Alle origini della poesia araba ci sono i briganti: poeti reietti, reclusi nell’infamia, che alla sicurezza del clan hanno preferito la latitudine della latitanza, la compagnia delle fiere selvagge, il disprezzo e i deserti. Nei loro canti – passati di labbra in labbra come una sorta di codice per un’esistenza ‘altra’, marziale fino al massacro – è virile il disprezzo verso intellettuali e allevatori, contadini e burocrati, genti assopite nell’ordinario, impresarie del quieto vivere. Al contrario, è alto l’elogio della vita all’assalto, della razzia come poetica esistenziale, del rischio al chiaror di luna. Figure notturne e sanguinarie, di questi poeti il più noto è Shanfara, a cui l’arabista Francesco Gabrieli dedicò, nel 1947, per Fussi Editore, un libro-amuleto, Il bandito del deserto (ripreso, nel 2018, da La Vita Felice). Insieme a lui, compagno di scorribande e di aspri deliri, figura Ta’abbata Sharran. Entrambi passano con la nomea di sa’alik,
“bastardi reietti che, razziando e uccidendo, vivevano ai margini di quella primitiva società o addirittura in opposizione ad essa, soffrendo di tale stato ma facendone al contempo la propria bandiera. I due nomi di maggior spicco di questa ‘categoria’ sono sicuramente Shanfara e Ta’abbata Sharran, suo compagno di avventure e di lotte specie contro i Banu Hudail. Entrambi, sono vissuti nei decenni immediatamente precedenti alla predicazione di Muhammad”.
Younis Tawfik e Roberto Rossi Testa, in: Shanfara, Il brigante delle sabbie, Book Editore, 1993
Il carisma di questi poeti è la spietatezza: la loro musa è l’ira, la loro ispirazione la vendetta. Il senso dell’onore sfocia in scontri sanguinari: l’icona sotto i cui stemmi canta tale poeta è lo sciacallo, la iena dai fianchi stretti, l’avvoltoio che, rimpinguatosi di cadaveri, col ventre gonfio, non sa più volare. Quasi sempre, questi poeti hanno subito un torto, reclamano averi e onori sottratti loro con l’inganno – quasi sempre, questa poesia insonne, all’addiaccio, narra di un plumbeo istinto al vagabondaggio.
In particolare, Ta’abbata Sharran è un nome-marchio: significa, “colui che reca il male sottobraccio”. Numerose le storie agiografiche ricamate intorno a questo epiteto. Secondo alcuni, egli avrebbe catturato e portato a casa, ragazzo, un montone, poi rivelatosi un demone; secondo altri, al posto di raccattare frutti, come richiesto, avrebbe fatto incetta, nella cesta, di serpenti, branditi come una cornucopia. Secondo i parenti, il nomignolo gli fu conferito perché, più banalmente, portava sempre con sé una lama, era sempre pronto a duellare. La leggenda – giacché questi poeti-banditi sono accerchiati, per lo più, da agiografie feroci, da fiabe che ululano – riporta una terzina della madre di Ta’abbata Sharran, lamento che trascende in monito:
“Vagava per i deserti: credeva di fuggire la morte e morì.
Se solo sapessi cosa ti ha ucciso, mio errante…
Qualunque via percorra un ragazzo, il Fato lo agguanta”.
La poesia di questi briganti – spesso rude, rapinosa, di versi-dardi, lirica purosangue senza redini – inneggia al coraggio, narra di epiche e atroci vendette. Una sorta di frugale nobiltà la ammanta: segue il diktat del qui-e-ora, ha la fierezza dei marginali, il ferino effimero nel cuore. Pare che Ta’abbata Sharran sia morto in un agguato, nel 607; il suo corpo, come quello di Shanfara, restò insepolto, alla mercé degli uccelli e delle bestie di passaggio. Bisognava che si deformasse, senza ricamo di pianto, il corpo di chi non voleva conformarsi alle leggi della tribù, inseguendo una propria anormale norma. Goethe lo amava e tradusse una sua poesia nel Divan.
Nella poesia moderna – e genericamente nella poesia occidentale – è difficile che l’ira, la vendetta, il rancore siano il propellente del genio. Certo, ci sono le invettive di Dante, ma lì è altra altezza. No, qui si parla dell’agguato, della notte spezzata come un bicchiere, dell’andare a tentoni, lerci, con la bassa crudeltà faina. Soltanto in Sylvia Plath, a memoria, ritorna il ritornello della rabbia, nelle ultime poesie, quelle dall’ottobre ’62 in poi. Amnesiac, ad esempio:
“È inutile, inutile ora supplicare Riconosci!
Un vuoto così bello non ci può far altro che spianarlo.
Nome, casa, chiavi della macchina,
la mogliettina-giocattolo –
Cancellati, ohi, ohi.
Quattro bambini e un cocker!
Infermiere grandi come vermi e un minuscolo dottore
lo rincalzano nel letto.
Vecchie vicende
gli si staccano dalla pelle.
Via, tutto giù nel cesso!…
O sorella, madre, sposa,
la mia vita è il dolce Lete.
Non tornerò mai, mai, mai più a casa!”
È micidiale questa energia di latte e di lotta, senza posterità. Come in Thalidomide: “I frutti scuri compiono il loro ciclo e cadono.// Lo specchio s’incrina da parte a parte,/ l’immagine// fugge e abortisce come mercurio caduto”. Oh, sì, Sylvia, degna reietta, adatta a sguinzagliare orde di lupi gialli tra i savi beduini.
Difficile, oggi, dare all’ira il primato lirico – è tempo, per lo più, di passioni tiepide, di quieti ardori d’intelletto. Della poesia non si sente la santa ribellione: è cosa di cui discutere a cena, tra falò di chiacchiere. Che torni l’arco tra noi, allora, le alte figure dell’orgoglio – non quelle dell’ego-ano – il poeta che sradica per rinverdire la conca degli avi, e pianta il suo futuro altrove, senza disciplina di ciechi eredi, nel bianco.
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Ta’abbata Sharran
Sul sentiero tra le rocce, presso Sal’
un uomo è stato ucciso, sangue che non passa.
Un fardello mi ha imposto, di un compito
mi ha incaricato – e io lo ho assunto.
Figlio di sua sorella, devo vendicarlo:
un guerriero non cede, il voto non scioglie.
Pupille sfondate, morte ha il volto di vipera
rabbiosa serpe che sputa veleno mortale.
Dure le notizie, tanto gravi da rendere
niente un destino imbizzarrito.
Se il fato ha fatto scempio di me, per lui,
un uomo sprezzante, è stato tiranno.
Mezzogiorno di una giornata gelida
la Stella del Cane latra: cerca lembi d’ombra.
Aveva i fianchi magri, non gli mancava nulla:
era generoso, intelligente, di sé monarca.
Partiva sempre risoluto finché
con risolutezza non lo ha divorato il fato.
Nubi bianche dardeggiano quando elargisce
doni e assale un leone reietto.
Senza la cerchia del clan, nere labbra, avvolto
nella sua tunica pare un cucciolo di lupo e una iena.
Sa di erba e di miele
l’odore che deve avere un uomo.
Cavalca solitario contro il terrore
suo unico compagno il destriero yemenita.
Bande di ragazzi nella spirale del sole
lo hanno inseguito tutta la notte.
Lama affilata al loro fianco
pari a un lampo quando la sguaini.
Di loro facemmo vendemmia, alta
vendetta: in pochi riuscirono a scappare.
Sonno centellinato a gocce: ebbri
di sogni, li hai spaventati – si sono dispersi.
Se Benu Hudhayl ha annotato morte
sulla sua lama è per difendersi
perché lo hanno costretto a inginocchiarsi
perché hanno logorato i suoi cammelli.
Nei loro rifugi offrì latte di primo getto
poi li uccise e saccheggiò le loro mandrie.
Dai alla lancia un sorso e lei
ne pretenderà un altro e un altro ancora.
Ora che mi è lecito, offrimi
del vino: è il momento di bere.
Dopo la vendetta, il mio corpo
è fiacco di massacri:
la iena ghigna sopra gli uccisi
il lupo sembra sorridere: al mattino
vecchi avvoltoi incespicano – hanno il ventre
gonfio, non sanno più volare, inciampano sui morti.
*
Lotta contro un demone
Mi apparve nera quando le strappai la veste
una piaga la lacerava: infine, crollò la notte.
Ne scrutai i movimenti al nitore del
fuoco: le fui vicino – era mostruosa.
Reclamai il suo sesso, lei mi mostrò
il volto, terrificante: era un demone, un Ġūl.
Le ho intimato: guardami. Venne presso di me
a quattro zampe, vampando di voluttà.
Sguainai la pietra e cominciai a colpirla
finché non ne riconobbi più le forme:
tornò lucertola del deserto
flirtò con le sabbie, sparì.
Quando ho in testa qualcosa, ricorda,
non mi trattengo, passo subito all’azione.
*
Prode che avvolto nel manto notturno,
veglia eterna degli occhi, sempre ha in cura
lo scontro col nemico taciturno,
chiuso nell’armi, come in copertura,
e l’occupa il sangue della vendetta,
a tu per tu, lui bruciato dal sole.
Lo fronteggia il nemico e la sua mole,
spinto dalla sua gente nella stretta;
ma i colpi dati sui crani nemici
non han bisogno di spinte d’intorno.
A lui, per ingannar la fame, il giorno,
poco cibo ora serve e benefici:
acuti spigoli costole ed ossi
incollate aderiscon le budella.
Nella tana con fiere, o dentro i fossi,
nella notte posando in comunella,
non toglie loro l’erba nel mattino,
libere pascolano al vivo vento,
e coglie di sorpresa, o in fausto evento,
la preda rintanata in un cantino;
uomini d’arme affronta sempre infine.
Le bestie in lui non vedono che un prode,
che non si cura della loro fine,
ma se una mano a un fedele custode
potessero poi tendere davvero,
a lui la tenderebbero sicure.
Quando la traccia impressa nel sentiero
seguita è tutta nelle sfrangiature,
accompagnato o solo fa sfiancare
di pregne cammelle i padroni, e accecare.
Per quanto lunga vita mi si allunghi
la lancia della morte ha i ferri lunghi.
(Traduzione di F. M. Corrao e G. Trinci)
*In copertina: Cesare Biseo, Beduino con cammello, 1870 ca.