Jonathan Littell è tra gli scrittori più noti del tempo presente. Nato a New York nel 1967, vive a Barcellona, scrive in francese. Con Le benevole (edito nel 2006 da Gallimard, ‘scoperto’ da Richard Millet) ha vinto il Goncourt e il Gran Prix du roman de l’Académie française. Ha studiato a Yale, ha conosciuto William S. Burroughs, uno dei suoi maestri; nella sua costellazione di lari figurano il Divin Marchese, Maurice Blanchot, Jean Genet, Céline, Bataille e Beckett. Prima di darsi alla scrittura, Littell ha lavorato per l’associazione umanitaria internazionale Action Against Hunger, in particolare in Bosnia, Cecenia, Sierra Leone, Afghanistan, Congo. Nei suoi libri – Cecenia, anno III o Taccuino siriano – il ‘politico’ penetra nella categoria dell’estetico (non del ‘sociale’). Di recente, Einaudi – l’editore italiano che lo traduce – ha pubblicato Una vecchia storia (2019). In questi giorni, invece, Gallimard ha pubblicato il saggio De l’agression russe. Écrits polémiques, di cui si offre un estratto. Così presenta il libro l’autore:
“La polemica è genere di cui diffido fortemente e che pratico con parsimonia. Non ho mai ritenuto che il fatto di aver scritto libri ed essere considerato, in un certo senso, una persona pubblica, fosse sufficiente per darmi il diritto di esprimere le mie opinioni ai quattro venti. A volte non abbiamo scelta: a volte il silenzio equivale a essere complici. Quando un paese ne attacca un altro, come la Russia ha attaccato l’Ucraina il 24 febbraio del 2022, tacere significherebbe fare il gioco dell’aggressore, tradire l’aggredito. Questo è tanto più vero se hai trascorso anni in entrambi i paesi, e hai amici in entrambi quei paesi. Per alcuni, come per altri, fare una scelta di campo è necessario”.
Sul libro campeggia questa frase: “Putin è un uomo del XXI secolo che conduce una guerra del XX secolo con obbiettivi del XIX secolo”.
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La guerra senza fine di Vladimir Putin
Ventidue anni fa una guerra feroce ha portato al potere Vladimir Putin. Da allora, la guerra è uno dei principali strumenti del suo lungo regno, utilizzata ininterrottamente, senza esitazioni. Putin esiste grazie alla guerra, ha prosperato grazie alla guerra. Speriamo che sia una guerra a causare la sua rovina.
Nell’agosto del 1999 Vladimir Putin, allora sconosciuto al grande pubblico, fu nominato primo ministro quando il suo predecessore si rifiutò di sostenere una nuova invasione totale della Cecenia. Putin si dimostrò pronto, e in cambio del loro sostegno incondizionato, mollò le briglie dei militari, permettendo loro di lavare nel sangue e nel fuoco l’umiliante sconfitta del 1996. La notte del 31 dicembre 1999, uno sfiancato, vecchio, opalescente Borís Él’cin si dimise, cedendo la presidenza al nuovo arrivato. Nel marzo del 2000, dopo aver giurato di “uccidere i terroristi nel cesso”, Putin è stato trionfalmente eletto presidente. Con l’eccezione di quattro anni in qualità di primo ministro (2008-2012) ha regnato sulla Russia da allora.
Sono tornato in Cecenia, come umanitario, all’inizio della seconda guerra. Nel febbraio del 2000 ho cenato con Sergei Kovalev, il grande difensore russo dei diritti umani, e gli ho fatto una domanda all’epoca sulla bocca di tutti: chi è questo nuovo presidente sconosciuto?, chi è Putin? Riesco ancora a citare a memoria la sua risposta: “Vuole sapere chi è Vladimir Putin, ragazzo? Vladimir Putin è un tenente colonnello del KGB. E sa cos’è un tenente colonnello del KGB? Nulla”.
Kovalev intendeva dire che un uomo che non era salito oltre quel grado, che non era stato promosso neppure colonnello, restava un mero agente di basso profilo, incapace di pensare strategicamente, di pianificare in anticipo le proprie mosse. Se è vero che Putin, in ventidue anni di governo, è cresciuto immensamente in esperienza, credo che il compianto Kovalev avesse, in fondo, ragione. Putin, tuttavia, si dimostrò ben presto un tattico assai brillante, soprattutto quando si è trattato di sfruttare debolezze e divisioni dell’Occidente. Ci sono voluti anni per schiacciare i ceceni e installare nella regione un suo satrapo, ma ci è infine riuscito. Nel 2008, quattro mesi dopo che la Nato aveva concesso un percorso di ammissione a Ucraina e Georgia, ha radunato i suoi eserciti per ‘manovre’ sul confine georgiano e ha invaso il paese in cinque giorni, riconoscendo l’indipendenza di due “Repubbliche” secessioniste. Le democrazie occidentali hanno protestato, senza fare nulla.
Nel 2014, quando il popolo ucraino, dopo una lunga e sanguinosa rivoluzione, ha rovesciato un presidente filo-russo che aveva voltato le spalle all’Europa per votarsi completamente a Mosca, Putin ha invaso e annesso con incredibile rapidità la Crimea e per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale la sovranità di un paese europeo è stata apertamente violata. Quando i nostri leader, scioccati e confusi, hanno risposto con sanzioni, lui ha raddoppiato gli sforzi provocando rivolte in Donbass, una regione ucraina di lingua russa, usando le sue forze clandestine per marginalizzare il fragile esercito ucraino e stabilire due nuove “Repubbliche”, dove la guerra latente non è mai cessata.
È iniziata così la sua corsa precipitosa, a capofitto. Ogni volta, l’Occidente ha condannato, punito, con misure limitate e inefficaci, nella vana speranza di scoraggiare Putin. Ogni volta, il gioco è ricominciato, con una posta sempre più alta.
Putin è un uomo piccolo, fisicamente, e crescere nella Leningrado del dopoguerra non deve essere stato facile per lui. Ha imparato una lezione: se sei il più piccolo devi colpire per primo, e colpire forte, e continuare a colpire. Così, i grandi impareranno a temerti e a fare un passo indietro. È una lezione che ha preso a cuore e messo a frutto. Il budget militare degli Stati Uniti per il 2021 è di 801 miliardi di dollari, quello dell’Europa – incluso il Regno Unito – di 353 miliardi di euro, quello della Russia di circa 55,75 miliardi di dollari. Ma la Russia ci spaventa come se le cifre fossero al contrario. Questo è il vantaggio di combattere come un topo all’angolo piuttosto che come un ragazzo paffuto, addolcito da Coca-Cola, Instagram e ottant’anni di pace in Europa.
Putin dovrebbe rallegrarsi: desiderando congelare il conflitto in Donbass, l’Occidente ha silenziosamente cancellato la Crimea, concedendo l’annessione illegale alla Russia. Putin ha capito che le sanzioni, pur facendogli male, non sarebbero stati così forti, e gli avrebbero permesso di far crescere l’esercito e espandere il suo potere. Ha visto che la Germania, la più grande potenza economica europea, è incapace di fare a meno del gas russo e dei suoi mercati. Ha capito di poter comprare politici europei, tra cui un ex cancelliere tedesco e un ex primo ministro francese, per metterli nei consigli di amministrazione delle sue società di Stato. Ha compreso che in linea di principio i Paesi che gli si oppongono ripetono come un mantra parole come “diplomazia”, “reset”, “normalizzazione delle relazioni”. D’altronde, ogni volta che ha accelerato, l’Occidente si è ritratto, per poi tornare indietro, sperando in un “accordo”, benché insussistente: Barack Obama, Donald Trump, Emmanuel Macron, la lista è lunga.
Putin ha cominciato ad assassinare i suoi oppositori, in patria e all’estero. Ci siamo lamentati, senza andare oltre, senza fare altro.
Jonathan Littell