15 Dicembre 2023

“Un mostro infinito imperversa dentro di me”. Un talento francese: Léna Ghar

Léna Ghar pare l’ultimo fenomeno della letteratura francese. Pressoché tutti hanno scritto del suo esordio, Radio France ne ha detto come della “rivelazione di questa stagione editoriale”. In un breve brandello biografico, si descrive così: “Nata nel 1989, in riva al mare, deve le più grandi gioie agli amici, i fratelli, al sole e al vento. All’alba del suo diciassettesimo compleanno, si è trasferita per studiare in una grande città”. Tumeur ou tutu è stato pubblicato da Gallimard quest’anno, a fine agosto nella collezione Verticales dedicata alla letteratura contemporanea. Esplicita la quarta:

“La follia che attraversa questo romanzo elettrizza per la brutale accuratezza e la poetica ferocia della sua visione del mondo”.

Léna Ghar ha impiegato sei anni per scrivere Tumeur ou tutu, il monologo di una narratrice che trasfigura in una lingua inventata le sofferenze che subisce e poi infligge, narrando la replica della violenza domestica. Tumeur ou tutu, il primo romanzo di Léna Ghar, è degno di nota per l’uso della lingua e la forza della sua proposta stilistica. Lungi dall’essere formale, la sua ricerca mette ciascuna parola al servizio di una necessaria impresa di sopravvivenza attraverso la scrittura; quella di una bambina che si confronta con l’anonima violenza del suo contesto familiare, una violenza che cerca di esprimere fin dalle sue prime parole. È un thriller senza respiro che ci rende testimoni involontari della distruzione e della rivelazione che il linguaggio, arma a doppio taglio, può nascondere, come tanti mostri sotto il letto.

**

Tumeur ou tutu

A ogni parola difesa.

“Ma noi abbiamo scelto appunto di parlare di quella specie di tabula rasa che definisce agli inizi ogni decolonizzazione”.

Frantz Fanon, «Della violenza», I dannati della terra, 1961

Il mostro

Un mostro terrificante imperversa nel vuoto della mia testa. Non so come sia entrato nell’anno 3 e nemmeno che cosa gli ho fatto per odiarmi così tanto. Sempre in agguato. Spia. Ride di quello che faccio come una iena feroce, mi perseguita dentro, mi torce le caviglie, mi blocca le ginocchia, mi fa sudare le mani, accelera il battito, mi afferra il collo, martella la fronte, sputa, morde, graffia, corre, si siede sulla lingua, mi ostruisce le orecchie, mi comprime la mandibola, mi fa digrignare i denti.

Mi fa male tutto il tempo. Ma preferisco ancora i suoi colpi alle sue grida. Ogni volta che Novatchok e Swayze mi guardano, urla apposta per farmi sbagliare. Mi fa sedere quando mi alzo, mi scotta sotto il rubinetto, mi rovina le scarpe, mi buca i pantaloni, sporca il mio pigiama preferito, mi mangia le unghie, mi fa prudere le braccia, mi scrocchia le dita, mi scompiglia i capelli, mi rovescia lo yogurt, mi fa cadere dall’altalena, mi fa le orecchie nei libri, fa la pipì nella vasca, stropiccia tutto il piumone.

Il peggio è quando è ora di accendere la luce.

Al buio, il mostro spaventa persino i lupi rabbiosi sotto il letto, solo che, non posso fuggire dalla mia pelle.

Voglio che qualcuno lo uccida ma nessuno lo vede.

Voglio farlo morire ma non so come si chiama.

Ricerco il suo nome dappertutto.

Novatchok e Swayze credono che sia troppo piccola per capire tutte le parole. Per questo aspettano che vada a dormire per parlare davvero. Sono sicura che sanno qualcosa. Scruto le loro conversazioni per ore, sola nel freddo della prigione. Rintraccio il minimo indizio nel flusso di parole, memorizzo ogni frase, indago, seleziono, confronto, qualsiasi cosa mi potrebbe aiutare a farlo tacere.

La maggior parte delle volte li trovo in cucina; sgattaiolo fino al retro del divano giallo.

Quando vanno nel divano giallo, ritorno nel corridoio di cemento.

Quando si trovano in giardino, mi avventuro fino all’angolo della sala da pranzo.

È il posto più rischioso. Se uno dei due ha bisogno di andare al bagno, deve per forza passare davanti a me.

Mi nascondo dietro la tenda.

O corro nella camera di Grandolce.

Oppure, per la millesima volta, mi faccio scoprire, mento, fingo di tornare a letto e ritorno appena girano i tacchi.

Esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito, esci da me o infinito

Ogni sera, rannicchiata per ore, accarezzo lo schienale del divano giallo implorando questa frase senza fine.

Ho freddo.

Sonno.

Non miglioro di un millimetro.

Quando scoprirò il nome del mostro infinito, non avrò più paura.

*

L’isola Falcone

In polentonese, casa si dice focolare.

Il focolare degli spartani è una dimora di riposo che protegge dall’esterno. Ma non come un rifugio antiatomico, una camera di decontaminazione, una caserma dei pompieri o una scuola. No. Anzi, il focolare non è un unico posto. Ne esiste uno per ogni spartano, ma queste migliaia di luoghi hanno le stesse caratteristiche. Fa caldo e i materiali sono morbidi. Ci sono coperte, cuscini soffici, luci soffuse, oggetti personali, libri aperti, soldi per il pane di ieri, per le voglie del domani.

Abbiamo riposto tutto questo nel nido dell’isola Falcone.

Trascorro le giornate all’aperto,

l’essenza delle notti.

Ma rientrando, non trovo il focolare.

Non si tratta soltanto di un insieme di arredi. Nella bocca degli spartani, il focolare è un santuario, il tempio di una sensazione immediata, profonda, totale, l’intimmensità, direttamente proporzionale alla presenza dei propri intimmensi sotto lo stesso tetto. Più sono numerosi a identificarsi, più hanno caldo e voglia di restarvi, pronunciando di conseguenza frasi come Oggi è stato bellissimo, siamo rientrati al focolare ancora più contenti.

Questa polisemia mi reclude in una fossa.

Penso a forare, frantumare, affogare, affittare, depravare, fuorviare, infossare.

Penso a fottere il fuoco.

*

Morte cerebrale

Io sta per perdere il controllo della bocca.

Il soggetto mostra uno stato di agitazione preoccupante, sia sul piano psicologico che sul piano cognitivo.

Che cazzo succede?

Si ha:

– A motivo della mancanza di raffinatezza e di terminologia dell’umanità, il tumore maligno che perseguita Io dall’anno 3 non è risolvibile in nessun intervallo di lingua conosciuta: [panni sporchi], [continenza], [polentona], [incessante], [precisione], [salubrità].

– Non è quindi possibile per Io dare un senso alla sua infermità se non osservando il silenzio.

– La cancrena è reclusa dentro un parlare invisibile.

⇒ Io soffre di immanità.

Sorge l’oracolo Meteora.

– Meteora parla [amnosia], l’intervallo più potente ]raffinatezza; terminologia[ che Io abbia mai conosciuto.

– Io ha la certezza non dimostrabile di essere inclusa nell’umanità solo e soltanto se Meteora non smette mai di parlare.

– Io manifesta dei sintomi di afflizione incoercibili al minimo accenno di amnosia.

– Anche Meteora dichiara di provare una sensazione di risonanza inedita quando parla con Io.

Quindi: Meteora ragiona dunque con l’area malata di Io.

Oppure:

– Meteora ama un individuo (Io) che crede sano.

– Se Meteora si accorge che un elemento costitutivo di Io non appartiene all’umanità, scapperà via correndo.

Così:

– Il nome del tumore che impedisce a Io di essere inclusa nell’umanità esiste.

– Il nome appartiene esclusivamente all’intervallo [amnosia], la lingua parlata da Meteora.

– Io non possiede la chiave del suo parlare invisibile.

⇒ Meteora è l’unico essere umano a poter guarire il vizio di Io ma non deve assolutamente saperlo.

Léna Ghar

*La traduzione del testo di Léna Ghar e il complessivo servizio sono di Anna Chiara Santacà; in copertina: Georg Baselitz, Fingermalerei – Adler, 1972

Gruppo MAGOG