«“Il noir non può morire”. Carlo Lucarelli ne è certo».
Stefania Parmeggiani, “la Repubblica”, 25 aprile 2022
È del 5 aprile scorso l’intervista di Repubblica allo scrittore bolognese Loriano Macchiavelli, che ha inaugurato un dibattito a distanza sul “noir” italiano e sulle sue sorti in quest’epoca di bulimia narrativa e editoriale generalizzata. Tutti, ormai, abbiamo davanti la lunga parata di commissari, ispettori, marescialli, casalinghe, preti e balordi da bar nostrani che indagano su delitti, misteri e quant’altro – tutte cose che col noir autentico non c’entrano, a dire il vero, perché intrise di quel provincialismo italiano che ci caratterizza, anche quando si tenta di giocare all’efferatezza spinta. Casomai si può parlare di “spaghetti-noir”, una sorta di scopiazzatura – fatte le debite eccezioni – che col suo perpetuarsi va squagliandosi in una produzione di b-novels da ingoiare come pillole. «Il poliziesco italiano sta indubbiamente vivendo un momento magico», afferma Macchiavelli.
«Abbiamo tutto quello che mancava, dai nuovi editori ai nuovi scrittori, da giovani entusiasti che scrivono e che sperimentano, a una critica finalmente attenta, dai giornali che non vedono l’ora di pubblicare articoli, alle importanti case editrici che non vedono l’ora… Abbiamo soprattutto dei lettori e di questi, noi scrittori dovremo tenere conto».
In realtà tutto ciò è vero solo in parte, perché “i giovani entusiasti che scrivono e sperimentano” sono per lo più torme di persone editorialmente invisibili o autopubblicanti, che alimentano la saturazione autopromozionale – si veda alla voce: social – e creano un rumore di fondo che non giova a nulla, se non a consolidare l’appiattimento generale. Questi giovani entusiasti, inoltre, gli sbocchi non li trovano se non vengono in qualche modo favoriti o sponsorizzati, se non hanno cioè la fortuna di agganciarsi a qualche persona influente: quindi non conviene insistere a presentare lo spaghetti-noir come un fenomeno vitale e in evoluzione, che promette futuro, anche perché la gabbia del genere è limitante e il materiale creativo è fatto di emulazione, di servaggio ai fenomeni del momento, che proprio quando vengono imitati perdono la forza trainante.
In effetti, una sorta di sconfitta la ammette lo stesso Macchiavelli: «c’è da chiedersi se il noir serva ancora per raccontare il nostro mondo. La mia risposta è no. Almeno non come è “scritto” oggi dalla gran parte di scrittori (e nella lunga lista mi ci metto anch’io), soggettisti, sceneggiatori. Infatti il noir non preoccupa più nessuno». E accenna un’importante retrospezione storica:
«Il successo del poliziesco italiano non è nato dall’oggi al domani, è frutto di paziente lavoro, di tentativi, d’incontri fra scrittori e scrittori, fra scrittori, critici e studiosi… Ho vissuto in prima persona le numerose esperienze per creare in Italia un’associazione a delinquere, che altro non sono gli scrittori di giallo, ci ho provato ripetutamente, finché nel 1990, con il gruppo 13, insieme a Marcello Fois e a Carlo Lucarelli, non siamo riusciti a creare qualcosa di duraturo».
Eccoci al punto: quel gruppo bolognese di scrittori si unì in associazione per rendere più efficace l’autopromozione attraverso un lavoro instancabile, stringendo accordi con giornalisti locali e nazionali, organizzando incontri attraverso le alleanze con gli assessorati, usando trucchi ed espedienti per aumentare la propria visibilità, creando rumore per far credere di avere schiere di lettori al seguito (che non era vero), come quando un drappello di militari si mette a far baccano per spaventare la larga schiera di nemici che ha di fronte, convincendoli a sloggiare. Questo gruppo primigenio di scrittori si consolidò poi in una forma pienamente corporativa di cui seguì tutte le logiche, e riuscì, usando le sinergie in maniera scaltra, a occupare il terreno in proprio favore, producendo così l’effetto collaterale di sottrarre spazio ad altri scrittori non meno valenti che, muovendosi individualmente, trovavano muri di gomma quasi invalicabili.
«Pur venerando Loriano Macchiavelli, non sono d’accordo con lui. Il romanzo nero, come preferisco chiamarlo allargando il campo a tutta la crime fiction, non ha perso vigore, ha trasferito la sua forza sovversiva nelle emozioni individuali».
«Il noir è il territorio narrativo dei nostri sentimenti deviati. D’altra parte, esiste oggi un potere così prevaricante, così granitico, contro cui scagliarsi? Poteva avere probabilmente ancora senso negli anni Settanta o Ottanta, ora mi sembra manchino le condizioni».
Qui De Giovanni centra il punto: l’evoluzione di questa narrativa di genere negli ultimi quindici anni è riuscita a superare il lobbysmo bolognese, che puntava soprattutto a “passare all’incasso” con prodotti mediocri e standardizzati, come ebbe a osservare anche Daniele Brolli in un vecchio articolo sulla rivista Pulp Libri, che non mancò di suscitare sdegno e riprovazione – e ritorsioni, è bene ricordarlo – nel gruppo dei Macchiavelli, Lucarelli and Friends.
«È la prossimità del male la nuova materia del romanzo nero e mi creda non è meno disturbante. Perché pensa che le persone guardino con tanta attenzione i programmi che parlano di crimine? E perché i romanzi neri vendono tanto?».
All’intervento di De Giovanni su Repubblica ne sono seguiti altri: Carlo Lucarelli il 25 aprile, di nuovo Loriano Macchiavelli il 4 maggio e così via; ma in ultima analisi diventano chiacchiere di scarsa rilevanza, su cui non conviene soffermarsi. Ora è più interessante – quantomeno in una prospettiva storica – raccontare l’esperienza fatta dal sottoscritto oltre un ventennio fa al Mystfest di Cattolica, in presa diretta con l’entourage del “noirismo” italiano che si diceva in ascesa.
Era l’anno Duemila, e la manifestazione aveva riaperto dopo un periodo di pausa dovuto a mancanza di fondi e di motivazione. Ricordo che mi misi ad assistere alle conferenze mattutine, dedicate alla “topografia del Giallo in Italia”, in cui i volenterosi organizzatori pensavano di mettere in piedi una specie di confronto filologico sul romanzo giallo nel nostro Paese. Sul palco si avvicendavano sedicenti scrittori provenienti da varie regioni, quasi sempre sconosciuti e sotto-pubblicati, che discettavano sul perché le loro storie erano ambientate in questa o in quella città, perché i paesaggi toscani o umbri sono così belli, perché tra Firenze e Prato c’è rivalità, perché quelli di Perugia non possono vedere quelli di Foligno o di qualche altra città vicina e via discorrendo. Delle loro opere non si sapeva nulla, praticamente invisibili. Di Giallo vero, quello che mi aspettavo io, neanche l’ombra.
Ricordo che a parlare di Torino c’era un ometto canuto e occhial-nasuto, simpatico e inconsistente, che mi dissero essere l’ex-boiardo della Tv di Stato Bruno Gambarotta; poi sentivo parlare qua e là di “Scuola dei Duri”, senza capire cosa fosse. Era abbastanza desolante osservare gli scrittori che s’erano dati convegno: personaggi alticci – quando non sbronzi – che imperversavano con la logorrea e lo sguardo stralunato; gruppuscoli di sconosciuti che fremevano per salire sul palco, lamentandosi perché chi lo occupava in quel momento la teneva lunga rievocando ricordi di gioventù o citando autori ignoti. Tra le file della platea s’incrociavano polemiche sussurrate e sguardi velenosi, liberando nubi di velleità che si tagliavano col coltello. Nemmeno i commenti stentorei e inopportuni dei soliti ubriachi alleggerivano l’atmosfera.
Il “pubblico” era composto soprattutto da qualche giornalista locale e scrittori veri o sedicenti: i lettori potevano contarsi sulle dita di una mano. Osservando gli spostamenti fra le poltrone e le manovre di quei derelitti, con gli sguardi che saettavano, capii alcune cose. Esistevano due cricche: quella dell’uno e quella dell’altro. Il primo era della vecchia guardia (Loriano Macchiavelli, ndr), il secondo della nuova (Carlo Lucarelli, ndr). Le due bande si sfioravano senza frequentarsi troppo; il più giovane era ormai uomo di potere che poteva promuovere o bocciare, avviare o meno una carriera letteraria. Oscuri aspiranti ne concupivano da lontano la figura rotonda, segno di opulenza crescente: accostati ai margini, non gli staccavano gli occhi di dosso, cercando di cogliere i contorni dell’aura che l’avvolgeva. Lui stava col suo gruppo, parlando ora con uno ora con l’altro, guardingo. Ogni tanto qualcuno approfittava di una sua pausa per avvicinarlo e dirgli qualcosa con sguardo trepidante e sottomesso. Lui ascoltava cortese, faceva qualche cenno di assenso e si allontanava. La tensione era palpabile, sia fra gli aspiranti sia fra gli scrittori: in entrambi i campi c’era concorrenza, voglia di essere considerati. Intanto il drappello di giovinastri attempati con tatuaggi, bottiglia e sigaro d’ordinanza continuava a rumoreggiare, dicevano di essere della Scuola dei Duri, che ancora non capivo cosa fosse.
Insomma, faceva un effetto strano quel Mystfest. Uno immaginava una kermesse ricca di pubblico e di autori, con proposte nuove ma anche vecchie, comunque valide, e invece si ritrovava tra gruppuscoli di personaggi di varie fogge, ma simili nell’aspetto, che confabulavano tra loro.
Nel cortiletto del cosiddetto Museo della Regina, pochi metri quadri di erba e mattonelle con un tavolino, qualche microfono e una ventina di sedie, l’ometto coi capelli candidi – l’ex boiardo della Tv di Stato – presenziava soddisfatto all’introduzione, per poi prendere la parola. Intanto le persone si raggruppavano in capannelli e parlottavano, guardandosi intorno per controllare la situazione. Che fossero tutti scrittori lo si capiva dalle magliette e camicie gualcite tenute fuori dai pantaloni stazzonati, dalle barbe non rasate, dalle scarpe portate con negligenza, dai sandali spudorati che esibivano unghie non tagliate. Il messaggio poteva essere: sono uno scrittore, quindi vesto come mi pare. Ma anche: vesto come un disgraziato, quindi sono uno scrittore. Le scrittrici, poche per la verità, cercavano di tenere il passo: capelli per lo più grigi (niente nuove promesse, dunque) tenuti sommariamente con l’elastico, camicie a scacchi, jeans scoloriti, espadrilles, espressione scontenta e diffidente. Quando incrociavano il mio sguardo si fermavano un attimo a studiarmi, forse chiedendosi se ero un concorrente, ma visto che non ero vestito di stracci passavano oltre. Per il “Giallo” italiano, si sa, non c’era abbastanza spazio: soffocati dagli anglosassoni e dai francesi, e pure dagli scandinavi, gli autori nostrani hanno sempre avuto vita difficile (salvo qualche eccezione fortunata).
Dunque, l’ingresso di nuove leve era visto con grande sospetto: dietro ogni esordiente dall’aria innocua poteva celarsi il pericoloso demone del talento. Gli unici a tradire un certo decoro erano i componenti del pubblico, tre o quattro persone diligentemente sedute. Forse erano gli unici ad ascoltare l’allegro bambolotto canuto e occhial-nasuto che lanciava battute spiritose. Ma dov’erano gli altri? «Di sopra c’è una mostra su Edgar Wallace», dicono, e allora mi metto alla ricerca. Arrivato di sopra, mi trovo in un sottotetto ben fatto, con travi a vista calde e accoglienti, dove una lunga serie di bacheche orizzontali espone i romanzi del grande giallista nelle varie edizioni originali, tra cui veri pezzi d’epoca. La sala è deserta. Guardo le copertine e cerco qualche percorso ragionato esposto sui muri, ma non lo trovo. Dunque, scendo e faccio un giretto in Piazza del Mercato, inondata di sole e anch’essa deserta. Quindi torno nel cortile, deciso a vederci chiaro: dov’è il pubblico? Forse è ancora presto, pensavo, ora la gente sarà arrivata, si parlerà di qualcosa d’interessante. Giunto lì, lo trovo svuotato. Quattro persone che vi stazionano con aria annoiata mi spiegano che è cominciata la partita Italia-Olanda.
Al Mystfest la sala cosiddetta Snaporaz, praticamente, è un cinema. Poltrone comode disposte a discesa, buona acustica, il palco con uno schermo su cui proiettare film. Un tavolo con microfoni e tre posti a sedere: due per i moderatori e uno per le persone invitate a parlare. Ma il susseguirsi degli interventi è sempre meno incoraggiante. Vecchi malfermi sulle gambe salgono a discettare su questioni filologiche superate, giovani eccitati affrontano questioni impervie come il perché della scelta di un’ambientazione invece di un’altra, scrittori noti e sconosciuti portano la loro testimonianza. Uno della Scuola dei Duri affronta i gradini del palco barcollando, e quando è a portata di microfono spiega di aver tre costole incrinate per un allenamento in arti marziali in cui l’istruttore ha affondato il colpo. Più tardi, quando lo incrocio in Piazza del Mercato, mi saluta con un gesto gioviale, sebbene non ci siamo mai visti prima. Man mano, la noia tende a sopraffare. Quando uno dei relatori inforca gli occhiali e si mette a leggere alcuni fogli, arriva il colpo di sonno. Sogno qualcosa che non ricordo, e quando mi sveglio mi guardo intorno: il pubblico sulle poltrone sembra sfoltito. Dunque, salgo verso l’uscita per prendere un po’ d’aria: dietro una delle balaustre che fiancheggiano la sala riconosco la sagoma massiccia di G., seduto accanto a una ragazza di circa vent’anni che, mentre passo, lo abbraccia infilandogli la lingua in bocca. Vado alla toilette e decido di rientrare in platea, stavolta nelle prime file. Dopo poco arriva un signore distinto e occhialuto dall’aria giovanile, accompagnato da una bella donna in abito sobrio. Subito ne riconosco il profilo: è l’ex ministro della Giustizia, noto appassionato di detective fiction. La sua presenza sembra passare inosservata, tanto che le teste degli organizzatori e relatori annidati nelle poltrone nemmeno si girano. Poi, quando il moderatore lo invita a salire sul palco per intervenire, inizia il fermento.
Le antenne si drizzano, sguardi s’incrociano, culi si alzano per cambiare di posto. Quando ritorna alla sua poltrona, dapprima isolata, l’ex ministro si trova pieno di amici: dai sedili davanti, da quelli dietro, da quelli di fianco una piccola folla di facce sorridenti gli fa i complimenti e una selva di mani cerca di stringere la sua. Chi gli passa foglietti, chi gli sussurra carinerie all’orecchio, tutti chiamandolo “ministro” anche se non lo è più, finché un organizzatore gli piomba addosso per consegnargli una cartella dall’aspetto ufficiale. Lui la apre e ne studia le carte. Mi avvicino per leggere: è un appello/petizione dei partecipanti, indignati perché il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha negato all’ultimo momento i finanziamenti al Mystfest, non considerandolo evento rilevante. Il “ministro” sfoglia le carte, dov’è incolonnata una quarantina di firme, ascolta, annuisce. L’ex boiardo della Tv di Stato, inginocchiato sul sedile davanti dando le spalle al palco, gli parla a dieci centimetri dalla faccia. A quel punto decido di uscire.
Non mi sono rassegnato e voglio scoprire dov’è il pubblico. In Piazza del Mercato è predisposto lo spazio per le presentazioni letterarie, ma ancora non si vede un’anima. Migro in un’altra piazzetta poco distante, tutta aiuole, fontanelle e turisti, e scopro due banchetti che vendono libri gialli usati e da collezione. Qui c’è un po’ di gente che esamina i volumi, li soppesa, li compra: sono quelle le persone che leggono, e che alla fine determinano la fortuna degli scrittori. “Perché siete così emarginati?”, chiedo ai bancarellari. E loro me lo spiegano: l’Amministrazione comunale temeva che la loro presenza nuocesse all’estetica dell’arredo urbano, così li hanno spinti fuori da Piazza del Mercato confinandoli lontano dal Mystfest e imponendo banchetti ridotti, allineati a ridosso delle panchine lungo un lato della piazza, perché non si notassero. Eccoli qui, finalmente, i lettori.