Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera; qui la risposta di Nathan. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. Le prime puntate del carteggio le leggete: qui,qui, qui, qui, qui e qui.
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Vardenis, 28 aprile 1950
…e chi ha il destino di essere amato, chi può armare un giuramento di bronzo su questo destino, chi, chi? Si è amati, sempre, con la forza dell’assoluzione e della dissoluzione, come se le mani fossero un catino pieno di acido, in cui, sfacciatamente, scarnificare se stessi, diventare liquame, ferro fuso, che l’altro, poi, travaserà in un calco… cosa farai di me?, una maschera, una corona, una spada? Dell’altro non si ama l’individualità – una cosa così parziale rispetto alla pazienza degli alberi, così grottesca rispetto alla costanza dell’airone nel filare, ogni giorno, l’alba – ma il punto di rovina, la ragione con cui ci offende e ci mutila, la maniglia che ci porta nella stanza del mostro. Dell’altro amiamo ciò che di noi non vogliamo vedere – la miseria che non possiamo ammettere. Dell’altro amiamo l’eredità – la preclusione alla morte – il preludio al Regno…
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Ruba gli occhiali di Max Brod, Vera, forse capiremo il senso delle profezie di Kafka – un uomo ispirato deve farsi rappresentare nel mondo da un uomo meschino, l’innocenza è il carico geloso della malizia…
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…non capisci, allora, ancora, la necessità di essere fratelli? “Chi domanda, chiede sempre tutto, finché quel tutto non è qualcosa da mettere in tavola, comune come una forchetta, atteso come il pasto”, ti ho detto, in quell’unica notte che fu dono, anzi, nodo, il punto di sutura del secolo, l’unione degli apolidi, dei senza nulla, dei tramandati tra miagolii e pallottole…
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…chiamati a rigenerare il rifiuto, entrambi abbiamo la fortuna di chi non è amato. Per le donne sono l’alieno ricordo di marmo, indimenticabile perché assente, assolto nella vigna dei verbi…
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…cosa si ama di sé: le geodetica della propria generazione o lo stato d’orfano, la necessità che qualcuno fondi per noi una famiglia, una casa ad angolo sul gomito degli angeli?
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…per amare bisogna perdere… bisogna essere perduti finché il rintocco del giorno non avrà neppure il valore di un balbettio… il re Davide sigilla la promessa di Dio pronunciata da Nathan – “ti darò riposo dai nemici – ti farò una casa – ti renderò stabile nel sempre” – con l’adulterio, con il tradimento, ma Dio non lo mutila, lo delinea nel perdono… bisogna tradire ogni cosa, bisogna tradire se stessi per capire cosa si ama… sposati Vera, sorella, sposati e io pretenderò la tua vita non appena tu l’avrai promessa a un altro, e capirai che un anello può essere una grotta, un precipizio, e mi vorrai, ancora, scarnificando le cronologie, dando una scansione inedita, impellente ai calendari – gli umani spesso hanno occhi da toro, ed è meno complice un complotto di cani della loro codardia.
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…non sai quante generazioni ho snocciolato, come un rosario, quanti padri mi sono attribuito, quante gesta, una gestazione della paura, un mattatoio di parenti…
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La fratellanza è necessaria per abolire la parentela dal resto degli uomini – ti soffoco? L’amore è una cella o un volo?
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Vardenis, 29 aprile 1950
Armenia è un nome che mi sta tra le dita – Vardenis ha splendore di ciglia – le montagne brillano, bianche, come un’offerta. Forse è qui che voglio vivere – con i monaci che abitano sulle sponde del lago Sevan abbiamo comparato la mia carta delle stelle, svedese, dipinta nel XVIII secolo, con quelle in loro possesso, disegnate tre secoli prima: diverse costellazioni non corrispondono, ad alcune i padri danno il nome degli eroi biblici, Sansone, Abramo, Giuseppe, Maria… tra le stelle tutto ha la crudeltà del candore… Un monaco mi racconta che secondo una leggenda armena l’Arcangelo Raffaele ha ucciso il drago che dominava il Sevan, poi lo ha sbriciolato, lanciando le sue carni, lucide, lucenti, pulsanti, nel corpo del cosmo, “così gli uomini ricorderanno che il male è scintillante, ma si può trafiggere”, conclude il monaco, leggendo qualcosa che è conficcato nella sua memoria da ere, come edera che snatura la corteccia, rende niente la statura del bosco.
Amo la banale obbedienza delle stelle, di cui prevendo la migrazione, così diversa dalla volubilità dell’uomo – stiamo così poco in vita da sconfiggerci, ora per ora. Vorrei amarti come fossi una pietra – come una cosa che escludi, esclusiva.
Ti accerchio – tra poco arriverò da te, sorseggio Armenia, Israele non è promessa a me, è un patto conficcato di elusioni – a volte le case mi sembrano lettere, i prati un poema in terzine: non ho ammissione neppure per il mio nome – per ciò che puoi saperne anche il mio nome è un falso – Anna Achmatova mi ha risposto, ho pensato di leccare le ginocchia della divinità, in venerazione nella città di Pietro – nel biglietto spicca una poesia, ne ricordo alcuni versi, mi sembrano scritti per te, come se fossi un filo elettrico tra Vera e il resto dell’umanità:
Perché è gioia avere gli occhi del ghepardo
sulla dorsale e riconoscere che l’asse del collo
rimuove le stelle dando idioma al futuro
sai che salire è una disciplina – l’alba ha una
natura informe se non sei tu a numerarla
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I monasteri, sul lago, sembrano guanti di pietra abbandonati lì da millenni, quando il mondo era popolato dai titani e dagli angeli, e non era più giusto, era soltanto più bello. Un monaco che mi sembra un bambino, come se la veste sapesse immortalare l’infanzia infinita, mi porta a un portale – sotto la Croce, a sorreggerla, c’è un leopardo. Il monaco mi parla del leopardo che dai tempi dell’impero persiano scende al Sevan, come se fosse il suo abbeveratoio. Dicono che il lago conservi l’immagine del leopardo, e chi vi s’immerge vede leopardi sotto il filo gelido delle acque. Ogni anno il leopardo uccide un monaco, un novizio – nel leopardo i monaci vedono la Gloria di Dio, una promessa che si avvera nel morso. “Finché qualcuno non passeggerà sulla schiena del leopardo, come in una stanza, usando il suo cranio come leggio e gli occhi come testo sacro”, dice il monaco, ripetendo un poema inazzurrato dai secoli. Negli occhi del leopardo, dice, è inciso il Genesi – guardare negli occhi del leopardo vuol dire sparire dentro la lingua di Dio. Ricordo i tuoi occhi, netti come l’aleph, decimati come la tav, Vera.
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Vedi… Vera… è bastata la tua noia, una promessa di nozze, la tua magrezza d’ago e d’argento a piantarmi nell’epoca, i tuoi vaneggiamenti per ridurre le mie cicliche perversioni a un cilicio, per sfibrare i verbi in un favore ai morti, che come lupi della sera traggono ossessioni dal bacile del mio costato…
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Prometti – una promessa d’acqua e di delazione. Cuci per me una coperta – cuci sulla coperta una mappa stellare – assicura alle costellazioni i nostri nomi – così saremo astrali – dormiremo sotto la coperta che hai cucito per me – e non esisterà altro cielo oltre – faremo crollare le stelle sulla nostra lingua,
Nathan