Lo punto da tempo, senza tema d’invidia né di spregiudicatezza, come un ghepardo che voglia indottrinarsi riguardo all’atletismo del rapace. L’intervista è pattuita, ritrovo la mail, nell’ottobre del 2017. Un anno fa. Ma ne conosco la ritrosia, la primizia del pudore – per questo, dopo averlo scocciato, per un po’, lo mollo. Ma non demordo. So che a volte bisogna attendere che le stelle divengano un canneto. Dopo averlo scritto mille volte – fino a mandarlo graziosamente in bestia – non lo dico più. Ricordo, allora, un paio di eventi. L’impressione possente che mi fece quella placca d’arte, Ossa incise e dipinte, pubblicata da L’Albatro nel 1999: un tassello dell’opera più vasta di Alessandro Ceni (nella fotografia di Dino Ignani), Mattoni per l’altare del fuoco (Jaca Book, 2002), che è ancora lì, meteorite bruno, quarzo-capodoglio, spiaggiato su questa landa lirica, la raccolta poetica cruciale, diciamo, dagli Ottanta in qua. Penso che fu Massimo Gezzi a inoltrarmi alla grandezza di Ceni, poi – il secondo evento – fu insieme a Daniele Piccini – che installa Ceni nella rigorosa antologia La poesia italiana dal 1960 a oggi, Rizzoli, 2005 – che chiarificai la mia personale prossimità a quel dettato. Ma poco importano le fole liriche private, semmai potete leggere Ceni, poeta radicale e raro – può coltivare una singola poesia per anni di patimenti e di scavi geo-linguistici – alieno alla grande editoria (preferisce stabilirsi in piccole, dedicate edizioni: l’ultima raccolta, Combattimento ininterrotto, è edita da Effigie nel 2015), nella raccolta commentata Parlare chiuso. Tuttelepoesie (Puntoacapo editrice, 2012; con testi critici di Roberta Bertozzi, Stefano Guglielmin, Massimo Morasso, Daniele Piccini, Salvatore Ritrovato). Resta il dato oggettivo: il poeta, di audace precocità – l’esordio nel 1980, per Guanda, poco più che ventenne, con I fiumi d’acqua viva – ha dato alla poesia italiana versi miracolosamente memorabili (“Io sto qui e da qui/ vedo collassare le stelle, implodere i volatili,/ cabrare verso il loro dio le nubi/ per poi precipitare in lacrime e piogge;/ vedo cadere tutto e tutto/ ininterrottamente”), che ci portano, evviva, in spazi siderali, dentro un linguaggio artico, articolato, anomalo alla nostra tradizione. Inoltre – ed è qui il pretesto al dialogo – Ceni è tra i traduttori più importanti dalla lingua inglese: per i massimi editori italici (Einaudi, Bompiani, Feltrinelli) ha tradotto di tutto, da Edgar Allan Poe a Robert Louis Stevenson, da John Milton a Walt Whitman, da Herman Melville e Joseph Conrad (indimenticabili i ‘suoi’ Moby Dick e Lord Jim), da Oscar Wilde a Charles Dickens. Al momento, per Feltrinelli, è impegnato nella traduzione dell’Ulisse di James Joyce. Ad ogni modo, l’attesa ha avuto il premio. Ho preteso Ceni a Rimini, poco fa – chioma bianca, vigore da totem indiano, viso tra Gregory Peck e ultimo Mohicano della poesia – finché non ha potuto rifiutarmi l’intervista. Un anno dopo. In dono – inatteso – una poesia inedita, che non va letta ma masticata, ha sentore di rito e di volo. (Davide Brullo)
In uno scritto esegetico piuttosto noto Piero Bigongiari avvicina alla tua poesia il detto di Dylan Thomas – poeta, per altro, che Bigongiari ha conosciuto, ospitato a casa, nel 1947, e tradotto. Tu traduci dall’inglese. Pensi esista una filiazione tra la tua poesia e quella anglofona? E poi: com’è che non hai mai tradotto Thomas?
Naturalmente sì, anche se proprio di filiazione non parlerei. Lavorando su una lingua straniera (ma per certi versi lavorando sulla propria), e su quella di grandi autori per giunta, è inevitabile (ma salutare) che si compia una specie di travaso, di continuo allettamento o sirenico canto (da seguire, questo) che non può non sfociare in un poeta in rivi linguistici adattati alla lingua madre (arricchendola). La lingua inglese ha contribuito al mio ritmo, al mio suono, al mio lessico e a certe magie sintattiche che ho traslato dalla prosa angloamericana. Thomas? Il Grande? Ho qualche mio personale assaggio di traduzione ma, molto semplicemente, in quanto a pubblicarlo in mie versioni non c’è stata l’occasione. Mi piacerebbe Under the milkwood.
Come è iniziata l’avventura del tradurre, con quale libro, perché?
È iniziata col desiderio di conoscere, apprendere fino in fondo la lingua degli autori anglofoni che ho amato fin da giovane: il desiderio, lavorando sul vivo del testo, di penetrare dettato, senso, musica. Comunque, la traduzione l’ho sempre considerata anche un lavoro, sic et simpliciter, un andare in laboratorio o scendere nei campi per portare il frutto a casa e viverci (di conseguenza, senza rammarico, per imparare il mestiere e campare mi è capitato di tradurre anche molta paccottiglia).
Tra l’altro, tu ti laurei, proprio con Bigongiari, con una tesi su Tommaso Landolfi, scrittore straordinario, eccentrico, ed eccelso traduttore dai russi e dai tedeschi. Ritieni che per un poeta, per affilare la lama della propria lingua, sia necessario l’esercizio del tradurre?
Penso di sì, ma non è detto che a tutti sia indispensabile. Dipende dal proprio atteggiamento, dalla propria inclinazione, dalla propria intenzione linguistica. E dal peso che ciascun poeta dà alla parola. Nel caso mio è assoluto.
Quale libro ti ha divertito di più tradurre? Quale libro sei stato più felice di tradurre per affinità con la tua opera?
Il Circolo Pickwick: non solo divertimento, ma autentico godimento. Quanto al resto, la scelta è più ardua. Direi comunque (più che per affinità per corrispondenze amorose e travolgimento): I racconti di Stevenson e Moby Dick.
A contrario, quale libro hai avuto più difficoltà a tradurre, e perché?
Se per difficoltà intendi osticità ad entrare in sintonia con l’autore (e quindi col suo testo), non ho dubbi: Alice nel paese delle meraviglie e Oltre lo specchio. Carroll mi fu proposto e accettai ma non mi appartiene (il libro tuttavia ha avuto, mi dicono, un ottimo riscontro editoriale, il che significa in ogni caso che il lavoro era stato eseguito bene).
La lista degli autori eccelsi che hai tradotto, da Whitman a Melville, da Conrad a Coleridge e Stevenson è infinita. Di solito, sei tu che proponi cosa tradurre all’editore, o sei ‘schiavo’ delle necessità di chi ti paga la traduzione?
Ormai da diversi anni propongo io, salvo eccezioni che vaglio. Certo, possono capitare ancor oggi commissioni, che però rientrano tutte nell’ambito di tradizione e genere di autore a me pertinenti.
Come traduci? Studiando, con pazienza; oppure con ferocia, secondo il tuo istinto linguistico?
Studiando, con pazienza ma con le antenne sempre ritte. Il testo comanda e il traduttore deve sentirlo e sapercisi adattare: è un traghettatore che possiede l’interpretazione (linguistica, musicale, attoriale) come imbarcazione. Navigare in codeste acque è bene sia sempre lento e avveduto.
Ora so che vai traducendo l’“Ulisse” di Joyce. Ennesima opera capitale che ti capita di tradurre. Quali sono le difficoltà di quel linguaggio?
Perdona la brevità della risposta: tutte. È un avventura strepitosa.
…e come poeta? Dove ti trascina la tua ricerca, dove tracima?
Valutate voi.
Canto grosso
Stiance amarissime, talasse, di voi –
che noi lì si stava lì a guardare
dopo il lungo accanimento muto
d’una luna acidula e mezzana d’amori,
stiance amarissime, talasse, di voi –
che per fecondazione esterna,
come da un dopo e un sotto
come da un fondale
come da impedire una cosa già avvenuta
ed esser saldo nell’intento,
stiance amarissime, talasse, di voi –
che somministrate la medicina scaduta
la non-medicina
la medicina che non vale più
che non è più medicina
che non c’è più medicina,
stiance amarissime, talasse, di voi –
mutandoci in larve
per ipnosi profonda
annullamento abolizione ipossia e blocco
in minutissimo plancton
nel vasto assortimento della grande
collezione dell’ossario comune e
nell’indifferente sepoltura del servizievole mare,
di voi, stiance amarissime, talasse,
come per primi entrando in un posto segreto
sentivamo soltanto i suoni
pacificati dopo lo strazio,
scetavano
simili a un’invocazione da un campo flegreo.
Alessandro Ceni
*In copertina: Alessandro Ceni in un ritratto di Dino Ignani