Esistono scrittori sorgivi, appena usciti da un bosco di cristalli, pieni della propria esattezza. Pierre Michon cresce nella Nuova Aquitania, nel cerchio della privazione – dunque, in una infanzia blu, babelica –, vagando. Affascinato da Artaud, prende, senza troppa fortuna, la via dei teatri, in una compagnia di giro. L’esordio alla letteratura, nel 1984, con Vies minuscules, a 39 anni, è il principio di una nuova vita. Il libro, quasi marziano nel contesto letterario dell’epoca, ottiene il Prix France Culture, è tradotto in diverse lingue, lo consegna a un successo aristocratico, da miniatore verbale. In Italia l’opera di Michon è pubblicata da Adelphi, ma la prima attenzione si deve a un poeta, Roberto Carifi, che nel 1990 traduce, per Guanda, Padroni e servitori. Tra i libri eterei di Michon, scrittore che traccia corsivi sul vetro, ha un posto particolare Rimbaud le fils, pubblicato nel 1991 (e tradotto in Italia da Maurizio Ferrara per Passigli, nel 2005): autentico amuleto ‘da tasca’. Il libro non è biografico ma onirico: in quel genere particolare della letteratura francese che è la ‘variazione intorno alla vita di Rimbaud’, emerge per distrazione dalla norma, per evanescenza, per livore di vastità. Michon non è interessato ai dati di fatto né al dedalo critico: cerca di sfatare il poeta dedicandosi al suo enigma, elaborando una lingua che innalza morgane, promette e fugge. “Cos’è che rivitalizza all’infinito la letteratura? Cosa costringe gli uomini a scrivere? Altri uomini, la madre, le stelle, le antiche cose enormi, Dio, il linguaggio? I poteri lo sanno. I poteri dell’aria sono quel poco di vento tra le foglie. La notte si capovolge. La luna si leva, e non c’è uomo al cospetto di questa mola. Rimbaud in soffitta tra le foglie si volta contro il muro e dorme come piombo”. Così è inciso nella ‘quarta’ del libro. Che cosa significa? Ah! Che il poeta graffia la notte e vince il sonno; che Rimbaud va ospitato nella stamberga del nostro costato. Fuggirà, è certo. Inseguiamolo.
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Si dice che Vitalie Rimbaud, nata Cuif, ragazza di campagna e donna crudele, dolente e crudele, abbia dato alla luce Arthur Rimbaud. Non sappiamo se prima abbia maledetto e poi sofferto, se abbia maledetto di dover soffrire, se si sia adattata a maledizione; e se anatema e sofferenza si intrecciavano come le dita della sua mano, si sovrapponevano nella mente, si scambiavano, si riallacciavano, così che tra quelle dita nere il cui contatto la irritava ella schiacciasse la sua vita, il figlio, i vivi e i morti. Sappiamo però che il marito di questa donna, che è il padre di suo figlio, era vivo quanto un fantasma, nel purgatorio di guarnigioni lontane, dove, quando il figlio aveva sei anni, non era che un nome. Si discute se questo padre evanescente, che era un capitano, annotava frivole grammatiche e conosceva l’arabo, abbia abbandonato quella creatura tra le ombre perché le ombre sono più forti di tutto, o se fosse divenuto così a causa dell’ombra in cui lo aveva gettato la sua partenza; non sappiamo nulla.
Si dice che il bambino, con un fantasma da un lato e quella creatura del disastro e dell’imprecazione dall’altro, fosse uno scolaro ideale, subisse una arcana attrazione per l’antica arte del verso, forse perché in quel ritmo udiva le trombe fantomatiche di guarnigioni lontane, e i paternoster della creatura del disastro, che per scandire la propria sofferenza aveva trovato Dio come il figlio, nello stesso modo, aveva trovato i versi; e in quella scansione avesse sposato idealmente paternoster e trombe. I versi, antico sensale. Sembra che ne compose molti, fin dalla primissima età, alcuni in latino, altri in francese; in questi versi, come possiamo valutare, il miracolo non è ancora accaduto, appartengono alla mano di un bambino di provincia assai dotato, la cui rabbia non ha ancora trovato un ritmo adatto, consustanziale, proprio, quel ritmo in cui la carità, senza smussarla, si lega alla rabbia, mescolate in un solo movimento, supreme nello slancio, che ricadono e volano, come un artificiere che lancia un razzo tra le tua mani impeccabilmente, e suona e squittisce, tutto quello, insomma, che sigilla il nome di Arthur Rimbaud. No, queste sono le gemme di un collegiale.
E nel tempo in cui ha ricoperto di versi le pagine dei suoi quaderni a quadretti, ne siamo certi, il sorriso non era il suo forte, anzi, teneva il broncio, come dimostrano le fotografie che mani devote hanno qua e là raccolto, moltiplicandole come torte appena sfornate, passate tra le mani devote di tutto il mondo, con il piccolo képi d’artiglieria dell’Institution Rossat di Charleville sulle ginocchia, con quel fondamentale brandello di biancheria per la comunione al braccio, e le piccole dita che s’insinuano in un messale, che credi verde cavolo, e lo sguardo malizioso, come un pugno, come se avesse ripugnanza o desiderio in quella fotografia, come se potessimo armeggiare con il futuro e con il passato, e manomettere il tempo, il bambino disarmato in un sussulto.
Il resto della sua vita, o ciò che resta della nostra devozione, ci insegnano che dietro questa apparenza la vera portata della rabbia era considerevole, non solo contro la fascia e il képi, ma anche contro la fascia e il képi. Perché sotto quelle spoglie, lo sappiamo, c’è l’ombra del Capitano e la creatura vivente del rifiuto e del disastro, del rifiuto in nome di Dio, che punì la sua anima perché divenisse Rimbaud, non una persona ma la loro favolosa effigie, da una parte all’altra del pulpito; e forse, con tutte le sue forze, odiando uno e l’altra, odiando i versi in cui paternoster e trombe si coagulano, amando soltanto la missione che da lui si esigeva.
Oppure, non odiava affatto. L’odio è un cattivo sensale. I versi sono fatti per essere donati e in cambio ti viene dato qualcosa che assomiglia all’amore; creano corone nuziali; e, per quanto disastrosa fosse, proprio perché era, la creazione è vocata a ricevere amore, e dunque perché non darlo, e aspirare alle cose impossibili?