28 Maggio 2022

“Su questa terra eterna tra sogno e avventura”. Roger Frison-Roche, l’esploratore dei deserti

La santificazione di Charles de Foucauld, il nobile che si è dato al deserto, all’epica dei Tuareg, traducendo il Vangelo in un annuncio di sabbie, permette la riscoperta di Roger Frison-Roche, tra i grandi avventurieri di Francia. Nato nel febbraio del 1906, alpinista con la vocazione per la scrittura, l’ostensione dell’infinito, i pendii verbali, Frison-Roche si converte, trentenne, al deserto: alla prima spedizione nell’Hoggar, compiuta nel 1935 sotto la guida del leggendario capitano Raymond Coche, seguono altri diciassette viaggi nel Sahara, che spesso culminano in imprese epiche (la traversata del Grande Erg Occidentale nel 1937, o il viaggio, a dorso di cammello, dall’Hoggar al Tassili compiuto nel 1950). Le “famose missioni Berliet che esplorarono il Ténéré nel 1959 e nel 1960”, invece, lo lasciarono insoddisfatto: il predominio della tecnica e della meccanica sulla fame, sull’istinto, sull’ingresso nel rischio, segnano un cambiamento radicale nelle avventure ai confini del mondo.

“Fu proprio questa sensazione di sicurezza assoluta che dominava in quelle gigantesche spedizioni scientifiche a farmi guastare il carattere inconsueto dei precedenti vagabondaggi a dorso di cammello”.  

I suoi libri scritti nel deserto, in onore a quell’impero profondissimo, li dedicò a Pascal e a Padre Foucauld:

“All’origine di ciò che sono diventato c’è stata questa marcia lenta, senza principio né fine, su quella terra eterna dove il sogno e l’avventura, dove la vita e la morte, il presente e il passato, la terra e le stelle si alternano all’infinito componendo una sinfonia ardente, punteggiata dal canto del vento fra le dune dei grandi erg o fra gli argani di pietra dei tassili, spezzata di colpo dal silenzio più profondo, quel silenzio degli spazi infiniti che fecero sognare Pascal e Padre Foucauld”.

Morì nel 1999, sull’altura di una bibliografia imponente. Tra i romanzi, Premier de cordée ha un ruolo di rilievo: pubblicato nel 1941, tradotto al cinema tre anni dopo, è istallato da Georges Perec nella lunga lista dei suoi Mi ricordo (1978). In Italia uscì per Garzanti nel 1950, per la traduzione di Roberto Ortolani; è stato ripreso da Vivalda nel 1995, perché “grande classico della letteratura di montagna conosciuto in tutto il mondo”. Sarà. Altri tempi quelli delle avventatezze editoriali, della letteratura ‘d’avventura’: oggi, semmai, ci inabissiamo negli ignoti virtuali, nell’ignoranza di massa. Così, Frison-Roche, uomo ispirato, scrittore dai vasti orizzonti, è per lo più un paria: libri come Le montagne dipinte e La pista dimenticata (edite da Cino Del Duca), Popoli cacciatori dell’Artico e Nahanni (entrambi Garzanti) sono scomparsi, scalfiti dall’oblio. Invece, edito all’epoca da Flammarion e ora da J’ai Lu, i libri di Frison-RocheRetour à la montagne, Les montagnards de la nuit, Le rapt – continuano ad affascinare i lettori francesi, interrano stelle.

Scoperto in una libreria ravennate di libri strani, fuori giri, mi ha affascinato Diario sahariano (in origine Flammarion, 1965). È il reportage di tre viaggi diversi compiuti dall’avventuriero nel deserto: il paesaggio bruno e pietrificato dell’Hoggar compie la lenta lapidazione di ogni convenienza, forse lo abbiamo dentro, quel luogo, forse l’anima non è che un sacco gonfio di sassi, la striatura di un incendio; in una fotografia, l’esploratore scende dalle dune sugli sci. Nei grandi reperti parietali, quelle pitture sbalorditive, si venera, chissà, la prefigurazione del futuro. In Frison-Roche il deserto non sbanda in ammiccamenti teologici, nella trita ramanzina del cuore messo a nudo: la scrittura è sobria, il carattere è stoico, non c’è bisogno di setacciare l’assoluto in luoghi assolati.

Diario sahariano è pubblicato dall’Istituto Geografico De Agostini nella collana “Il Timone” diretta da Enrico Emanuelli, scrittore di genio, inviato speciale per “La Stampa” e il “Corriere della Sera”, autore, per altro, settant’anni fa, de Il pianeta Russia. La collana proponeva libri di autentici fuoriclasse dell’esplorazione, in un’armatura grafica riuscita, da fuga dal mondo. Tra i testi miliari ricordo Appuntamento al Polo Sud di Edmund Hillary, Amicizia coi selvaggi di Nikolaj N. Miklucho-Maklaj, Viaggio a Samarcanda di Eugenio Turri, Solo intorno al mondo di Joshua Slocum, Perù e i fantasmi di Franco Rho. Negli stessi anni la Leonardo Da Vinci Editore pubblicava Folco Quilici, Fosco Maraini vi aveva pubblicato Segreto Tibet e L’isola delle pescatrici, Giuseppe Tucci divulgava i suoi viaggi esoterici in libri come A Lhasa e oltre e Tra giungle e pagode. I lettori non avevano timore dei precipizi, sapevano immaginare, coltivare latitudini proibite, famelici dell’ignoto. Oggi tutto è già stato visto, tocchiamo il fondo credendo di essere al settimo cielo, siamo imprigionati da un immaginario claustrofobico, forgiato per noi, insetti, da altri. L’avventura dipende dalla consistenza del portafogli. Manca l’orizzonte enorme, la voglia di ferire l’immacolato, di contemplare: che sia la finestra della cucina o l’Amazzonia, l’Everest, il Tassili, che differenza fa?

***

Nonostante le fatiche della vigilia, alle cinque in punto lasciamo l’uadi In’Haed. Il fresco della notte, succeduto al caldo torrido della sera, ci ha consentito di recuperare le forze. Un’occhiata alla bussola basta a confermarci che la nostra marcia prosegue in direzione sud sud-est, prora a 280°.

Avanziamo sull’Hammada immensa come automi attratti dall’orizonte che si allontana senza posa. Nessun rilievo spezza questa linea perfetta. Così è talvolta sull’oceano.

E tutt’a un tratto, la sorpresa, una brusca interruzione; alcuni cumoli di ciottoli che contrassegnano l’akba e davanti a noi si stende una conca larga parecchi chilometri, una conca di sabbie biancastre. “Ahar Mellet”, risponde il Madanì alla mia domanda. “La Conca Bianca”.

E davanti a questa valletta apparsa miracolosamente nella monotonia del deserto mi sento preso per la prima volta dal sentimento incredibile, fatto di esaltazione interiore e di contenuta emozione, che si accompagna alle scoperte. La vista di questa conca allucinante, apertasi sotto i nostri piedi dopo ore di cammino nell’inferno di pietre nere, mi rammenta quel che v’è di inedito in questa nostra spedizione. Dall’altro ieri, calpestiamo una pista che nessun europeo ha percorso prima di noi. È l’orgoglio che ci esalta? O è la vanità? Non lo credo. Non stiamo compiendo nulla di eccezionale, che un altro essere umano non possa compiere.

Certo, questa stessa pista è stata abbandonata da lunghissimo tempo persino dai Tuareg, ma alla fine bastava portarsi acqua sufficiente per non restare a secco! No, il sentimento sottile che nasce da questa gioia segreta proviene soltanto dalla certezza di poter sollevare un poco il velo misterioso che si stende sopra un tratto della crosta terrestre. È lo stesso sentimento che mi pervadeva come una fresca ondata quando cercavo un itinerario nuovo su una parete vergine, in alta montagna. È la gioia della scoperta. Tanto più intensa quanto più rari si fanno nel nostro pianeta gli spazi da scoprire.

*

Per contrasto con la luce abbacinante dell’esterno, l’interno sembra scuro come la notte. Entriamo tutti e cinque e sediamo sulla sabbia. In capo a un istante, incominciamo a distinguere gli affreschi sulla parete; dopo qualche minuto il segreto della grotta si rivela in tutto il suo insieme. Stiamo scoprendo un tesoro artistico di valore inestimabile: grida di ammirazione sfuggono dalle nostre labbra via via che notiamo i particolari.

“Incredibile. Meraviglioso. Quale genio ha potuto dipingere un simile capolavoro?”. Non stacchiamo gli occhi dalla grotta dove un ignoto artista ha composto un magnifico affresco a colori, fra i quali predominano i rossi, gli ocra, i bianchi e i neri. La scena raffigura un branco di buoi guidati da uomini rossi, sottili e tutti nudi, col capo sormontato da un casco. Ma quel che provoca il nostro stupore è il disegno. I buoi hanno grandi corna a forma di lira e le curve sono state tracciate da mano abilissima: le proporzioni sono perfette, lo stile sta fra quello dell’affresco egizio e quello delle vecchie stampe giapponesi. Tutta la sua bellezza è nelle ammirevoli proporzioni degli animali, nella disposizione dei colori, nel tratto impeccabile del disegno. Siamo ben lontani dai grotteschi tifinar tuareg, ben lontani anche dalle pitture garamantiche, dalle incisioni libico-berbere. Quel che abbiamo appena scoperto è la prova irrefutabile dell’esistenza, in un’epoca molto remota, preistorica, di una razza civilissima. Forse di ascendenza egizia? Oppure, come pensiamo subito, abbiamo scoperto qui, nel cuore del Hoggar, la culla delle razze berbere?

“Venite a vedere. Altri affreschi. Donne, questa volta”.

Sotto un riparo di roccia attiguo alla grotta, vediamo altri affreschi raffiguranti un branco di antilopi addax cui fanno la guardia alcune donne. La somiglianza con gli affreschi egizi è ancora più sorprendente: le donne sono nude, con fianchi sottili, spalle larghe, braccia magre e la testa cinta dal casco o dall’aureola classici. Ichac ricorda che l’antilope addax veniva addomesticata dai fellah dell’antico Egitto e appare su moltissimi monumenti. Tutto ciò che troviamo conferma un indiscutibile legame delle colonie dell’Alta Mertutek con gli antichi popoli egizi.

Roger Frison-Roche

*I testi sono tratti da: Roger Frison-Roche, “Diario sahariano”, Istituto Geografico De Agostini, 1966, traduzione italiana di Elsa Pelitti

Gruppo MAGOG