Quando Toni Morrison ottiene il Nobel per la letteratura è stato da poco eletto Bill Clinton come Presidente degli Stati Uniti d’America. Tra le rare donne insignite dell’ambito alloro, la Morrison è la prima afroamericana a vincere il Nobel. L’anno prima, in una specie di atto preparatorio, il Nobel era andato a Derek Walcott, sopraffino poeta in lingua inglese, eppure caraibico, deflagrante incrocio di culture. In Walcott, per così dire, il ‘riscatto’ è pienamente estetico – in “Omeros” rifà l’Odissea, di fatto lui, Derek, è l’Omero dei Caraibi, l’Omero oceanico. In Toni Morrison l’energia politica – è stata, tra le tante cose, la scrittrice della presidenza Obama – si coniuga all’altezza lirica. Non a caso, il suo discorso di accettazione del Nobel comincia con una storia, molto intensa, che è una riflessione sulla saggezza del linguaggio e sulla sua menzogna. In una bella intervista sulla “Paris Review” (che leggete qui), realizzata da Elissa Schappell nel 1993, la Morrison racconta la necessità di leggere, il fascino della lettura (“Non volevo diventare scrittrice. Mi piaceva leggere. Pensavo che tutto ciò che doveva essere scritto, fosse stato già scritto… Sono un buon lettore. Adoro leggere… Quando insegno scrittura creativa, parlo sempre della necessità di leggere il proprio lavoro”), la difficoltà di essere una donna scrittrice (“Lo è stato. Difficile. Per una donna della mia generazione, della mia classe sociale, della mia razza. Non dici che sei madre e moglie. O che sei un insegnante, una lavoratrice, un editor. Scrivi. Ma… è un lavoro? Come fai a guadagnarti da vivere? All’epoca, non conoscevo nessuna donna scrittrice di successo: il successo sembrava arridere solo ai maschi”), l’amore per Joyce (“Il suo umorismo è incredibile. Joyce è divertente. Ho letto ‘Finnegans Wake’ dopo gli studi, senza alcun apparato critico, per fortuna. Beh, è divertente! Ho riso spesso. Capivo poco, ma non era importante, perché quella scrittura mi trascinava”). Muore a 88 anni, Toni Morrison, i suoi “Romanzi” sono radunati in un ‘Meridiano’ Mondadori, nel 2018, i suoi libri sono editi da Frassinelli e Sperling & Kupfer.
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“C’era una volta una vecchia, cieca ma saggia”. O era un vecchio? Forse era un guru. O un griot che calmava i bambini irrequieti. Ho sentito questa storia, o una esattamente uguale, nella tradizione di diverse culture. “C’era una volta una vecchia. Cieca. Saggia”. Nella versione che conosco, la donna è figlia di schiavi, nera, americana, e vive da sola in una piccola casa fuori mano. La sua reputazione di saggia è senza pari e fuori questione. Tra la sua gente, la vecchia è sia la legge che la trasgressione della legge. Il grande rispetto in cui è tenuta e il timore reverenziale che suscita si estendono ben oltre il circondario, raggiungendo luoghi remoti, arrivando fino alla città dove l’intelligenza dei profeti rurali è fonte di divertimento.
Un giorno la donna riceve la visita di tre giovani che sembrano determinati a sbugiardare la sua chiaroveggenza e a smascherarla come una ciarlatana. Il loro piano è semplice: entrare in casa sua e porle la sola domanda la cui risposta dipende esclusivamente da ciò che la rende diversa da loro, una differenza che considerano una profonda mancanza: il suo essere cieca. Stanno in piedi davanti a lei e uno dei tre dice: “Vecchia, ho un uccello nella mia mano. Dimmi se è vivo o se è morto”. La donna non risponde e la domanda viene ripetuta: “L’uccello che ho in mano è vivo o morto?” Ancora non risponde. È cieca e non può vedere i suoi visitatori, figurarsi quel che hanno in mano. Non sa il loro colore, il loro sesso, la loro provenienza. Sa solo qual è il loro intento. Il silenzio della vecchia si protrae così a lungo che i tre giovani stentano a trattenere le risa. Poi finalmente ella parla, e la sua voce è sommessa ma severa. “Non lo so” dice. “Non so se l’uccello che tieni in mano sia vivo o morto, so però che è nelle tue mani. È nelle tue mani”. La sua risposta può significare: “se è morto, potresti averlo trovato così, o potresti averlo ucciso; se è vivo, puoi ancora ucciderlo. Sta a te decidere se continuerà a vivere. In ogni caso, ne sei responsabile”.
Per aver ostentato il proprio potere di fronte alla sua impotenza, i giovani visitatori vengono redarguiti e messi di fronte alla responsabilità non solo dell’atto di scherno, ma della vita dell’esserino che hanno sacrificato al loro scopo. La vecchia cieca sposta l’attenzione dalle asserzioni di potere allo strumento tramite il quale quel potere viene esercitato. Le speculazioni su cosa (al di là del suo fragile corpo) quell’uccellino-nella-mano possa significare mi hanno sempre attratto, tanto più adesso che sto riflettendo sul lavoro che faccio e che mi ha condotto qui. Scelgo dunque di leggere l’uccello come il linguaggio, e la donna come una scrittrice di una certa esperienza. Ella è preoccupata di come la lingua in cui sogna, quella che ha avuto in dono alla nascita, sia manipolata, utilizzata, e le venga persino celata per qualche scopo nefando. Poiché è una scrittrice, pensa al linguaggio in parte come a un sistema, in parte come a una cosa viva sulla quale si ha il controllo, ma soprattutto come a un’azione che implica delle conseguenze. Allora la domanda che i ragazzi le pongono: “È vivo o è morto?” non è astrusa, giacché considera il linguaggio suscettibile di morte, di cancellazione; di certo in pericolo, e possibile da salvare solo tramite uno sforzo di volontà.
Ella ritiene che, se l’uccello nelle mani dei suoi visitatori è morto, i custodi siano responsabili del cadavere. Per lei una lingua morta non è soltanto una lingua non più parlata né scritta, ma una lingua che manca di flessibilità e che si accontenta di ammirare la propria paralisi. Come il linguaggio statalista, censurato e censurante. Senza scrupoli nelle sue funzioni di ordine pubblico, non ha desiderio o scopo che non consista nel mantenere campo libero al proprio narcisismo narcotico, alla sua stessa esclusività e predominio. Per quanto moribondo, non è privo di effetto, perché ostacola attivamente l’intelletto, tiene a bada la coscienza, sopprime il potenziale umano. Sordo a ogni interrogazione, non può formulare né tollerare nuove idee, sviluppare pensieri diversi, raccontare un’altra storia, colmare silenzi impenetrabili. Il linguaggio ufficiale, forgiato per sancire l’ignoranza e preservare il privilegio, è una corazza lustrata per abbagliare col suo luccichio, un guscio vuoto che il cavaliere ha già abbandonato da tempo. Eppure è lì: ottuso, predatorio, sentimentale. Pronto a sollecitare la reverenza degli scolari, a fornire riparo ai despoti, a evocare nel pubblico falsi ricordi di stabilità e armonia.
La donna è convinta che quando la lingua muore per incuria, disuso, indifferenza e mancanza di considerazione, o quando viene uccisa per decreto, non soltanto lei ma tutti coloro che la utilizzano siano responsabili della sua dipartita. Nel suo paese, i bambini si sono morsi via la lingua e usano proiettili piuttosto che ripetere la voce di una lingua ammutolita, disarmata e disarmante, di un linguaggio che gli adulti hanno del tutto abbandonato come mezzo per cogliere il significato, per fornire una guida o per esprimere amore. Ma la donna sa che il suicidio linguistico non è una scelta limitata ai bambini. È comune tra gli infantili capi di stato e i mercanti di potere il cui linguaggio svuotato li lascia privi di accesso a ciò che resta dei loro istinti umani, affinché possano parlare soltanto a chi obbedisce, o per imporre obbedienza. Il saccheggio sistematico del linguaggio può essere riconosciuto dalla tendenza di coloro che lo utilizzano a rinunciare, per intimidazione e soggiogamento, alle sue molteplici sfumature, alle sue complessità, alle sue proprietà ostetriche.
Il linguaggio oppressivo fa più che rappresentare la violenza: è violenza; fa più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza. Che sia l’oscurante linguaggio di stato o il linguaggio fantoccio di media dementi; che sia l’orgoglioso ma calcificato linguaggio dell’accademia o il linguaggio della scienza guidato dal mercato; che sia il linguaggio maligno della legge senza etica o quello designato all’emarginazione delle minoranze, che nasconde il saccheggio razzista nella sua sfrontatezza letteraria: in ogni caso, deve essere respinto, castrato e smascherato. È il linguaggio che beve sangue, che affonda i denti nei punti vulnerabili, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo mentre avanza inesorabile verso la linea di fondo e le menti che hanno toccato il fondo. Linguaggio sessista, linguaggio razzista, linguaggio teistico: fanno tutti parte dei linguaggi della politica del dominio e non possono, e non intendono, permettere una nuova sapienza, né incoraggiare il reciproco scambio di idee.
Toni Morrison
*Si pubblica parte del discorso di accettazione del Nobel per la letteratura tenuto da Toni Morrison nel 1993. Il testo, tradotto in italiano da Alessandra Padoan, è pubblicato per esteso in “Per amore del mondo. I discorsi politici dei premi Nobel per la letteratura”, a cura di Daniela Padoan (Bompiani, 2018)