Tra sogno e incubo, chi non lo desidera? Essere uno, singolarmente e indubbiamente sé, per ciascuno, in clamorosa corrispondenza. Spezzettati – ma non spezzati – nell’occhio del prossimo, giacere tra i suoi futuri. Arthur Rimbaud ci è riuscito. Rimbaud non è solo il poeta spiazzante, assoluto, che ha cambiato la poesia per rifiutarla, mordendo l’Africa con giaguari nello sguardo. Rimbaud è l’icona della poesia, l’iconoclasta della vita, quello che chiede una intimità fiammata con chi lo legge, il poeta veggente, il “ladro del fuoco”, come scrive a Paul Demeny nel 1871, quello che pratica “commercio d’armi e munizioni” secondo il Signor Fagot (a cui scrive nel 1887), il meraviglioso inquieto (“Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me”: alla famiglia, nel 1888), il santo, secondo la sorella Isabelle, che tentò di erigerne l’agiografia in contrasto con la vigorosa vulgata – edificata da Paul Verlaine, per cui restò, sempre, il ragazzo “dal volto perfettamente ovale d’angelo in esilio” – del poeta ‘maledetto’, dacché “quelle poesie esprimono idee e sentimenti di cui l’autore fatto uomo, e uomo serio e onesto, provò vergogna e pentimento”, d’altronde, “all’Harar, paese da lui amato appassionatamente, gli indigeni lo chiavano il Santo, per via della sua meravigliosa carità” (così Isabelle a Louis Pieriquin, nel 1891). Insomma, allo stesso tempo, Rimbaud è santo e criminale, volitivo e virtuoso, è voluttà e pietà, è l’estasi di tutte le contraddizioni. “Il commento a Rimbaud è attualmente diventato un genere letterario”, osservava Jean Paulhan: per rendersene conto basta sfogliare una bella antologia curata un tot di tempo fa da Adriano Marchetti, Rapsodia selvaggia. Interpreti francesi di Rimbaud (Marietti, 2008). Lì vi leggiamo i consigli di Victor Segalen (“Non dobbiamo cercare di capire”), le agnizioni di André Gide (“Credo che nella penosa epoca attuale… l’individualismo oltranzista che c’insegna Rimbaud, questo incomparabile fermento, vada tenuto in serbo”) e di Paul Claudel (“fu un mistico allo stato selvaggio”), le orazioni di André Breton (“Trasformare il mondo, ha detto Marx; cambiare la vita, ha detto Rimbaud: queste due parole d’ordine per noi fanno tutt’uno”), gli inni di René Char (“Hai fatto bene a partire Arthur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”). Rimbaud sembra l’elettricità della letteratura: ancora nel 2011 Jamie James dedicava a Rimbaud a Giava (in Italia: Melville, 2016) un radioso romanzo-reportage. Anni prima, piuttosto, fu il Rimbaud di Renato Minore a strappare applausi – edito da Mondadori, Premio Campiello nel 1991. Romanzo d’imprevedibile delicatezza – anche in Italia c’è una solida tradizione di esegeti di Rimbaud, dall’Arthur Rimbaud di Ardengo Soffici, siamo nel 1911 – che torna, ora, rivisto, per Bompiani come Rimbaud. La vita assente di un poeta dalle suole di vento. Minore, in effetti, è anche biografo degli specchi, dei messaggi cifrati, delle piste errate, dei Rimbaud rimbambiti dalla contraffazione (la storia del mucchio di versi ‘africani’, “Ma bisogna credere alla luna di Harar? Farebbero comodo quei versi. In fondo risolverebbero l’enigma, e a buon mercato. In Africa, Rimbaud continua a scrivere. Addirittura progetta il ritorno in grande stile nel mondo delle lettere”; o quella del poeta che griffa col suo nome la piramide di Luxor: “Un Rimbaud inciso in pietra, la pietra eterna delle piramidi. È la sua firma lasciata a Luxor, incorniciata a regola d’arte… Tutto semplice. Ma una firma, lasciata come unico segno di un viaggio di cui non si sa nulla, è sospetta. Ne spuntarono fuori altre due nella stessa stele di Luxor: più in basso, di fronte a quella grande. Una abbreviata, semplicemente RIMB, così come il poeta talora firma le lettere nel 1889. Troppe. Si può pensare che siano apocrife, un altro falso per depistare. Sono la prova della ‘stupidità del suo autore’: sentenzia un critico, giudice implacabile. Ma si è proprio stupidi se si deposita sulla pietra un simile prolungamento di sé? Perché giudicare opera da sciocchi quel lampo di bêtise che, folgorando, alimenta un gesto elementare, simile a quello per cui si vede riflessa la propria immagine allo specchio?”). Insomma, Minore va, anche, a caccia di tutti gli ‘altri’ Rimbaud, il poeta dell’Io è un altro, che si è disseminato ovunque, perfino sotto l’amaca della nostra lingua. Così, è inevitabile, per trovare Rimbaud – o l’anatema della sua ombra – andai in cerca di Minore. (d.b.)
Lei ha scritto il romanzo su Rimbaud. E quello su Leopardi. Le immagini di questi due poeti estremi, che hanno rotto codici e forme e formalismi in qualche modo si apparentano, si sovrappongono. Cosa li accomuna, cosa li distanzia?
Forse la protratta condizione “adolescenziale” che li pone di fronte alle grandi domande sulla vita, sull’identità, sul mondo e su queste costruiscono un mirabolante telaio di visioni, sogni, pensieri più o meno ossessivi. Leopardi è più dubbioso, più ragionativo, meno trascinante. Leopardi è Leopardi anche per lo Zibaldone, le Operette Morali: non c’è solo il poeta, c’è un complesso di funzioni e possibilità espressive. Dentro di lui c’è l’assurdo sorriso di chi nella vita non finisce mai di interrogarsi, l’opera – creatura non solo di chi scrive versi, sangue che circola, nervi che captano, cuore che raccoglie, cervello che filtra, spirito che trasforma. Rimbaud no. È il veggente, l’innovatore che stravolge ogni schema. Il poeta come fuoco di conoscenza e verità, trascinante forza di conoscenza e verità. È un segno forte, indelebile dentro la storia culturale e poetica della sua epoca, ma tuttora s’innalza come un faro. Meteora per la brevità dell’azione ma immensa e profonda come durata è la sua influenza.
Ladro del fuoco, veggente, Sommo Sapiente, estremo criminale, colui “che ha in carico tutta l’umanità”: chi è il poeta agli occhi di Rimbaud, che cosa raffigura?
Non esiste altro esempio di poeta così perfetto, sicuro e autorevole con un esordio tanto folgorante che poi scivola nel vuoto assoluto. Un poeta che si fa anche carico di una funzione sociale e sacrale i cui versi vogliono avere un timbro profetico, salvifico. La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così, ci dice Rimbaud: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. E poi, lo sappiamo scompare definitivamente, un fantasma presto dissolto nel nulla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista.
In una visione romantica sembra che Rimbaud per cinque anni abbia scritto poesie e per il resto abbia vissuto ‘poeticamente’, visitando il ‘mostruoso’ dell’anima, della vita, precipitando nell’ignoto. Lei parla, fin nel titolo, di “vita assente”: cosa intende?
Allora la vita. «Il poeta della rivolta, e il massimo», scrisse Camus. Da oltre un secolo si sono accumulate su di lui ciarle d’ogni tipo, rievocazioni scientifiche e fantasiose, biografie romanzate, saggi accademici, film anche mediocri. Il suo abbandono dell’attività poetica alle soglie dei vent’anni ha causato una costernazione più duratura e diffusa di quella determinata dallo scioglimento dei Beatles. Ancora oggi su Internet si diffondono leggende su di lui, uno dei personaggi dall’influenza più distruttiva e liberatoria sulla cultura del secolo che abbiamo alle spalle, e sulla sua carriera. In vita, non solo di poeta con la sua travolgente meteora, ma di esploratore, commerciante, contrabbandiere, cambiavalute, profeta mussulmano. E postuma, come simbolista, surrealista, poeta beat, studente, rivoluzionario, paroliere rock, antesignano gay e tossicodipendente, vagabondo e visionario, Angelo dell’omosessualità, della violazione, della lotta alla borghesia, della ribellione, il primo poeta che seppe ripudiare i miti «dai quali la sua epurazione ancora dipende». L’énfant prodige, il genio ribelle e visionario, il «pederasta assassino» dei Goncourt nella violenta storia d’amore con Verlaine, l’avventuriero, l’uomo d’affari. Sempre in fuga, mai appagato: «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», scrive dall’Africa.
L’interpretazione della vita di Rimbaud (di cui l’opera sarebbe una profezia) e i romanzi su Rimbaud (penso ai libri di Soffici, di Edmund White, di Jamie James, ad esempio) sono diventati dei generi letterari a sé, ciascuno ha il proprio Rimbaud, Rimbaud sembra poter essere di tutti e di nessuno, merito, forse, della sua elusività. Lei in quale posizione si è posto e quale Rimbaud ha scoperto nel suo viaggio verso di lui?
Prendiamo come test le sue lettere. Un epistolario che, in tutta la sua vastità – diviso com’è tra primi attori (Rimbaud e Verlaine) e comprimari, caratteristi e comparse – è la radiografia di una vita chiacchieratissima, esibita e impenetrabile a un tempo, dalle mille sorprese e misteri. Sono sceneggiate le stazioni di un’esistenza, anzi di un’opera-vita da cui provengono misteriosi messaggi spesso contraddittori, in una complessità che, comunque «è pronta ad accogliere ogni aspetto del possibile». Sono i tanti enigmi di un poeta che si fece mercante, cercò ma senza esito di diventare esploratore, vendette armi a Menelik, quelle stesse che furono usate contro gli italiani ad Adua, non fu (al contrario di quanto a lungo si è creduto e scritto) un negriero. Per oltre dieci anni, dal 1880 all’inizio del 1891 quando il tumore al ginocchio lo costrinse a ripartire per Marsiglia, si mosse in uno scenario in cui tutto era davvero possibile: trafficava con l’inconnu tra Aden, Harar, Entotto, cercava di arricchirsi e senza riuscirci, era anche un mercante ingenuo, voleva vendere Bibbie in un paese di analfabetismo totale. Un mito che è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia. Un dato per tutti: il Mercure de France, che nel 1912 ha pubblicato l’opera completa delle sue poesie, ha venduto fino alla fine dello scorso millennio ben trentadue copie al giorno di quella edizione. Praticamente per molti anni la casa editrice è vissuta dei proventi di quel libro.
Guardo a Rimbaud e viene da pensare che la poesia è tale perché è tesa fino alla rinuncia, al silenzio, alla fuga, al menefreghismo, all’oblio. È così? Cos’è la poesia, di cui Rimbaud è la sfrenata (ormai sfigurata dagli interpreti) icona?
Proprio per rispondere ad una domanda come questa, raccontando Rimbaud non ho cercato la verità di Rimbaud ma la verità in Rimbaud, la verità che un poeta sa illuminare e diffondere, tracciando un percorso nell’invisibile, in quella zona verso cui guardò Arthur, figlio di contadini che disegna la silente e incorporea costellazione che seppe rilevare dal nulla. “Inventarne la storia per ritrovarne il filo”, scrive Artaud. Come qualcosa di diverso, la fatica di conoscere, la dannazione di conoscere, con il file rouge del romanzo che sta nella ricerca indiziaria, nell’investigazione di un’esistenza irripetibile; come un giallo che alla fine non ha soluzione, ma solo la nudità del problema e che in ogni momento corre il rischio di vedere il suo oggetto svaporare nell’ovvietà dello stereotipo, oppure resistere a ogni tentativo di scasso.
*In copertina: Arthur Rimbaud ad Harar, 1883