
Chiudiamo le scuole, inutili allevamenti di schiavi
Politica culturale
Luca Caddeo
Leonardo Sciascia – come Giuseppe Tomasi di Lampedusa – amava Stendhal, la sua lasciva leggerezza, la ferocia azzurra. “Si ama tutto di Stendhal, se lo si ama: ma dapprima si è portati a dare una preferenza assoluta al Rouge et Noir; poi si passa alla Chartreuse; si arriva infine all’Henri Brulard. Può darsi c’entri l’età”. Eppure, il riferimento primo della sua scrittura ‘cartesiana’, di chirurgica esattezza, a tratti asettica, ascetica, era l’Alessandro Manzoni della Colonna infame, che dei Promessi sposi – così scrive in Cruciverba – “è la deviazione imprevista, l’ingorgo, il punto malsicuro del fondo e delle rive”. Ci credo: Manzoni insegna, in quel pamphlet mirabile, che il male, il male atroce, accade sempre ‘a fin di bene’, che l’uomo è crudele nelle inezie, che la giustizia giustifica la corruzione, che un delatore è celato dietro ogni balcone. Manzoni prefigura il sistema che autoassolve i regimi liberticidi (altro che 1984): per questo Sciascia lo brandiva, di continuo, a stigmatizzare il proprio tempo.
Sciascia non riuscì a scrivere libri all’altezza di Stendhal o di Manzoni; a quelli più noti – Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto –, che subiscono le ammaccature della notorietà, appunto, ma anche di una certa monotonia stilistica, e ad altri, che non capisco – Candido, ad esempio –, preferisco libri remoti, sottili, quasi che la loro ispirazione sia sparire. Continua a piacermi, ad esempio, La scomparsa di Majorana: la scrittura, sobria ma tentacolare, assale la tesi secondo cui il grande fisico catanese avrebbe preferito “morire” nella certosa di Serra San Bruno piuttosto che essere complice nella creazione della bomba atomica. “Dimenticare, dimenticarsi ed essere dimenticato”: così scrive Sciascia, dando alla scelta di Majorana l’impeto di una missione mistica più che un esito di codardia (codardi, semmai, furono gli altri, impaniati in un sistema di coercizioni politico-scientifiche). Nel libro – che come sempre distilla una narrazione noir dal genere saggistico – si parla anche, ancora, di Stendhal, del “Manhattan Project” e di Alberto Savinio, “il più grande scrittore italiano tra le due guerre… ma chi conosce i suoi libri, in Italia, nonostante la volenterosa ristampa che se ne è fatta?”. Tra la bomba atomica e la clausura, tra l’esplosione letale e l’insediamento in Dio, si insinua la congettura di un legame.
A volte, pare un discepolo di Borges: ma alla cabbala preferisce la politica, Sciascia, alla germinazione metafisica un salutare scetticismo, bronzeo. Sciascia sembra sempre sapere più di ciò che scrive: detta un delizioso cammeo sulla Laura amata dal Petrarca (e fatata progenitrice del Marchese de Sade) e sfotte Eugenio Scalfari, discetta di “Charlie Hebdo” come di Kaspar Hauser, si occupa della politica italiana come della cenere di una sigaretta. Tutto, da Sciascia, è osservato con astronomica arguzia. Un paio di contadini, d’altronde, ricorda, gli hanno dato l’esatto consiglio per il romanzo perfetto: “Un libro sta tutto in come finisce. La fine deve essere spaventosa. E ci deve essere un re”. Sciascia li ascolta: sa che ideare un libro non è diverso dalla sapienza nel coltivare i limoni e accudire gli ulivi. Forse lo scrittore è il re che spaventosamente muore tra i gorghi del libro che sta scrivendo.
Ne L’affaire Moro, il primo libro in cui, con indecente potenza e perizia, uno scrittore – e parlamentare – investiga il lato oscuro della politica italiana, Sciascia offre una buona definizione del nostro paese:
È come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse dalla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più di un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò – al momento di farla finire – “la ricreazione”: scuole occupate e devastate, violenza dei giovani tra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne… “Lo Stato italiano forte coi deboli e debole coi forti”, aveva detto Nenni? Chi sono i deboli, oggi? Moro, la moglie e i figli di Moro, coloro che pensano lo Stato avrebbe dovuto e dovrebbe essere forte coi forti.
Qualche anno fa mi sono occupato della ‘carriera’ degli scrittori in Parlamento. Per molti ‘impegnati’ – Edoardo Sanguineti, Alberto Moravia, Alberto Arbasino, Claudio Magris – fu impegno poco impegnativo, quello, per lo più una scampagnata, un assegno assicurato, qualche chilo di pubblicità. Riguardo a Leonardo Sciascia – insieme a Paolo Volponi il solo scrittore autentico la cui pretesa politica conti ancora qualcosa, pur contando nulla allora – scrivevo questo.
Quando scrive L’affaire Moro Leonardo Sciascia comincia con le lucciole. «Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni». Il riferimento evidente è all’articolo di Pier Paolo Pasolini, «fraterno e lontano», che nel 1975 gemella il fenomeno della «scomparsa delle lucciole» alla crisi della politica italiana. Per analizzare le lettere scritte da Aldo Moro durante il sequestro da parte dei brigatisti, Sciascia cita Pasolini, Jorge Luis Borges, Pirandello, se stesso. Non c’è distanza – né alternativa – tra l’atto letterario e quello politico, tra documento e finzione. «Se dieci anni prima mi avessero detto che Moro avrebbe cambiato la mia vita, avrei riso: invece è stato così».
L’affaire Moro è pubblicato nel 1978, qualche mese dopo la morte dell’allora Presidente della Democrazia Cristiana. Su “la Repubblica”, poco prima dell’uscita del libro, Eugenio Scalfari attacca Sciascia. Il quale risponde sottolineando due cose. Primo: il punto non è «se bisogna o no amare lo Stato, questo Stato», ma se «amare o non amare la verità». Secondo: «il vero mistero non è quello dell’arte: è quello del come e del perché Moro è morto». Lo scrittore siciliano, programmaticamente, ribadisce che la letteratura è un gesto politico. L’anno dopo, Sciascia si candida nelle liste del Partito Radicale. «Dopo tutto quello che ho scritto e detto, dopo le polemiche di questi anni, Pannella mi ha convinto che non potevo rinunciare a dare il mio segnale in queste elezioni». Eletto al Parlamento europeo e alla Camera, opta per Montecitorio. Quattro anni prima, alle comunali di Palermo, Sciascia si era presentato come indipendente nelle liste del Pci. Un successo. Secondo solo ad Achille Occhetto – e davanti a Renato Guttuso – lo scrittore fa il consigliere fino al 1977, finché si dimette. «Occhetto sa che sono contro il compromesso storico», dice. E ribadisce, «mi chiedo quando il PCI comincerà a dire di no…». A dire di no ai compagni è lui: i rapporti tumultuosi con il partito verranno raccontati, in forma di farsa, in Candido.
Il Parlamento è un luogo connaturato a Sciascia, che lavora, per la durata del mandato – fino al 1983 – tantissimo: 52 progetti di legge presentati, di cui uno come primo firmatario – sulle «norme a tutela della pubblica incolumità nelle attività di ricerca, estrazione e utilizzazione delle acque sotterranee» a seguito del «caso del bambino ingoiato dal pozzo a Vermicino» –, una presenza lucida e polemica nella «Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia». Nel giugno del 1982 lo scrittore consegna in Parlamento la Relazione di minoranza sui lavori della Commissione. Quel documento è il j’accuse di Sciascia contro «la latente e a volte esplicita conflittualità tra i membri della Commissione», contro la linea «detta ‘della fermezza’, sostenuta da comunisti, democristiani e altri, di assoluta e inscalfibile intransigenza» che «si configurava come un vero e proprio reato», contro l’ «incommensurabile perdita di tempo» provocata dalla lotta partitica, contro la «vacuità delle operazioni di polizia» e contro «l’endemica incomunicabilità, nel nostro paese, delle istituzioni tra loro», denunciando «l’incertezza, la confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote operazioni che si sono verificate durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro». Il testo – a riprova che in Sciascia il letterato coincide con l’uomo politico, che la vita è letteratura – fu pubblicato in appendice all’edizione del 1983 de L’affaire Moro.
Tra le proposte di legge che portano la firma di Sciascia, quella sulla «dichiarazione patrimoniale dei parlamentari» e sulla «Costituzione dell’Istituto di ricerche per la pace e per il disarmo», quella sull’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, «retaggio di un’imposizione che trova la sanzione negli anni del fascismo, in cui la religione viene usata come strumento del regime», quella che pretende una «Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2» e un’altra «sulle spese dei gruppi e dei partiti politici». La proposta di legge «per l’abrogazione della pena dell’ergastolo» è speculare al convincimento profondo di Sciascia, espresso nell’intervento in aula del 17 dicembre 1979. Citando I promessi sposi, lo scrittore, con inafferrabile furia, ribadisce che «dare alla polizia più poteri e ai colpevoli pene più dure non farà diminuire di un millesimo i fenomeni delinquenziali che ci troviamo ad affrontare». Infatti, «non di leggi speciali, di poteri più vasti e arbitrari la polizia ha bisogno; ma di buona istruzione, di un addestramento accurato, di una direzione intelligente, soprattutto». Sempre in aula, il 26 febbraio 1980, criticando con sottigliezza l’opera della Commissione antimafia e quella del governo, colpevole di fare «della filologia», Sciascia dà la sua definizione di mafia: «associazione a delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si poneva come intermediazione parassitaria imposta con mezzi di violenza fra la proprietà e il lavoro, tra la produzione ed il consumo, tra il cittadino e lo Stato».
Sarebbe stato interessante vedere Sciascia su un trono ministeriale, con poteri veri. Impensabile. Concluso il mandato elettorale, lo scrittore che amava Stendhal e riteneva la Storia della colonna infame del Manzoni la biografia di questo Paese infame, informe, bellissimo, tornò a fare politica scrivendo romanzi.