16 Febbraio 2018

“Prepariamoci alla fine della storia. Lo faremo armi in pugno”: 50 anni di Pierpaolo Capovilla (e nuovo disco). Intervista e tanti auguri

Secondo me. Lui raccoglie la “lingua di tutti i reprobi”. Poi la converte in musica. Mentre scrivo, nel sottosuolo del piccì, va You Don’t Exist. L’ultimo album degli One Dimensional Man, che sono forse l’ultimo residuo di utopia sonora in questo Paese di ballerine, la ribellione in forma di rock. L’album, per La Tempesta e Goodfellas, esce il 23 febbraio. Poi comincia il tour underground per presentarlo. Giavera del Montello, Roma, Pomigliano d’Arco, Bologna, Fermo, Milano. Per gentile concessione lo ascolto. Che potenza bastarda, finalmente. Pioggia d’acciaio liquido. Crepitio senza stucchi. Nocche di quarzo. Niente fiori sulle epigrafi, nessuna concessione. Botte. Botte. La traccia più bella? Io di musica ne so quanto un fringuello tenuto nel congelatore. In the Middle of the Storm. Dico io. Il primo album degli One Dimensional Man nel 1997. Vent’anni fa. Il 18 febbraio Pierpaolo Capovilla, questa specie di Chadzi-Murat della musica italiana, un guerrigliero con le stimmate dei perduti e la voce che viene da paradisiaci inferni, fa 50 anni. Girovagare del caso. Francamente. Contatto Capovilla senza sapere nulla dell’ultimo album degli One Dimensional Man, che, immagino, ha le dimensioni di un evento nel paludoso mondo musicale di questo lato di mondo, pressoché ‘sanremese’, claustrofobico. Né immagino le 50 candeline. M’importa la “lingua di tutti i reprobi”. Antonin Artaud. Succubi e supplizi. “La grande rivelazione di tutti i sistemi di formazione di dio nel mio coglione d’acqua di catarro sinistro”. Tra i demoni di Capovilla, che va in giro per l’Italia a dire Pasolini, a dire i poeti più esagerati e crudelmente nobili (“sono reduce da un reading majakovskijano”, mi scrive, qualche ora fa), quello più luminoso è Antonin Artaud, che ne stigmatizza il genio linguistico e musicale (Il Teatro degli Orrori è un parto di Capovilla dopo aver violentato AA). Va in giro a dirlo, Artaud, Capovilla, capace di donare – lo dice lui, via video, sbandato – “versi collerici e spaventosi, capaci di produrre in chi li ascolta uno stato d’ansia e d’angoscia veramente profondo e indimenticabile”, ma pure pregni di “un amore infinito, di una incredibile fiducia nei confronti dell’umanità”. Per dirla con Artaud, uno che sta dalla parte degli ammutoliti e dei matti e dei mutilati, dei reprobi e dei disfatti, “i demoni sono felici di essere buoni”. Questa innocenza che rilascia teschi, mi preda. Ed è qui – penso – nell’abbandono della consuetudine grammaticale (linguaggio come ribalta della ribellione, contro il linguaggio come tracotanza, ancella puttana del potere), nel delirio verbale, nell’al di là dei cuori, la frizione tra il disco degli One Dimensional Man come li ascolto io e Artaud. Ad ogni modo, di questo – ignari del tempo e del caso che centellina oro – abbiamo parlato io e Capovilla.

Sei succube di ‘Succubi e supplizi’, cioè di Artaud. Perché? Che cosa c’è in quella lingua e in quella storia che ustiona ancora?

Artaud
Lui è Antonin Artaud (1896-1948)…

“Scoprii il drammaturgo Artaud quando studiavo filosofia all’università. La mia compagna di allora, appassionata di teatro, me ne parlava assiduamente. Decisi di leggere Il Teatro e il suo Doppio. Fu una scoperta cruciale. Al poeta giunsi molto più tardi, anzi, solo recentemente. Ero alla ricerca di un autore da interpretare in pubblico agli incontri del Forum Salute Mentale, un gruppo di psichiatri basagliani che si battono contro la contenzione meccanica nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. E, santo cielo, Succubi e Supplizi mi è esploso in mano come una granata. Il verso più collerico ch’io abbia mai incontrato, un precipizio negli inferi del manicomio, un capolavoro della sopraffazione e del dolore, un infarto dell’anima e, infine, una parresia coscientemente disperata. Succubi e Supplizi ci mette di fronte all’ideologia psichiatrica, e ci impone domande che esigono risposte. Che cos’è la follia?, innanzitutto. Qual è la sua origine? È organica, è eziologica? O è piuttosto sociale e iatrogena? Artaud risponde a questa domanda, con una chiarezza ‘allucinante’, come direbbe Majakovskij. Perché l’allucinazione artaudiana è il cuore stesso della sua forza poetica, della sua rivolta al sistema sociale e politico, alla violenza prevaricatrice della pratica psichiatrica. Mi si è spalancato di fronte il purgatorio concentrazionario dell’esclusione e della stigmatizzazione manicomiale. Una seconda domanda che il suppliziato Artaud ci sputa in faccia: siamo o non siamo dei mostri? La risposta è perentoria, lapidaria, inevitabile: siamo dei mostri. Dei mostri che filosofeggiano, leggono i classici, recitano la democrazia, ma pur sempre dei mostri. Succubi e Supplizi è il racconto, gridato a squarciagola, della nostra cattiva coscienza, e del serpente fascista che coviamo in petto”.

Ti sei sempre circondato di affinità letterarie: Majakovskij, Pasolini, Baudelaire, Zanzotto, Huxley, per dirne alcuni. Perché? Che valore di detonazione ha la letteratura?

“Per come la vedo io, la letteratura è essenziale nel processo di acquisizione e interpretazione critica della realtà in cui viviamo. La poesia, in quanto testimonianza del vero di fronte al tiranno, lo è in particolar modo. La sua forza è tale da spingere le persone in carne ed ossa a rivoluzionare la propria stessa esistenza, a liberarsi dalle assurdità di ogni giorno, ad emanciparsi dal sistema di potere in cui vengono costrette le nostre vite. Senza queste affinità, le mie canzoni non servirebbero a un bel niente. Majakovskij sentenziava che l’arte non è la descrizione del mondo, ma lo scalpello dello scultore che quel mondo lo rifà daccapo. Ho sposato questa idea dell’arte e della cultura anni or sono. Questa idea ed io, non divorzieremo mai. Il nostro è un amore indissolubile. Come in un brutto film a lieto fine, è destinato a durare per sempre”.

Tema del giorno. Rapporti tra arte&potere. L’arte nasce sempre ‘rivoluzionaria’, in aperta contestazione. Tu hai detto, “Io mi potrei autodefinire un comunista majakovskijano”, e sai che Majakovskij, nel 1919, voleva costituire con i suoi un partito politico ma fu fermato da Lenin in persona, che lo guardava con alto sospetto. Non c’è mai conciliazione, allora, tra l’artista e l’esercizio del governo, del potere, di ogni potere?

“Nessuna conciliazione. Mai”.

Uno dei tuoi temi. Il lavoro. Tema prepotente e tracotante in Italia. Affrontato solo in termini di ‘fatturato’. Basta garantire lo stipendio agli italiani e sono felici tutti. Non è proprio così, forse. Come cambia il lavoro, oggi, come dobbiamo cambiarlo?

Pierpaolo Capovilla
…lui è Pierpaolo Capovilla, 50 anni il 18 febbraio…

“Ti ricordi Carmelo Bene al Costanzo Show? Certo che te lo ricordi. Ad un certo punto, vado a memoria e ci metto del mio, si parla dei minatori del Sulcis. Scioperavano da mesi, rintanati nelle gallerie, per mantenere il loro posto di lavoro, l’unico che avevano. Carmelo Bene si chiese, ma perché mai? Cosa può spingere gli uomini a lottare con tutte le loro forze per fare un lavoro tanto pesante, defatigante, e assassino? Ma la famiglia, ovviamente! Quei pover’uomini lottavano per mantenere le loro famiglie, per mandare i figli a scuola, per vivere dignitosamente un’esistenza onesta. E fu allora che quel geniaccio sputasentenze se ne uscì con una delle sue iperboli: ma perché non mandiamo affanculo la famiglia, e gli facciamo prendere una boccata d’aria a questi minatori? Si alzò repentino un coro di disapprovazione e scandalo. ‘Sento puzza di Dio’, disse Bene. Indimenticabile. Il maestro approfondì subito il suo ragionamento: la liberazione dal lavoro, e non solo quella nel lavoro: ecco il compito delle sinistre, un compito che non hanno saputo o voluto avocare a sé, e al quale hanno sempre rinunciato, in nome della cultura sindacale del Novecento. Geniale e definitivo, come sempre sapeva essere Carmelo Bene. Viviamo in un mondo che non è mai stato tanto opulento. Ma una sparuta e interstiziale minoranza di statunitensi possiede la stragrande maggioranza di tutte le risorse economiche del pianeta. La sperequazione è tale che trecentoventi milioni di cittadini nordamericani su sette miliardi di abitatori del pianeta consumano il venticinque per cento di tutte le risorse alimentari del mondo, e di queste ne gettano nella spazzatura più o meno la metà, non riuscendo neppure a garantire sicurezza alimentare per l’intero suo proprio consorzio umano. Questa assurda sperequazione è grottesca, e dovrebbe indurci tutte e tutti se non alla rivolta nelle piazze e alla distruzione popolare del sistema capitalistico, per lo meno ad un ragionamento critico: che senso ha questo sistema di cose in cui viviamo? Perché tanta ricchezza nelle mani di così pochi? E perché mai non costringere quei pochi all’irrilevanza politica? Dovremo tornare a Marx e alla teoria del feticismo delle merci. Dovremmo pretendere giustizia sociale, distribuzione delle ricchezze, uguaglianza, umanesimo, solidarietà fra i popoli, fratellanza cristiana. Una signora alcolizzata che incontro quasi ogni giorno all’osteria vicino a casa, una sessantenne che credevo ormai irrimediabilmente naufraga nei suoi bicchieri di troppo, qualche giorno fa si mette a gridare ‘un altro sessantotto! Ecco cosa ci vuole! Socialismo o barbarie!’. Cara, adorabile, dolce compagna alcolista, che affoghi la tua solitudine nel Campari, proprio tu, vecchia stronza, riesci a dire ciò che è vero, adeguato, ponderabile. Ma forse è troppo tardi. Un mondo migliore è possibile, uno peggiore è di gran lunga più probabile. Prepariamoci alla fine della storia. Lo faremo armi in pugno. Le armi dell’intelligenza e della cultura, ça va sans dire”.

Mi sorprende l’assoluta marginalità, oggi, della parola poetica. Voglio i poeti e le poesie nelle prime pagine dei quotidiani nazionali, ma la poesia – che riempie il web con afrori strani – è bandita. Una storia che si ripete. All’artista, con un sorriso sul viso, si toglie la parola, l’azione. Perché? Come si fa?

“Negli anni Sessanta Pasolini era fra gli editorialisti del Corriere della Sera. Oggi abbiamo Ostellino. È una storia priva di nobiltà, la nostra. Ma lasciami dire che la poesia non è poi così marginale. Ho partecipato e contribuito a numerose manifestazioni poetiche in giro per l’Italia. Qui a Venezia, dove vivo, si recitano poesie in un paio di bar. A Milano lessi Artaud in un circolo di giovani appassionati, ottenendo per altro un successo sorprendente. In Calabria ci sono veri e propri fanatici della poesia, che organizzano incontri nelle piccole piazze di borghi antichi e austeri. In Basilicata, come in una periferia romana, uno spettacolo pasoliniano inscenato dai miei cari amici e correligionari Tète de Bois, ebbe un’affluenza di pubblico che ricordo ancora con amore. In Sardegna ci andrò fra pochi giorni, proprio con Artaud, così come a Palermo, dove un circolo Arci denominato ‘Porco Rosso’, in quel di Ballarò, ha registrato già il tutto esaurito. Insomma, mi sembra di poter dire che la poesia ha ancora un suo spazio nel teatro culturale italiano. E che dire del compianto Alberto Dubito, scomparso troppo presto, ma entrato come un proiettile nel cuore grande e affannato di tanti giovani antagonisti? O di un Toni Bruna, che è vivo e vegeto (ma è troppo indaffarato, a quanto pare, per concedersi ancora). O della stessa nostra comune amica, Tiziana Cera Rosco, poetessa riconosciuta internazionalmente. Negli ultimi tempi proprio a me, che non sono che un interprete, vengono chiesti tanti di quei reading che mi vedo costretto a declinare un certo numero di inviti. Insomma, non tutto è perduto. La mia convinzione è che un suo bel posticino la poesia se lo sia riscattato. Ma è un posto voluto, preteso e conquistato da quella parte del paese sana e senziente, dalla sua massa critica, quella parte che viene sistematicamente marginalizzata dai media e dalla stampa, perché incompatibile con la propaganda sovrastrutturale, ma che esiste. Esiste eccome”.

Oggi. Cosa leggi, che musica ascolti, dove bisogna andare per ascoltare la musica buona?

One Dimensional Man
…questo è l’ultimo album degli One Dimensional Man, ‘You Don’t Exist’, prossimamente in giro

“Sto leggendo Le Dieci Leggi del Potere, di Noam Chomsky. Amo Noam Chomsky, l’amo come amerei un padre severo e affettuoso. E che emozione osservarlo in azione, alla sua veneranda età, in centinaia di dibattiti in tutto il mondo. La sua contro-analisi della società statunitense è quanto di più prezioso venga asserito oggigiorno; la semplice verità, contrapposta alla post-verità e all’inganno ideologico. Sto studiando Basaglia, che non avevo mai affrontato seriamente. Il mio problema è il tempo, quel dittatore. Perché sto curando una raccolta di poesie di Emidio Paolucci, un cinquantenne ergastolano, condannato per un omicidio che probabilmente non ha mai commesso. E sto scrivendo un romanzo tutto mio. È un’esperienza mortificante, ma avvincente come non mai. Raccontare le proprie esperienze, gli errori ed orrori commessi, le proprie disperazioni e speranze, e l’inaudita violenza che ci circonda, è qualcosa che non sapevo fosse tanto faticosa, e straziante. Mi sta cambiando la vita. La mia stessa persona sta cambiando. Ne uscirò distrutto. Ma chissenefrega. Ascolto ogni giorno due dischi non ancora pubblicati, quello di One Dimensional Man, in cui suono il basso e canto in inglese, e quello di Buñuel, altro progetto a cui partecipo come bassista, e in cui canta Eugene Sterling Robinson, un wrestler americano, campione d’arti marziali, mattatore di palcoscenici in tutto il mondo con gli Oxbow, il suo gruppo principale. Da molti, anche da me, è riconosciuto come un grande… Poeta! Non ascolto quasi nulla di ciò che viene pubblicato in questi tempi. Qualche mese fa sono incappato in un duo di punk inglesi proletari e comunisti, gli Sleaford Mods. Interessanti. Ascolto molto jazz, sopratutto mentre scrivo. Continuo ad amare Tom Waits, Scott Walker, e il Nick Cave degli esordi. Ma se c’è un autore che fa capolino con assiduità nel mio impianto stereo, voglio sorprenderti, è Pino Daniele. Dove ascoltare buona musica? So bene dove non ascoltarla: i talent show, quelle ignobili macellerie sociali, o lotterie del successo ad ogni costo, come se la musica fosse uno sport nel quale chi arriva primo vince lo scudetto. Resistono ancora alcuni centri sociali, e numerosi piccoli club; ci puoi andare senza sapere chi suona, e ascolterai comunque qualcosa di genuino, magari acerbo, ma genuino”.

Davide Brullo

 

 

 

 

 

 

 

Gruppo MAGOG