La mail mi colpisce con lo schianto, senza scampo, facendo lo scalpo ai ricordi, anzi, alla vita, perché la morte non muore mai, il morto germina nella vita dei vivi, cambia vita, a volte ringiovanisce, altre invecchia, a volte cambia volto e si reincarna nei nostri gesti più intimi. In questi nove anni, Simone Cattaneo, che si è ucciso alle prime ore del 10 settembre 2009, a Saronno, è ringiovanito, è diventato un bambino, spesso è a casa mia, sul letto, sotto il tavolo della cucina. Ma non voglio più parlare di Simone. La mail che mi schianta è del nipote di Simone Cattaneo: ha trovato, tra le carte del poeta, una manciata di racconti. Sono otto, scritti al computer o su macchina da scrivere. Pare che siano tra i primi scritti di Simone, precedono le poesie, pare. Simone Cattaneo, nato il 5 febbraio del 1974, esordisce alla poesia nell’ambito della rivista ‘Atelier’, pubblicando la placca “La pioggia regge la danza”, nel 1999, ed è inserito in alcune tra le antologie generazionali più importanti di quel tempo (“L’opera comune”, 1999, e “Dieci poeti italiani”, 2002). La prima raccolta poetica è “Nome e soprannome” (2001) seguita da “Made in Italy” (2008), entrambe pubblicate da Atelier Edizioni. Nel 2012, postuma, la raccolta definitiva (che raccoglie anche le due precedenti), “Peace & Love” (Il Ponte del Sale, 2012). I racconti, da cui ne ho scelto uno che ha violenza quasi profetica (ne pubblico una porzione, per gentile concessione), testimoniano, mi pare, con coerenza, la ricerca letteraria di Simone Cattaneo. Per ciò che posso testimoniare, Simone leggeva molta prosa, moltissima, per lo più angolofona: amava Saul Bellow – soprattutto “Il dono di Humboldt” – alcuni libri di Philip Roth, non troppo Norman Mailer. Su tutti, elogiava Denis Johnson, soprattutto adorava la raccolta di racconti “Jesus’ Son”. La sua cultura era straordinariamente cinematografica: adorava Martin Scorsese (“Quei bravi ragazzi”), ci pareva, a entrambi, che “Il cacciatore”, di Michael Cimino, fosse il film più vertiginoso di sempre; mi ha regalato le cassette – quando esistevano – di due film: “Scarface” (il film di Howard Hawks, del 1932) e “Donnie Brasco”. La sua fonte prioritaria, però, era “Il Principe” di Machiavelli, “il più grande romanzo della letteratura italiana”, soleva dirmi, per dire della sua rapacità come lettore. Penso che il nucleo dei racconti, quando sarà pubblico, fornirà agli studiosi un tassello in più per capire la poesia di Simone, i suoi esiti e il suo sviluppo, e l’insieme della sua opera; per chi lo ha amato, e solo l’ennesimo modo per dirgli grazie. (d.b.)
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Sono le sei e cinquantaquattro e stanotte mi sono suicidato una decina di volte.
È che non avevo un cazzo da fare. Sai quelle notti in cui non riesci proprio a prendere sonno?
Ecco: io se non riesco ad addormentarmi incomincio ad innervosirmi e, se mi innervosisco, poi non riesco più ad addormentarmi. E quindi resto sveglio. Sveglio e incazzato. E con la voglia di addormentarmi. Logico no? Logico come alzarsi dal letto incazzati in piena notte e uscire di casa per vedere quello che uno si perde dormendo – quasi niente, soprattutto in questa zona – o, perlomeno, per respirare. Respirare la mia vita. Non è difficile – talvolta è semplicemente necessario – cercare aria versa (anche smoggosa, chissenefrega) se si abita in una casa come la mia. Ingressino, stanzetta, cesso. Una sola finestra. E dove? In stanza? Magari! Nel cesso? Nel cesso basta la ventola. Una finestra è molto più utile nell’ingresso minuscolo, di fianco alla porta. O no?
Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, aumenti la mia malattia.
È una strofa che il mio cervello canticchia ad libitum nei giorni in cui non vuole addormentarsi ma nemmeno uscire di casa. E io sono costretto a restarmene nel letto con gli occhi fissi al soffitto ripetendo all’infinito questa nenia malaugurante. E comunque di solito tendo a sperare che certi pensieri, certe distorsioni momentanee dell’intelletto, abbiano una valenza, se non auto-psico-terapuetica, perlomeno soporifera. A volte ci riesco e mi addormento.
Oggi no. Ad un certo punto il cervello non ha più retto e mi ha issato di forza per farmi uscire di casa. Alle quattro e venti. So che non è la cosa più normale del mondo. Non lo è neanche per me: io di solito esco verso le tre.
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Dicono che Milano sia una città notturna. In realtà per indicare le tre a.m. si dice le tredinotte, per la quattro si fa un po’ come si vuole, ma per le cinque puoi star certo che quasi tutti dicono cinquedimattina. Milano è una città con le sue regole. Ne ha anche più di altre: dalle quattro anche la Milano Notturna si svuota quasi del tutto. Io comunque esco sempre prima delle quattro. A parte oggi. Non per essere sicuro che sia notte, ma perché mi sveglio alle cinquedimattina. Alle cinque e mezza i camionisti sono già qui, e non è gente che ha voglia di aspettare. Anche se non lo sanno, suonano a casa mia, perché il mio buco, pur avendo un ingresso autonomo, è stato ricavato da trentacinque metri quadri angolari del magazzino (quelli ad ovest, per l’esattezza, dove non batte mai sole che comunque non vedrei). Tuttavia anche se lo sapessero non credo farebbe questa gran differenza. Non vedono l’ora di andarsene. Probabilmente pensano, a ragione, di avere il diritto di dormire come io ho dormito fino a questo momento. Ma io dormo pochissimo. Talvolta rientro alle cinque e ventotto. Questo loro non lo sanno. Per loro la notte è tutta uguale. Le strade sempre le stesse. Forse le conoscono a memoria come io dovrei conoscere il Latino e il Greco. Forse a volte si dimenticano di svoltare ad uno svincolo che vedono sempre, che conoscono, in cui sanno che devono immettersi, semplicemente perché l’abitudine gioca brutti scherzi, disattenzioni, vuoti mentali, ma soprattutto disinteresse per ciò che si fa. Nel bene e nel male. È una cosa che capita anche a me con gli aggettivi, i sostantivi e le scatole di fagioli. Oggi ho infranto una delle mie abitudini uscendo alle quattro e venti. Milano dormiva.
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Alle quattro e mezza ho finalmente raggiunto il cavalcavia Palizzi con almeno mezz’ora di ritardo rispetto al solito. Per uno che abita in un angolo del magazzino del Comprabene che sta di fronte all’inizio (venendo dal centro) del cavalcavia, sarebbe più logico lasciarsi alle spalle quella salita comoda solo per le auto e addentrarsi a piedi verso viale Certosa. A me invece piace salire lassù e guardare il Comprabene dal basso. C’è la poesia dell’asfalto e del cemento, lì sopra. C’è la possibilità di guardare nella sua interezza e dal di fuori il perimetro asettico della mia vita. L’involucro esterno di cemento che racchiude ogni mio gesto quotidiano, ogni mio respiro. Tranne quelli da lì sopra. Da lì sopra è tutto reale. La mia vita si materializza tra le dita mentre stringo tra le mani il guard rail, la assaporo mentre mi passa sotto il naso mischiata all’odore che evapora dall’asfalto. Posso finalmente vedermi dall’esterno, osservarmi mentre mi muovo tra gli scaffali. Pensare che ho bisogno di dormire per potermi svegliare e ricominciare a muovermi tra casse e bancali di legno.
Svegliarmi per questo. Per quello che sto guardando. Sentire la fatica al solo pensiero di doverlo fare e allora sì, a quel punto, sentire davvero la stanchezza che mi si fa contro e tornare indietro, a casa, nel magazzino.
Ma oggi, stanotte, stamattina, come molte altre volte, la fatica non l’ho proprio sentita. Ho pensato ad altro. Ho pensato che forse non ha senso tutto questo. Ho pensato che sono tre anni che non studio. Che leggo qualche libro qualche volta. Che me ne sto a rovistare tra scatole di fagioli e pelati perché è quello che faccio, lo so, ma oggi no, non va giù questa cosa, e il sonno non saliva al cervello, restava aggrappato alle mie gambe. A volte va così. Tenere aperti gli occhi. Aspettare le cinque e un quarto. Ritornare giù. Sciacquarsi la faccia. Aspettare il suono del citofono. Ricominciare. Oggi era una giornata di quelle, ma con un dettaglio di cui non avevo tenuto conto. Ero uscito alle quattro e venti e si stava facendo veramente tardi. Mancava qualche minuto alle cinque quando, raggomitolandomi su me stesso e chinando il capo verso il bavero della giacca per accendermi una sigaretta, ho buttato lo sguardo di sotto.
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Ho sgranato gli occhi. Non l’avevo visto prima di quel momento. Probabilmente l’hanno costruito oggi. Un pontile. A due metri di distanza sotto di me. L’ho osservato meglio. Sì, non più di due metri. A livello inconscio credo di essere stato colpito subito dall’idea della sua esistenza. E anche dal fatto di non essermene accorto prima di quel momento. Dovevo per forza saperlo che era tardi, dovevo rendermene conto perlomeno dal fatto che qualcuno cominciava a passare di lì. Soprattutto camion. Eppure niente: non c’ho pensato, anzi, forse è stato proprio il passaggio di quelle vetture a farmi prendere la decisione. L’idea di essere visto. L’idea di non essere solo. Ho scavalcato il guard rail e sono salito in piedi sul parapetto. È stata la prima volta che ho deciso di suicidarmi.
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TUMMMpp…
…sono atterrato con gambe insolitamente stabili. La lamiera d’acciaio flessibile ha assecondato il mio moto gravitazionale, ha smorzato la forza d’urto. TUMMpp, si è sentito solo il botto. Poi ho flesso le gambe a ritroso e sono tornato in piedi. Ho teso alto l’orecchio. Niente. Mi sono seduto sul freddo pontile con le gambe a penzolare nell’aria. Ho acceso una sigaretta. E aspettato. Guardato, da lì sotto, di sotto, il Comprabene. Aspettato ancora. Fumato un’altra sigaretta. Quando ho capito che non sarebbe arrivato nessuno, ho deciso di tornare sul parapetto.
Simone Cattaneo