Decisamente non è un animale da intervista. Più probabilmente, si sente a suo agio solo nel chiuso della sua stanza, davanti al foglio bianco su cui disegna e al computer con cui affina il lavoro. La voce è incerta, si perde e viene schiacciata dal peso stesso delle parole. Sembra quasi che la ricerca dei termini per definirsi gli causi un’ansia incontenibile. Metterlo a suo agio non è semplice. E, forse, è proprio nel suo essere costantemente fuori posto, in questa sua inadeguatezza, che sta la forza che riesce a trasmettere attraverso le sue vignette. Del resto, è questo ciò a cui ha sempre cercato di dare forma: alle sue fragilità.
Lui si chiama Gabriele Villani, classe 1990, ed è la mano che sta dietro ai disegni che un po’ tutti abbiamo avuto modo di vedere su Facebook e Instagram, quelli della nota pagina di Coma Empirico. Siamo andati a stanarlo, per cercare di carpire il segreto del suo successo. Verosimilmente, abbiamo comunque mancato nel nostro intento, dato l’essere così schivo di questo ragazzo che sfugge a qualunque immagine di personaggio a cui si cerchi di inchiodarlo, tanto quanto sfugge a sé stesso, a quella stolida volontà che anima in parte ognuno di noi, portandoci a dire: “Ecco, questo sono io!”.
Come hai fatto a emergere dall’anonimato assoluto del web?
Non so. In realtà, non avevo un piano per arrivare ad accumulare un numero così vasto di follower. Diciamo che ho fatto sempre e solo quello che mi piaceva, cioè trovare una forma adatta ai miei pensieri, al racconto delle esperienze che ho vissuto e sto vivendo e alle riflessioni che ne ho tratto.
In principio, hai semplicemente disegnato queste tue strisce e le hai postate su Facebook? La pagina come si è diffusa, tramite il passaparola?
Esatto, anche se la spinta iniziale l’ho ricevuta da altre pagine molto note e più seguite, come Informazione Libera. È stato un qualcosa di non propriamente cercato. Pensa che non ho mai utilizzato neanche la sponsorizzazione, che oramai è divenuta quasi fondamentale per avere dei seguaci, da quando Facebook, per guadagnare, ha iniziato a vendere la visibilità delle pagine. Era inevitabile, considerato che il lavoro si è spostato su questi canali e dipende dalla popolarità online.
Vedo che hai 158 mila e più like e sei seguito da oltre 160 mila persone – sappi che, ovviamente, per questo, da Pangea ti odiamo profondamente.
(Ride) Adesso, poi, c’è Instagram che è diventata una piattaforma forse ancora più seguita di Facebook. Io, comunque, mi muovo su entrambe, parallelamente.
E Twitter?
Su Twitter non ci sono. Si trovano delle mie vignette, ma non sono postate da me. Non ci sono particolari motivazioni per cui non lo frequento, se non forse che all’inizio ho avuto qualche difficoltà a capire come funzionasse e successivamente non ci ho più provato. Anche se sto pensando di crearmi un profilo anche lì. Ma sai, di social ne nascono tanti. Oggi c’è anche Pinterest che è molto utile per quel che riguarda la circolazione delle immagini.
Vorrei andare oltre, però. Anche parlando di letteratura con i vari autori, ci si perde sempre in sterili discussioni sul marketing, come vada o non vada fatto, o su come sia questo e quell’altro editore. Vorrei, invece, per arrivare al nocciolo della questione, parlare di arte, che poi è ciò che conta realmente. Senti, come nascono queste strisce? E, soprattutto, come ti sono venute in mente in principio?
Avevo una visione delle cose che sentivo di dover esprimere in qualche modo. In precedenza provai con la musica, poi studiando cinema. L’avrai capito, sono un eclettico: mi piace l’arte in generale, in qualunque sua forma. Mettici pure che ho sempre disegnato e dipinto. Ma, per dirla tutta, non so se sia stata una cosa propriamente pensata. Quel che è certo è che le mie vignette rappresentano una forma d’arte immediata, che mi permette, in modo conciso, di dire molto, mescolando disegno e parole. Ribadisco, comunque, che è stato tutto abbastanza istintivo e ha costituito un canale per dire qualcosa su quello che mi circonda. Mi sono concentrato principalmente sul conoscere sé stessi, andare a fondo nelle emozioni che si provano e cercare di far venire a galla certe sensazioni.
Tutto ciò si è concretizzato e ha preso forma in questo personaggio, che poi è una raffigurazione di te stesso senza barba, ma con delle basette lunghe. Una tua rappresentazione, nella forma di un personaggio da fumetto, che parla in tua vece. Quindi, in tal senso, si potrebbe dire che la tua arte è autobiografica?
Sì, si potrebbe dire. Anche se, ti confesso, all’inizio io ero lui e lui era me molto più di adesso. Mi sto sforzando di mettere il personaggio in situazioni in cui io per primo non mi sono mai trovato o, perlomeno, esagerare delle circostanze che ho vissuto. Il processo, certo, è più complesso rispetto al rimanere aderenti al proprio sentire e al vissuto personale. Spero così di far nascere anche altri personaggi. Ci sto provando ed è dura, perché bisogna imparare a immedesimarsi.
Non credi che un artista debba raccontare principalmente quello che è il suo mondo? Non dico di fare del mero autobiografismo. Penso, però, per esempio in letteratura, ai racconti di Raymond Carver. Credo che la forza letteraria dei suoi personaggi stia nel fatto che, per quanto frutto di immaginazione, sono figure che lui in pratica potrebbe aver incontrato nel mondo che ha frequentato, la low middle class americana. Insomma, sono potenzialmente reali, pur senza esserlo. Tu ritieni, invece, che l’artista debba immedesimarsi anche in un mondo che non lo riguarda?
Io credo che non sia un male. Certo, bisogna fare delle ricerche, compiere uno sforzo affinché quella realtà così distante divenga anche mia. Personalmente, ho voglia di immergermi anche in altri mondi. Non mi piace rimanere fermo a quello che ho già. Chiaramente, sono consapevole del fatto che tutto viene filtrato attraverso la mia sensibilità. Solo attraverso questa trasfigurazione ciò che non ti appartiene può divenire tuo.
Sempre per rimanere sul piano artistico: da chi sei stato influenzato maggiormente? Chi c’è alla base del tuo sentire, tra gli autori di fumetti, di grafica, o tra i pittori? Chi ha segnato il tuo percorso?
Non c’è qualcuno in particolare, ma ho avuto diverse influenze, dal cinema alla musica, come ti dicevo. Credo ci siano tanti riferimenti, ma nessuno in particolare. Nel mondo del fumetto, mi viene in mente Corto Maltese, ma anche Andrea Pazienza… Però, no, nessuno nello specifico.
Sto guardando, proprio in questo momento, una tua opera, su Facebook. Mi fa venire in mente Dylan Dog, il famoso numero intitolato Il lungo addio.
A casa ho tutti i numeri di Dylan Dog, lo confesso.
Come crei una vignetta? Qual è il processo materiale?
Con la matita, principalmente. Poi, dopo la scannerizzazione, il lavoro diventa digitale. Uso la tavoletta grafica e aggiusto il tratto, inserisco dei colori quando necessari. Le scritte, però, le faccio a mano. Non riesco del tutto a prendere le distanze dalla matita. Photoshop entra in gioco solo successivamente. Le mie tavole, comunque, sono principalmente della dimensione di un A3. Quando le pubblico, lo faccio dando loro una bassa risoluzione, in modo tale che il lavoro non possa essere riprodotto.
Parlavi dei colori ma, prevalentemente, mi pare di notare, tu ami i contrasti e il bianco e nero esasperato. Come mai?
Anche qui non si tratta di una scelta pensata. Mi affido al mio senso estetico. In due parole, mi piace di più così e poi mi sembra che richiami meglio l’attenzione.
Ti definiresti un artista del tutto istintuale, quindi, non un artista in cui prevale il pensiero?
Il pensiero prevale quando ci sono delle scelte da fare. Mi avvalgo di questo nel momento in cui devo scegliere quale idea sviluppare e, successivamente, quando mi trovo a considerare che forma dargli. In sostanza, c’è un pensiero a monte, a cui cerco di dare la forma di un’immagine, ma che realizzo attraverso l’istinto.
Qual è, secondo te, la cifra del tuo lavoro? Io ci vedo molta malinconia, mescolata a una buona dose di ironia.
Sì, ironia mescolata alla malinconia. Stando a quello che mi dicono gli utenti, anche la facilità con cui riesco a creare situazioni in cui loro si immedesimano, stati emotivi con cui si identificano. Credo che principalmente il successo delle vignette stia in questo.
Ti scrivono in molti sulla pagina?
Sono un certo numero. Non infinito, ma considerevole.
Rispondi a tutti?
Cerco… Al limite dopo un po’ di tempo, ma rispondo.
Leggi anche tutti i commenti?
Sono troppi per leggerli e a quelli non rispondo quasi mai.
Hai ricevuto anche delle critiche?
Ultimamente meno. Per la maggior parte, quando capita, non sono comunque costruttive. Semplicemente, qualcuno mi detesta e mi insulta.
C’è, invece, un sostrato letterario, un qualche autore, romanziere o poeta, su cui hai formato il tuo pensiero e che in qualche modo influenza la tua grafica?
Anche qui è difficile scegliere un riferimento in particolare. Sono rimasto colpito dalla lettura dello Zarathustra di Nietzsche, quando facevo l’università. Direi che mi ha suggerito un metodo di riflessione.
La formazione universitaria che hai ricevuto ha influito positivamente o negativamente sulla tua arte?
Positivamente. In qualche modo, ciò che ho incontrato nel mio percorso, al DAMS, mi è servito a fare ciò che ho fatto. Io, in particolare, ho studiato cinema, ma direi che ogni cosa, ogni approfondimento, può essere un buono spunto di riflessione che ti apre in qualche modo ad altri mondi.
Una domanda netta, che richiede una risposta sincera: ti consideri un artista?
Non credo che ci si possa definire autonomamente un artista. Non so se altri lo facciano, però io, per il momento, mi considero al massimo un buon comunicatore. Non mi è neppure chiaro quale sia il confine tra una buona comunicazione e l’arte. Suppongo ci voglia del tempo per riconoscerlo e che ciò dipenda dalla concezione che ognuno di noi ha dell’arte.
Quando finisci una vignetta cosa pensi? Ti compiaci del tuo lavoro? Ti chiedi quanti like riuscirai a prendere, o la cosa non ti importa?
Beh, un po’ mi importa, per una questione strettamente materiale. Ma principalmente cerco di soddisfare me stesso e sono persuaso che i like siano direttamente proporzionali alla mia gratificazione per ciò che ho realizzato. Il primo pensiero, comunque, è cercare di fare qualcosa che mi piaccia.
E, dunque, ti compiaci?
Nel momento in cui sto realizzando qualcosa che mi piace sì, però non dura a lungo. Ciò è inevitabile, direi. È chiaro, comunque, che, in quel passaggio, per andare avanti, devo per forza essere soddisfatto in qualche modo. Poi, riguardando un mio lavoro il giorno dopo, è ben difficile che riesca a vederlo come un capolavoro.
Sei convinto di aver dato un contributo fondamentale con le tue opere? Qualcosa che può aver fatto la differenza? Pensi che il mondo sarebbe identico con o senza le tue vignette?
Non so quanto possa cambiare il mondo, grazie alle mie vignette. Credo non muti di una virgola. Però, ritengo sia sempre positivo il fatto che ci sia una sorta di avanzamento… Nel momento in cui, non solo io, ma tanti, facciamo un po’ di comunicazione, arte, cultura, questo serve sicuramente. Cionondimeno non sono convinto ancora di aver dato un contributo fondamentale, ma la speranza è quella di riuscirci in futuro. Altrimenti, meglio non fare niente.
Qual è il tuo sogno come Coma Empirico?
Non ho particolari aspirazioni di successo. Non mi interesserebbe essere un vip, o come si suol dire un influencer. Non vorrei essere la Chiara Ferragni della grafica. Anzi, sono poco social. Su Facebook, in particolare, non scrivo quasi niente. E poi mi piacerebbe che la gente si affezionasse, più che a un personaggio, a ciò che faccio.
Come mai questo nome, Coma Empirico?
Suonava bene, quando lo scelsi. Poi, volendo, a posteriori, una motivazione migliore si può sempre trovare.
Matteo Fais