Mi affascina il rapporto tra scrittori e politica, tra poeta e ‘azione’. Cosa accade quando la scrittura trama gesti di governo, quando il verbo si fa – o disfa – in atto? E che ruolo ha – di servo, di complice, di ribelle – lo scrittore, l’artista, in Parlamento? Un po’ di tempo fa, in un pamphlet alato e divulgativo, “Grandi scrittori pessimi politici. Da Manzoni a D’Annunzio la triste carriera degli artisti nel Palazzo”, che andò in allegato a “il Giornale” per un tot. Mi pare tema di cangiante attualità, come si dice, per studiare la natura umana dell’artista, da Platone in poi messo ai margini della politica. Perciò, ecco alcuni esempi. (d.b.)
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Quando D’Annunzio fece il «salto della quaglia»
Il più divertente di tutti, come sempre, fu Gabriele d’Annunzio. Eletto deputato nel 1897, ingabbiato nella XX Legislatura del Regno d’Italia, si presentò come «il candidato della Bellezza», dacché «la fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre nei secoli dei secoli plasticatrice». Capì prima di tutti, il Vate, che all’epoca aveva già scritto Il piacere e Le vergini delle rocce, la natura, per così dire, «teatrale» dell’attività politica. Del Regno d’Italia gliene fregava poco, avendo infiniti regni dentro di sé. Perciò, alle attività di governo partecipò quasi per nulla, si rompeva le palle. Eletto nel ring dell’estrema destra, il poeta fece scalpore perché il 24 marzo del 1900 passò dall’altra parte, con il consueto piglio estremista, rilasciando eroica dichiarazione: «Porto le mie congratulazioni all’Estrema Sinistra per il fervore e la tenacia con cui difende la sua idea. Dopo lo spettacolo di oggi, io so che da una parte vi sono uomini morti che urlano e dall’altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d’intelletto, vado verso la vita». Del «salto della siepe» – o «della quaglia» – parlarono i giornali di tutta Italia. D’Annunzio non desiderava altro. Il gesto di d’Annunzio, più estetico che politico, dimostra che l’individualità dell’artista non si concilia con la mera azione di governo.
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In un Regno di sbadigli
Di solito, lo scrittore entra a Montecitorio come in un’urna. L’attività politica è un premio per i meriti acquisiti in campo letterario. Per questo, è tra sbuffi e tuoni retorici che gli scrittori esercitano il ruolo. Il 29 febbraio del 1860, prima ancora che si facesse l’Italia, Alessandro Manzoni fu nominato Senatore da Vittorio Emanuele II. Sostanzialmente, si limitò a guardare, votando, nel 1864, il trasferimento provvisorio della capitale d’Italia da Torino a Firenze. Nel 1848, eletto deputato del Regno di Sardegna nel collegio di Arona, ammainò le voglie politiche. Prese carta e penna e firmandosi «umilissimo devotissimo servitore», si licenziò dai doveri, «mi trovo nella dolorosa necessità di protestarmi inabile a sostenere il difficile incarico», dacché «mi manca più d’una qualità essenziale a un deputato». La pelosa umiltà salvò il grande Alessandro, per un decennio, dai penosi compiti istituzionali. D’altra tempra il Carducci. Fiero sostenitore della coincidenza d’amorosi intenti tra poesia e politica – «il mio manifesto politico era ne’ miei scritti, qualunque sieno. (…) Ahi! ma la poesia a punto è la macchia originale, che, secondo i nostri avversari, mi esclude dalla casta politica», guaì agli elettori del suo collegio, a Lugo di Romagna – Carducci fu consigliere comunale a Bologna nel 1869 e nel 1889; nel 1876 è eletto deputato in Parlamento, ma per un cavillo della legge elettorale dell’epoca è sorteggiato tra gli esclusi. Nel 1890 accade la nomina a Senatore per «meriti eminenti». Non si distingue, piuttosto, per eminenza politica l’opera del Carducci in Senato. Tutore dei borghesi – «badate, o signori, la nazione italiana l’hanno fatta la nobiltà e la borghesia, quella che io direi cittadinanza. Le plebi, intendo specialmente le masse rurali, non ebbero parte nel nobile fatto» – il poeta lavorò per difendere la categoria degli insegnanti di lingue classiche (seduta del 17 dicembre 1892) e propose una festività nazionale, il 20 settembre, in memoria degli insorti cretesi nel 1897, che si erano ribellati all’Impero Ottomano fondando, nel 1898, lo Stato autonomo di Creta. Pressoché nulla l’attività politica di Giovanni Verga. Nominato Senatore il 3 ottobre del 1920 in quanto «glorioso superstite di quella letteratura d’arte che significò la tendenza e il carattere della nuova Italia» e scrittore di «opere che col passare degli anni si dimostrano sempre più salde e resistenti», fece appena in tempo a sentire l’odore del seggio. Il 27 gennaio del 1922 il geniale romanziere partì per l’altro mondo. Nell’aula del Senato il compito di marmorizzarne il ricordo spettò al Presidente Tommaso Tittoni: «Giovanni Verga aveva la modestia dei grandi: schivo di omaggi e di qualsiasi forma di ammirazione, lavorava nel silenzio e nel raccoglimento, evitando in ogni modo di richiamare l’attenzione sulla propria opera e sulla propria vita».
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Il Peter Pan in Ambasciata
Pallido, scavato, capelli all’aria, Carlo Dossi nelle fotografie pare un Peter Pan. Conte della schiatta dei Pisani Dossi, Lancillotto della «scapigliatura», autore di alcune tra le opere più eccentriche della nostra letteratura (Vita di Alberto Pisani e La desinenza in A, ad esempio), l’audace Carlo fu protagonista di una carriera importante nell’amministrazione pubblica, pari quasi a quella di Saint-John Perse. Legato a Francesco Crispi, di cui fu segretario particolare, entrò al Ministero degli Esteri nel 1870: divenne plenipotenziario in Eritrea, Console generale a Bogotà, Ambasciatore ad Atene. Nelle sue Note azzurre, uno dei libri segreti e sgargianti della letteratura italiana, l’ambasciatore Dossi auspica una «storia del risorgimento italiano ne’ suoi aspetti umoristici», fa la diagnosi di una Italia immobile «come un fachiro che rimane per anni instupidito nella contemplazione del proprio umbilico» e sfotte il rugginoso marchingegno della macchina statale («Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile»). Se l’arte della politica fosse in mano ad artisti irregolari di questo calibro, vivremmo nel migliore dei paesi possibili.
*In copertina: Tranquillo Cremona, “Ritratto di Nicola Massa”, 1867 ca