09 Novembre 2022

“Ero un invasato”: la vita a capofitto di Scipione

“Una vita a capofitto”. Così Enrico Falqui riassume l’esistenza di Gino Bonichi, per l’arte Scipione. E poi: “Un’arte che fece presto a serrarsi nella sua pungente perfezione”.

Arte – dimentica di dire – perfezionata dalla morte. Pungente per crocefissione, per assenza di omissione.

Arte che si rivela attraverso il male, il letale.

Le Carte segrete di Scipione, nato a Macerata nel 1904, grande pittore della cosiddetta “Scuola romana”, ma di fatto autodidatta, un isolato, un lebbroso di Cristo, “ultimo figlio di Roma barocca e romantica” (Giuseppe Marchiori), vengono raccolte da Falqui nel 1942, e poi, in definitiva, nel 1943, per Vallecchi.

Non credo un caso che negli stessi anni in cui rimesta, sceglie e organizza le Carte segrete di Scipione – cioè non pensate per il pubblico, da qui il teatrante “naturale disagio” del curatore, le scosse agiografiche del testo, memorabile – Falqui vada a scavare nei meandri della vita di Dino Campana. Scrive di lui, scrive al prefetto di Marradi per avere documenti e riscontri, edita, per Vallecchi, nel 1941, un’edizione dei Canti Orfici, e nel ’42 una raccolta di Inediti. Il sommo Dino era morto nel 1932, l’opera lasciata alle iene, al gorgoglio dell’oblio.

Giuseppe Ungaretti secondo Scipione

Una stessa vicenda accomuna Scipione a Campana: entrambi maculati dallo stigma della diversità, da una alterità che spaventa. Poeti con gli aculei, poeti che ti stillano il sangue, per eccesso di raffinata barbarie.

Che il male sia una rivelazione lo si può dire dopo averlo maledetto. Al male si soccombe, o ci si conforma – conferma tramite conversione.

I padri di Scipione, per così dire, sono lì: il libro dell’Apocalisse, William Blake, Lautréamont, l’Ungaretti meridiano. Dunque: la visione improvvisa, la trafittura, i ragni in gola, la sregolatezza nottambula. Amava, in pittura, le torsioni del Greco: “Per noi il Greco è un visionario”, scrive,

“Con la sua pittura sconvolge le menti, le chiese si popolano di incubi religiosi… Le sue figure sono fantasmi che si concretano con una realtà tattile terribile”.

Il Cardinal decano, esposto alla Biennale di Venezia del 1930, sorprende gli astanti, li spaventa: la compostezza del reggente è inquieta, il corpo pare liquefarsi, premonizione dell’Innocenzo X secondo Francis Bacon. Non c’è grido, qui, però, perché sono i cuori a urlare – il rigore in favore del grido compone una verità impagliata, a dieci braccia.   

Pare che da ragazzo Scipione primeggiasse in pista, per doti atletiche. La vita a capofitto si addice a chi ha statura d’angelo. Dall’eccesso sportivo scaturisce una polmonite, mutata in tubercolosi: da lì, da ragazzo, l’ascesi nel male. L’apollineo in sanatorio.

Tuttavia, insiste, Scipione: nell’agonismo e nell’agonia.

Scipione si fa grande a Roma, è vero, ma da Roma scappa. Trova riparo, per un po’, presso la Certosa di Trisulti: ama disegnare i monaci. Ai padri, nel 1929, regala un quadro, che “rappresenta l’amena vallata nella quale è sito il convento stesso” (“L’Italia Letteraria”). I frati non gradiscono e vendono il quadro “per poche migliaia di lire”, a un avvocato romano.

A quegli anni risalgono le dieci poesie private di Scipione. Sono bellissime perché provengono da una giuncaia cristallina, dall’ispirazione irriflessa, senza specchi, cruda. Nel 1938 Scheiwiller raccoglie quelle poesie in un libretto a tiratura limitata, Le civette gridano. Il titolo è estratto da un verso di questa poesia:

Alla calata del sole una pecora
ha fatto un agnello.
È uscito tutto di lana, col sangue
il cuore la voce.
Gli uomini sbucano fuori
e se ne vanno via,
i cani silenziosi se ne vanno via,
gli alberi aspettano il buio
per ignorarsi,
le erbe odorose si mettono
in cammino.
Le civette gridano, tutto si muove
e l’angoscia riempie l’aria
di inquietudine.

Le poesie sono state riprese nel 2017 in una piccola edizione d’arte a cura di Raffaelli, come Le stelle cadono accese.

Le “dieci splendide, anzi esemplari poesie” di Scipione piacevano ad Amelia Rosselli, che nell’edizione Einaudi di Carte segrete (1982, numero 177 della ‘Collezione di poesia’) dice di una “poesia calma, candida, sensoria… del tutto individuale e difficilmente classificabile in questi moderni tempi”. Esattezza crudele: Carte segrete è libro tanto importante quanto irreperibile. Terrorizzano le vite a capofitto, occorre essere falchi per ammetterle, per amarle.

Perché il male sia una rivelazione deve agire con calma, custodire il corpo che, per così dire, diventa eunuco, splende. Il magnetico paradigma della spesa di sé che si fa celebrazione del celibato, catartica castità.

Dal sanatorio di Arco, nel 1932, Scipione comincia a scrivere un diario abbagliante, che ha il lucore della chiaroveggenza.

“Ognuno ha un suo ritmo come tutte le creature del mondo. Bisogna essere quel ritmo, quella creatura e non diventare un’altra cosa”.

“Bisogna entrare in un voto, indossare un voto… Con il voto non dipendo più da me ma da una cosa estranea e terribile a cui non posso venir meno perché vera padrona del mio corpo dove l’avrò fatto entrare. Accettare un voto è fare entrare Dio nel nostro corpo. Chi oserà scendere in battaglia con lui?”.

Dapprima un voto si indossa, come un saio, infine si abita, “vivo nel voto”. “Un voto è una cosa grande. Ma io avevo bisogno di quello, come di mangiare. E che forse mangiare quando ho fame è cosa solenne?”. Voto/ostia. Del voto si fa pasto: a mani nude, a piena bocca. Siamo il trogolo a cui si accinge Dio.

Il voto non è un impegno, ma un’offerta. Voto volitivo; volizione; voluttà. Involarsi nel voto. Il voto ci avvolge fino alla morte.

“Voglio gettarmi sulla terra senza contaminarla”, scrive Scipione nel diario. E nella poesia Solstizio: “Mise le mani per terra ed era simile/ ad una bestia”. 

Dalla carne cariata, la parola purificata.

L’ultima impresa di Scipione. Nel 1931, insieme a Marino Mazzacurati, vara la rivista “Fronte”. Dura l’arco di due numeri, usciti nel giugno e nell’ottobre di quell’anno. Vi collaborano, tra gli altri, Ungaretti e Sergio Solmi, Alberto Moravia – con Due considerazioni sopra il romanzo inglese – e Alberto Savinio, Guido Piovene e Giuseppe Raimondi. Tra l’altro, scrive Solmi:

“Una certa ‘idiozia’ è pur necessaria al pensiero: una lentezza maldestra, la presenza d’ostacoli che lo spirito superficiale risolve e supera in un batter d’occhio. La nostra riflessione più vera nasce a quel punto in cui si scopre la mostruosità, l’impensabilità di ‘ciò che è evidente’”.

Come non dargli ragione: l’evidenza è sempre mostruosa. Ma è quel mostro che dobbiamo auscultare – per carpirne il labirinto. Regicidio? Raggiante reggenza?

Nell’anno letale, Scipione insiste sugli stessi temi, si fa profeta, si riveste del lenzuolo del sanatorio, l’impazienza del mistico.

Scrittura come un sudario.

 “È su di me l’ira di Dio, io ho corrotto il mio corpo con le mie mani, l’ho disfatto. Come potrò reintegrarlo?” (a Mazzacurati e a Falqui, in diverse lettere, nel gennaio del 1933). “Sono un albero duro da abbattere, benché sia vuoto come certi ulivi”, scrive a Falqui, il 18 ottobre del 1933; quattro mesi prima A un Reverendo: “Dentro, l’albero è corroso e presto s’abbatterà”. 

Le lettere A un Reverendo – reale?, immaginato? – seguono il criterio della crisi, l’avvenenza della colpa, l’appetibile del perdono.

“Il sangue mi cominciò a turbinare e io come un disgraziato cedo ad ogni cosa, al pensiero, all’azione, a tutto… Non ho rispettato alcuna cosa ed ero dominato dalla lussuria infame… La mia fantasia diventò del tutto corrotta e servì a farmi precipitare in una abiettitudine morale tremenda. Ero un invasato, sfatto dal male e male stesso”.

Abitudinario nell’abiezione, Scipione scorge i segni sacri – il filamentoso Dio degli abissi, le braccia pari al requiem.

“Mi sento una cosa che sarebbe meglio scomparisse, inutile, dannosa. Ho schifo di me stesso”.

Nel segreto, Scipione ha l’andare del pellegrino e del penitente. Carne flagellata, frollata, donata a Cristo: senza più inchiesta, pura richiesta di pietà.

Ogni dono è indecente per dispetto d’altezza. Necessario soltanto è il dono.

Come posso vivere esatto? Dormire in veglia, spoglio e per questo tutto, integro. Come se di ogni cosa bisognasse assaggiare la mandorla, il colmo sotto la scorza.

Poco tempo fa, dopo uno svicolarsi tra boschi: medievali le foglie quanto il forte incapsulato sulla rocca. Si sboccia presso un santuario, che da lontano, con i portici, sembra una fazenda, una fattoria, stallatico – creditori credenti ridotti a porci –, un luogo di ristoro. Da fuori, il bisbiglio della celebrazione. Entro. C’è il vescovo. I paramenti sacri, la paratia del portamento, il rigore, voce che inibisce, le mani bianchi: tutto ciò che, secondo ragione, avrebbe allontanato dal rito, mi avvinceva, mi legava ad esso. Imbambolato perfino dall’abito, dalla mitra, dal pastorale.

Esistiamo per abbandono, a volte bisogna darsi in obbedienza, farsi masticare. È appropriato.

Nell’ultima lettera al Reverendo, il 17 giugno del 1933:

“Voglio dirLe che Scipione è cambiato. E pure stando fermo in Sanatorio ha camminato molto sulla via della Verità… Di aspetto esterno sono sempre florido e anche mi sento sempre molto forte e spesso… purtroppo invece i polmoni se ne sono quasi andati. È un mistero. Per me non c’è più quasi aria da respirare”.

Spira, il puro ispirato – un altro respira in lui. Scipione muore il 9 novembre del 1933, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. “L’amore per voi è cresciuto insieme al conoscimento di me medesimo e dello spirito di Dio”, scrive al fratello Goffredo, sei giorni prima di morire. Risolto – dunque, vivo, per sempre.  

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