15 Luglio 2020

“Credetti di aver sbagliato persona. Dopo aver letto i suoi reportage, me l’ero immaginato forte come un Indiana Jones…”. Ricordo di Ryszard Kapuściński

Le scarpe e la penna. Bastano queste due cose qui per vivere, conoscere, spostarsi. Le prime per una fenomenologia del viaggio, la seconda, corredata di bloc-notes, per l’imprescindibile fase successiva al viaggio: quella del racconto.

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È un gioco di matrioske, Trans Europa Express di Paolo Rumiz, uscito per la Feltrinelli qualche anno fa. Seimila chilometri a zigzag da Rovaniemi (Finlandia) a Odessa (Ucraina). Un percorso che sembra tagliare, strappare l’Europa occidentale da quella orientale. Una strada che tra acque e foreste e sentori di abbandono si snoda tra gloriosi fantasmi industriali, villaggi vivi e villaggi morti. Dogane, recinzioni metalliche, barriere con tanto di torrette di guardia, attese interminabili e severissimi controlli ma anche e soprattutto la generosità degli uomini e delle donne che incontra sul suo cammino. Un pescatore di granchi giganti, prosperose venditrici di mirtilli, un prete che ha combattuto nelle forze speciali in Cecenia, l’accoglienza di chi è senza voce. E il ricordo di Ryszard Kapuściński (1932-2007).

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Se per i sommelier della musica Trans Europa Express riporta al sesto album in studio del gruppo musicale teutonico Kraftwerk (1977), per chi ama i libri dei viaggi lenti invece è il racconto verticale dell’Europa, alla ricerca delle frontiere.

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“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile”.

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Paolo Rumiz parla spesso di Ryszard Kapuściński in Trans Europa Express: un Virgilio illuminato che gli indica la strada negli inferi della società. Nel 2007, quando morì, il giornalista e scrittore triestino gli fece un ritratto di parole bello come un’opera di Salvador Dalí e uscito per Repubblica.

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“Al primo incontro con lui, nel gennaio del ’99 all’aeroporto di Zurigo, credetti di aver sbagliato persona. Dopo aver letto i suoi reportage, me l’ero immaginato forte come un Indiana Jones. E così, quando vidi sbucare dalla tormenta un omino agitato, dal passo sbilenco e lo sguardo indifeso, per non salutare la persona sbagliata sbirciai la foto sul retro di copertina del libro che avevo con me. Non poteva essere quello, pensai, l’eroe che aveva sfidato l’inverno artico e la malaria dei Tropici, l’uomo che aveva assistito a ventisette rivoluzioni, traversato Africa e Sudamerica in guerra, vissuto il grande gelo della Russia sovietica e il rovente risveglio dell’Islam. Invece era lui. Ryszard Kapuściński, l’autore di Ebano, capolavoro sulla forza e fragilità del continente africano, scritto in quarant’anni di viaggi, o di Imperium, straordinaria testimonianza vissuta dal di dentro del crollo dell’Unione Sovietica. Era lui, l’uomo che aveva fotografato come nessuno la caduta dello Shah di Persia e l’avvento al potere dell’ayatollah Khomeini, il giornalista che era stato capace di entrare nei segreti della corte dell’ultimo imperatore d’Etiopia e di raccontare le storie del greco Erodoto, vecchie di due millenni, e di calarle negli eventi del mondo attuale. Kapuściński, uno dei pochi giornalisti al mondo ancora capace di andare nei luoghi non illuminati dai riflettori, lontano, il più possibile lontano dall’informazione-spettacolo. Diavolo d’un uomo, pensai quando mi fu di fronte nella sala del check-in. Dove starà la sua forza? Come avrà fatto, pensai, questo curato di campagna, a tornare con i taccuini pieni di storie dai luoghi più difficili del Pianeta? Sul volo da Zurigo a Milano m’accorsi che ringraziava le hostess per ogni nonnulla. ‘La nostra professione dipende dagli altri’, sorrideva quasi per scusarsi della sua gentilezza. ‘Se non hai rispetto per gli altri, ti si chiudono tutte le porte’. Era euforico, non mostrava di avere diecimila ore di volo alle spalle”.
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Ryszard Kapuściński si considerava un reporter diverso, controcorrente, anomalo. E faceva di queste sue peculiarità la sua forza, la sua carta vincente per vedere cose che altri non vedevano, captare segnali che altri non captavano e riportare sensazioni che altri non riuscivano a spiegare.

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Un cittadino del mondo e portavoce delle minoranze.

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“Il dramma delle culture, infatti – compresa quella europea –, è consistito in passato nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quasi sempre appannaggio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari in gamba, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall’internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. Nella maggior parte dei casi si trattava di mercenari rozzi e ottusi, privi di riguardi e di sensibilità, spesso analfabeti, il cui unico interesse consisteva nell’assaltare, razziare, uccidere. Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, diventavano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti. I loro rappresentanti, a parte i mascalzoni di cui sopra, si tenevano alla larga, si evitavano, si temevano. Questa manipolazione dei rapporti interculturali da parte di una classe rozza e ignorante ha determinato la pessima qualità dei rapporti reciproci. Le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle. Il razzismo divenne un’ideologia per definire il posto della gente nell’ordinamento del mondo. Da una parte i Bianchi, dall’altra i Neri: una contrapposizione dove spesso entrambe le parti si sentivano a disagio”.
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Come un direttore d’orchestra, Kapuściński conduce il lettore attraverso un lunghissimo viaggio spaziotemporale, polifonico, all’interno di una realtà che non esiste più.

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“L’India rappresentò il mio primo incontro con la diversità, la scoperta di un altro mondo. Un incontro straordinario e affascinante, ma anche una grande lezione di umiltà. Il mondo ci insegna ad essere umili. Ritornai da quel viaggio vergognandomi di non aver letto abbastanza e di essere un ignorante. Avevo scoperto che una cultura estranea non si svela a comando e che, per capirla, occorre una lunga e solida preparazione”.

Alessandro Carli

 

 

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