave malattia. Se la possibilità c’è perché non farlo?
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Il problema è che la scienza fa ancora troppa paura. “Io credo che le scienze suscitino un timore particolare. Non la paura di creare qualcosa di anormale, ma quella del reale cambiamento sistematico che le scienze stanno producendo nel modo di concepire la nostra stessa esistenza. Compito della neuroetica è usare le nostre conoscenze sul funzionamento cerebrale per meglio definire il senso della natura umana e il modo in cui possiamo e dovremmo interagire socialmente. […]
Forse la paura di rinunciare alle credenze profondamente radicate rappresentate dalla religione è che il nostro diventerà un mondo senza fondamenta etiche, senza principi guida, senza significato. Sarebbe terribile. Eppure io credo che oggi le neuroscienze ci garantiscano che le cose non andrebbero così. È più probabile che le credenze religiose scaturiscano da storie differenti intessute in epoche diverse della storia umana al fine di spiegare la realtà, insieme con la peculiare capacità di ragionamento etico che la nostra specie possiede da sempre. In breve, vorrei sostenere l’idea che potrebbe esistere un insieme universale di risposte biologiche a dilemmi di natura etica, una sorta di morale connaturata al nostro cervello. Mi auguro che presto potremmo essere in grado di svelare quell’etica, di identificarla e, grazie ad essa, di vivere più pienamente. Credo che oggi la viviamo perlopiù inconsciamente, ma che un bel po’ di sofferenze, guerre e conflitti potrebbero essere eliminati se potessimo accordarci per viverla più consapevolmente”.
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Anche perché Gazzaniga in questo libro ci parla di un altro fatto molto interessante e che potrebbe scandalizzare molti lettori. Pare infatti che molti personaggi famosi come van Gogh, Dostoevskij, Dick, Flaubert, Socrate, Swift, Alessandro il Grande, Newton, fossero affetti dalla ELT, epilessia del lobo temporale, associata alla sindrome di Geschwind, che prende il nome da Norman Geschwind, neurologo di Boston, che descrisse così le caratteristiche di questa sindrome:
1) ipergrafia, la tendenza a scrivere in modo compulsivo e prolisso; 2) iper-religiosità, la tendenza a essere estremamente religiosi con un profondo interesse per la moralità, che spesso conduce a conversioni religiose molteplici; 3) aggressività, di solito transitoria e che non induce atti violenti; 4) dipendenza dagli altri, che porta a essere appiccicosi e insistenti, incapaci ad esempio di terminare una conversazione; 5) alterazioni sessuali, verso i due estremi opposti di eccesso o assenza di desiderio sessuale.
Questo connubio tra ELT e sindrome di Geschwind, avrebbe influenzato molto le opere e le scelte di vita di questi uomini, ma soprattutto potrebbe aver influenzato le visioni di molti mistici.
“Di particolare interesse, riguardo al rapporto tra credenza religiosa ed ELT con concomitante sindrome di Geschwind, sono le numerose crisi mistiche documentate durante gli attacchi epilettici e la forte religiosità nell’arco di tempo in cui essi non si manifestano. Se le manifestazioni epilettiche possono causare crisi mistiche, e gli attacchi rappresentano puramente un sovraeccitamento del tessuto cerebrale, allora è possibile, e anche probabile, che la religiosità possa avere una base organica all’interno del normale funzionamento del cervello. Tuttavia, con questo riferimento alla base fisica delle credenze, non si vuole di certo sostenere che coloro che possiedono credenze religiose siano sotto l’effetto di una crisi epilettica”.
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Sono molti i personaggi biblici che potrebbero aver avuto delle crisi epilettiche, come Saul, che sulla via di Damasco vide una luce abbagliante e sentì la voce di Gesù, e successivamente si convertì alla fede cristiana e divenne un apostolo prendendo il nome di Paolo. Pare però che Saul abbia avuto la malaria, e quindi febbre alta, che probabilmente gli causò danni cerebrali. Anche la cecità temporanea dopo l’accaduto, dice Gazzaniga, potrebbe essere l’effetto noto, anche se raro, di queste crisi. E così le rivelazioni di Maometto, che avevano componenti visive, uditive ed emozionali simili a quelle che accompagnano le crisi epilettiche. E anche le storie di altri personaggi come Mosè, Buddha, Giovanna D’Arco, e i santi Cecilia, Margherita, Michele, Caterina e Teresa, contengono evidenze di epilessia.
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Le credenze sono create dall’emisfero sinistro del nostro cervello, “quello che attribuisce un significato all’input proveniente dal mondo esterno”.
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“Per la maggior parte, le credenze, pur essendo interpretazioni basate sulla conoscenza disponibile nel momento in cui si sono formate, sembrano stabilmente impiantate nella mente”.
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La mente sembra possedere una capacità interna che porta a reagire a determinate situazioni della vita in base alle quali solo successivamente viene attribuita una moralità, quella che il teologo Ronald M. Green chiama “struttura morale profonda”.
Abbiamo visto anche grazie al precedente libro di Gazzaniga, La coscienza è un istinto, che il cervello non è un sistema olistico, ma ci sono “differenti moduli che producono le loro elaborazioni separatamente, all’interno delle reti neurali”. Ma nonostante questo percepiamo noi stessi come un unico sé.
I pazienti con una complicanza dovuta a un danno cerebrale chiamata anosognosia per l’emiplegia, non riconoscono come proprio il braccio sinistro perché “il danno ha compromesso la corteccia parietale destra che presiede al monitoraggio dell’integrità del corpo, alla sua posizione e ai suoi movimenti. L’interprete dell’emisfero sinistro dovrebbe riconoscere che il danno ai nervi del braccio implica un problema a livello cerebrale e dovrebbe capire che il braccio è paralizzato. Tuttavia, in questo caso l’area cerebrale responsabile della segnalazione di un problema nella percezione dell’arto è stata direttamente danneggiata e non può quindi mandare informazioni all’interprete dell’emisfero sinistro”.
Quindi cosa accade? “L’emisfero sinistro crea una credenza per ovviare alla contraddizione tra i due fatti a lui noti ‘vedo che l’arto non si muove’ e ‘non posso dire che è danneggiato’”. L’emisfero sinistro non solo crea la credenza ma gli rimane fedele qualunque cosa accada. E Gazzaniga fa altri numerosi esempi per spiegarci meglio questa condizione.
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L’emisfero sinistro potrebbe aver creato Dio per cercare di dare un senso alla nostra vita su questo sasso che gira in un universo in continua espansione. Come dargli torto? La nostra mente ha bisogno di spiegazioni causali, e tutte le religioni danno delle spiegazioni cui aggrapparsi, ma soprattutto si sono “evolute in un sistema di supporto sociale, un sistema razionale che tenta di dare un senso alle reazioni individuali di tutti noi”.
E tutto per cercare di sopravvivere al meglio nella società. La religione ha un’utilità molto terrena, se così non fosse, molto probabilmente l’avremmo già abbandonata.
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Ma una nuova società privata della religione, sarà capace di vivere in armonia capendo da sé cosa è giusto o sbagliato senza imposizioni esterne? Le credenze erano un bisogno irrinunciabile di una società primitiva, come ci ha spiegato benissimo anche René Girard nel suo La violenza e il sacro, di cui ho già parlato su Pangea.
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Gazzaniga chiude il suo libro immaginando proprio questa prospettiva futura: abbandonare quelle credenze che troppo spesso accecano e cui spesso rimaniamo ancorati anche di fronte all’evidenza della loro infondatezza, per un nuovo mondo in mano a individui capaci di optare per scelte etiche pur basandosi su conoscenze empiriche. “A mio avviso, la comprensione che le nostre teorie siano l’origine di tutti i nostri conflitti potrebbe contribuire in modo determinante a semplificare la convivenza tra persone con differenti sistemi di credenza”.
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Potremmo andare verso un’etica universale, gestita da noi, grossi animali che continuano a evolversi. Le religioni sono sistemi che ci hanno permesso di sopravvivere, basati su teorie che ormai dovremmo, anzi, dobbiamo superare, se vogliamo continuare a progredire. La domanda conclusiva di Gazzaniga è: “abbiamo un senso morale innato come specie, e se così è, come possiamo riconoscerlo e accettarlo in questi stessi termini? Non è una buona idea uccidere semplicemente perché non lo è; non perché lo dicono Dio, Allah o Buddha”.
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Questo libro non è per tutti. Ci vuole una grande apertura mentale per non prenderlo e lanciarlo via o bruciarlo. Perché i temi affrontati sono quelli ‘scottanti’ e difficili da affrontare, soprattutto per i credenti, e per tutti coloro che hanno paura del cambiamento e di quello che non si conosce ancora, perché non si sa dove potrebbe condurre.
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È come la paura della morte, che andrebbe affrontata e guardata in faccia per superare il disgusto, l’ansia, l’angoscia, il terrore, il senso d’ingiustizia, e il fatto che forse è davvero tutto qui. Eppure, se si scendesse a patti con la morte, ci si potrebbe convivere, e non ci sarebbe ancora questo bisogno disperato di Dio. Come scriveva Thomas Mann ne La montagna incantata: “[…] Fin tanto che ci siamo la morte non c’è, e quando c’è la morte, non ci siamo noi; che pertanto tra noi e la morte non esiste nessun rapporto reale, ed essa è una cosa che non ci riguarda proprio niente, e semmai riguarda un po’ il mondo e la natura… e perciò tutti gli esseri la aspettano con grande calma, indifferenza, mancanza di responsabilità e innocenza egoistica”.
“Conosco la morte, sono un suo vecchio funzionario, mi creda, la si sopravvaluta. Le posso dire che non conta quasi nulla: i tormenti eventuali che precedono non si possono onestamente attribuire alla morte, sono guai arcivivi e possono condurre alla guarigione e alla vita. Ma nessuno, quando ritornasse, potrebbe dire nulla di serio intorno alla morte, perché non se ne fa l’esperienza. Noi veniamo dalla tenebra e andiamo nella tenebra, frammezzo ci sono le esperienze vissute, ma il principio e la fine, la nascita e la morte non sono nostre esperienze, non hanno un carattere soggettivo, sono fatti che avvengono in campo oggettivo: ecco come stanno le cose…”.
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Il nuovo uomo che verrà riuscirà a fare a meno di Dio? Sarà un’evoluzione o un suicidio di massa? La religione verrà insegnata, in un non troppo lontano futuro, come niente più che la mitologia? Il crocefisso sarà niente più che un ricordo, un soprammobile? Non credo che il nuovo uomo sarà un superuomo, non sarà un nichilista, sarà più una versione aggiornata di uno shivaita tantrico del Kashmir, che ascoltandosi nel profondo sa già cosa è bene e cosa è male, senza leggi, senza mezzi e senza ricongiungimento con l’Assoluto, ormai superfluo. Sarà un ateo consapevole che anche se Dio non dovesse esserci, non è vero che tutto è permesso, perché il senso della morale è già insito in noi se ci fermiamo ad ascoltarci profondamente, sviluppando e accrescendo l’empatia, per un’evoluzione collettiva, consapevole, e non solo individuale.
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Anche alla scienza mancano risposte, certamente. Il mistero rimane. Forse tutto o niente è possibile. A me, per esempio, piace immaginare che una volta morti la nostra coscienza (o le nostre ‘bolle’ di coscienza) finirà in un altro corpo uguale o simile al nostro, su altro pianeta, in un universo parallelo, il tutto passando attraverso un buco nero. Ma questa è un’altra storia. Quasi quasi fondo la mia setta.